DSA - gobettivolta.gov.it · Biografia di Sigmund Freud ... Edgar Degas, La classe di danza,...

52

Transcript of DSA - gobettivolta.gov.it · Biografia di Sigmund Freud ... Edgar Degas, La classe di danza,...

1

Editoriale a cura di Lucia Alessio .......................................................................................... pag. 3 Biografia di Sigmund Freud di Bernardo Fantechi e Niccolò Righi 5aFLS ............................................................... pag. 3Musica Danza Teatro nella Vienna di Freud: il trionfo dell’Operetta ...................................... pag. 4Facciamo il punto sulla danzadi Angela Fiorenzani .............................................................................................................. pag. 5 Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo. Stefan Zweig di Valentino Mascherini 4aDSA ...................................................................................... pag. 10Uno strano metododi Lucia Alessio ........................................................................................................................pag. 11“Il nostro cuore volge al sud”. Freud in Italia tra natura, arte e cibodi Franco Banchi .................................................................................................................... pag. 16La città di Vienna tra ‘800 e ‘900di Giovanni De Lorenzo ......................................................................................................... pag. 20Gli scandalosi “abbracci” di Vienna. Klimt e Schiele, le due anime della Secessionedi Fabio Sottili ........................................................................................................................ pag. 24 Sublimazione arte e perturbante di Virginia Franchi e Alessandra Miele 5aFLS ................................................................. pag. 27 Il Sogno per Freud di Pier Giuseppe Rivano 5aALS ......................................................................................... pag. 29Storia della teoria cinetica e del suo tentativo di esisteredi Giovanni Venturi ................................................................................................................ pag. 30Il transfert dell’analistadi Giuliana Giubbolini ........................................................................................................... pag. 36 Il transfert di Federica Frezzi e Giulia Sinatti 5aALS ......................................................................... pag. 38La tela del ragno. Trattatello di psicoanalisi di Massimo Bartoli ................................................................................................................. pag. 39Storie di calcio. Vienna: la capitale del football europeodi Silvio Biagi .......................................................................................................................... pag. 45

Indice

2

Numero monografico a diffusione internaHanno collaborato a questo numero:

Istituto Superiore Gobetti-VoltaVia Roma, 75/77 - 50012 Bagno a Ripoli (Firenze)Tel 055 630087 / 6510107 Fax 055 [email protected]

Stampa: Grafiche Martinelli s.r.l. Via dello Stelli,2/b - 50010 Bagno a Ripoli (Firenze)

Questa pubblicazione è stampata interamente su carta riciclata Ciclus Print.

La realizzazione grafica e l’impaginazione di questo numero sono state curate dagli studenti del Liceo Gobetti che hanno partecipato allo stage di Alternanza Scuola-Lavoro.Coordinatore dello stage: Prof. Giovanni De Lorenzocon la collaborazione del Prof. Lorenzo TognocchiAssistenti tecnici: Teresa Santarelli - Andrea Barchielli

Gli studenti che con il loro impegno e la loro creatività hanno realizzato questo numero:

Lucia AlessioFranco BanchiMassimo BartoliSilvio BiagiAngela Fiorenzani

Balderi Andrea 4C LSBartolini Andrea 3ALSBonciani Elisabetta 4A LSBronconi Andrea 4A LSCappelli Matilde 4A LSDe Vita Enea 3ALSErmini Aurora 4A LSMura Martina 3ALSPerrino Michelangelo 3ALSPestelli Matteo 3ALSPetruzzi Corso 3ALSPicchiarini Lorenzo 3ALSPiccini Filippo 3ALSTarlini Diego 3ALSTerenzi Alberto 4A LSVannini Tommaso 3ALS

Giuliana GiubboliniGiovanni De LorenzoFabio SottiliGiovanni Venturi

Gli studenti Bernardo Fantechi, Alessandra Miele, Niccolò Righi e Virginia Franchi della 5a F LS con il coordinamento della Prof.ssa Angela Fiorenzani Federica Frezzi, PierGiuseppe Rivano e Giulia Sinatti della 5a A LScon il coordinamento della Prof.ssa Lucia AlessioValentino Mascherini della 4a D SAcon il coordinamento del Prof. Silvio Biagi

3

La città di Vienna si è trovata, nel passaggio tra il XIX e il XX, secolo al centro di una di quelle straordinarie fioriture culturali che talvolta emergono, sui luoghi di confine, dalla contaminazione tra culture diverse. Essa fu nel contempo la capitale di un declinante impero multietnico e multiculturale sempre più anacronistico nell’Europa degli stati nazionali, centro di un impero senza un nome preciso -”Austria” nella lingua comune, oppure “Austria-Ungheria”; ufficialmente “monarchia e/o impero Austro-Ungarico”, ovvero K. u. K. (“Kaiserliche und Königliche Doppelmonarchie”), “duplice monarchia imperiale e regia” o infine K. K. “duplice monarchia imperial-regia” - dove si parlavano almeno sei o sette lingue diverse, tra cui due ufficialmente rappresentate in due parlamenti separati, uno a Vienna e uno a Budapest, riuniti tuttavia sotto l’ambiguo vessillo imperiale dell’aquila a due teste. Nel romanzo “L’uomo senza qualità” Robert Musil ribattezza il regno degli Asburgo col nome di “Cacanìa” e ce ne lascia un ritratto indimenticabile: “secondo la costituzione era uno stato liberale, ma aveva un governo clericale. Il governo era clericale, ma lo spirito liberale regnava nel paese. Davanti alla legge tutti i cittadini erano eguali, non tutti però erano cittadini. C’era un Parlamento, il quale faceva un uso così eccessivo della propria libertà che lo si teneva quasi sempre chiuso (…) e ogni volta che tutti si rallegravano per il ritorno dell’assolutismo, la corona ordinava che si ricominciasse a governare democraticamente”. La grande capitale, che Karl Kraus definisce un “terreno di prova per la distruzione del mondo”, sintetizza l’ultimo raffinato canto del cigno della civiltà europea, prima della grande catastrofe novecentesca, e ne impersona gli aspetti più paradossali. È qui che vivono, operano, si incrociano, si frequentano i protagonisti delle grandi rivoluzioni culturali novecentesche: vi fiorisce il circolo filosofico di Vienna, i cui membri sono in contatto con Luwig Wittgenstein e Karl Pop-per; Arnold Schönberg inizia la rivoluzione dodecafonica; Gustav Klimt, Egon Schiele e Oscar Kokoschka avviano una profonda trasformazione della pittura; Adolf Loos apre la strada all’architettura moderna; il medico Ignác Semmelweis scopre i batteri; Boltzmann, Mach, Gödel, Schrödinger avviano profonde trasformazioni nella fisica e nella matematica, per non parlare della poesia con Rainer Maria Rilke o della letteratura con Artur Schnitzler, Robert Musil, Stefan Zweig, Hugo von Hoffmansthal... e si potrebbe continuare. La psicanalisi non poteva nascere che a Vienna, una città che, pur essendo il centro intellettuale e culturale dell’Europa fin-de-siécle, fu del tutto incapace di riconoscere il valore dei suoi geni - e Freud non fu il solo a farne le spese.

Editoriale

VITA DI SIGMUND FREUDSigmund Freud nasce il 6 Maggio 1856 a Freiberg, nella regione della Moravia. Figlio di Jacob Freud e di Amalia Nathanson, la sua era una famiglia ebrea di commercianti. Con essa, a causa di sconvolgimenti politico-econo-mici si trasferì, nel 1860, a Vienna. Fin da giovanissimo Freud si interessò alla cultura e agli scritti ebraici, in particolar modo alla Bibbia, ben presto però la fede lasciò spazio all’ateismo e Freud divenne avverso ad ogni tipo di religione, come affermato da lui stesso nel suo scritto L’Avvenire di un’illusione. Dopo un percorso di studi superiori brillante, nel 1873 Freud si iscrisse alla facoltà di medicina presso l’Università di Vienna, nella quale si laureò nel 1881. Nello stesso anno Freud lavorò per un breve lasso di tempo nel laboratorio neurofisiologico di Ernst W. von Brucke. Nel 1882 però, per ragioni economiche, fu costretto a lasciare la ricerca scientifica e ad intraprendere la professione medica, specializzandosi nella psichiatria. Dopo alcuni anni, nel 1885, grazie ad una borsa di studio, Freud poté trasferirsi a Parigi ed accedere alla prestigiosa scuola di neuropatologia della Salpetrière, diretta dal professor Charcot, il quale studiava i fenomeni dell’isteria.Nel 1886 sposò Martha Bernays con la quale ebbe ben sei figli. Nel 1889 Freud si trasferì per un breve periodo a Nancy. Tornato a Vienna si dedicò completamente alla professione di neurologo e, grazie a una serie di ricerche sull’isteria condotte in collaborazione con Josef Breuer, giunse alla scoperta dell’inconscio e pubblicò, nel 1895, gli Studi sull’Isteria, all’interno del quale è presentata la formulazione della teoria psicoanalitica. Nel 1900 Freud pubblicò un’altra opera che aveva aspetti rivoluzionari e sconvolgenti: L’Interpretazione dei sogni. In seguito alla pubblicazione di tale opera i sogni ebbero un peso sempre maggiore all’interno del pensiero di Freud, così come l’attenzione e gli studi che lo psicologo dedicò a questi. Il successo però tardò ad arrivare poiché alcune sue teorie vennero prese di mira dall’opinione pubblica, in particolar modo quelle relative alla sessualità infantile. Comunque sia, nel 1910 nacque, a Norimberga, la “Società internazionale di psicoanalisi”, di cui Carl Gustav Jung fu primo presidente. Nel 1933, in seguito alla presa di potere nazista, a Berlino vennero bruciate numerose opere tra cui quelle dell’ebreo Freud, il quale nel 1938 fu costretto a fuggire da Vienna per emigrare a Londra dove, dopo essersi ammalato di carcinoma della bocca, morì nel 1939.A cura di Bernardo Fantechi e Niccolò Righi (5aF LS)

4

er comprendere la nascita dell’Operetta, spettacolo variegato, composto di musica, danza e recitazione, che vede il proprio trionfo a Vienna, ma che in realtà ha origine in Francia, non possiamo prescindere da

una rapida sintesi che evidenzi almeno le tappe dello sviluppo che la danza, linguaggio artistico

spesso relegato negli ambienti degli “addetti ai lavori”, aveva compiuto fino a quel momento. Tracciare la storia dell’arte coreutica non è certo compito semplice poiché i copioni o canovacci coreografici sono raramente reperibili anche per la semplice ragione che, spesso, non esistono; essa, infatti, è stata e rimane un’arte princi-palmente empirica, quasi sempre tramandata oralmente o attraverso la tradizione delle scuole e dei teatri. è altresì importante tenere conto che la musica ha svolto, nel corso dei secoli, un ruolo di primaria importanza nei confronti dello sviluppo dell’arte della danza e che è stata strettamente connessa con la sua evoluzione.

Ai fini del nostro approfondimento l’excursus relativo alla storia della danza si ferma qui, per-ché il balletto nell’Ottocento, secolo d’oro per questo linguaggio artistico, esula da eventuali collegamenti con l’Operetta di cui vogliamo definire a grandi linee storia e peculiarità.Proprio il Settecento è infatti il periodo storico di riferimento nel quale si possono trovare le radici teatrali dell’Operetta: l’opera comique,il vaudeville, il Singspiel.1

L’opera comique è un genere operistico france-se contenente dialoghi parlati e nasce nel Sette-cento come genere teatrale portato in giro nelle fiere popolari da parte di compagnie che non avevano la licenza per rappresentare opere, vi-sto che le uniche due autorizzate erano l’Opéra e la Comédie Francaise. Siccome queste com-pagnie non potevano recitare opere in prosa, trovarono l’escamotage di condensare i dialoghi

Edgar Degas, La classe di danza, 1873-1875, olio su tela, 85x75 cm, Musée D’Orsay, Parigi

di Angela Fiorenzani

5

Affrontiamo il nostro viaggio nel mondo di Tersicore sorvolando sulle remote civiltà quali la egiziana e la greca, dove la matrice sacrale e religiosa era comune a tutte le manifestazioni coreografiche, e lasciando indietro anche altre epoche ad esse successive, per considerare il primo apporto sensibile allo sviluppo della danza: i “Trionfi” italiani del Trecento, sfilate in onore di qualche grande personaggio, a proposito delle quali la storia ci rivela che lo stesso Francesco Petrarca, incoronato sommo poeta in Campidoglio nel 1341, fu oggetto di tale tributo. In occasione di quei festeggiamenti, nel corteo che accompagnava il festeggiato si inserivano anche danzatori e suonatori per contribuire alla fastosità della cerimonia. Una abbondante iconografia testimonia la presenza di questa forma spettacolare anche nel secolo successivo, soprattutto presso la corte fiorentina dove, nella ritrovata gioia di vivere del Rinascimento che seguì al Medioevo, presero corpo le sfilate dei carri carnascialeschi e le feste di maggio. Considerando la coltissima corte medicea, è lecito pensare che la danza, componente determinante di queste manifestazioni, non fosse lasciata all’improvvisazione o all’estro dei singoli, ma regolata da precise norme e governata dai primi maestri di ballo che apparvero alle corti italiane. è proprio nel fervido clima umanistico, caratterizzante molti centri italiani del Quattrocento, che si registra la nascita di un nuovo personaggio della cultura: il teorico e maestro di danza.Se è fuori discussione l’origine italiana del balletto,1 il paese dove la danza incontrerà le sue migliori fortune sarà però la Francia che vedrà lo sviluppo del ballo di corte, il cui massimo esempio è il Ballet comique de la Royne, risalente al 15 ottobre 1581, prima composizione coreografica offerta al pubblico in una accezione spettacolare approssimativamente moderna, rappresentata davanti alle maestà regali di Caterina de’ Medici ed Enrico III al Petit Bourbon. La vicenda era mitologica e parlava di una maga incantatrice che trasformava gli uomini che la amavano in animali; la sua struttura tecnica era quella che si manterrà per lungo tempo: una ouverture, le entrèes, ed un grand ballet: nella prima si esponeva il tema della rappresentazione, nelle seconde qua-driglie di danzatori rappresentavano ciascuna una parte dell’azione e nel grand ballet erano presenti tutti i danzatori per il finale.La danza nel Seicento guadagna in Italia ancora gran successo attraverso il melodramma, del quale costituisce però spesso una forma complementare, oppure in rappresentazioni in prosa nelle quali riveste il ruolo di intermezzo. Sempre in questo secolo figura di fondamentale importanza è di nuovo un italiano, Giambattista Lulli, francesizzato Lully, fiorentino, condotto a Parigi appena dodicenne, musicista che incontrò Molière creando con il commediografo francese un binomio inscindibile, lui che era la personificazione dell’eclettismo di compositore-attore e danzatore, cosa non infrequente a quei tempi.Nel 1661 venne intanto fondata a Parigi l’Acadèmie Royale de la Dance che dieci anni dopo si trasformerà in Acadèmie de la Mu-sique et de la Danse,denominazione tuttora inscritta sul frontone dell’Opèra di Parigi e che rappresenta la consacrazione ufficiale del professionismo nonché l’inizio virtuale della storia del balletto accademico. Tralasciando i fenomeni del divismo e del virtuosismo che caratterizzano il Settecento sia in Italia che in Francia, dobbiamo invece citare la data del 1760, tappa fondamentale nella storia del balletto perché quell’anno vede la pubblicazione del celebre saggio di Jean Georges Noverre “Lettres sur la dance et sur les ballets”, opera che compendia, sul versante coreografico, le idee dell’epoca codificate dall’Enciclopedia.2 Noverre (1727-1810), danzatore lui stesso, coreografo e teorico della danza, reagisce all’indiscriminato edonismo virtuosistico dei primi ballerini con la teoria del “balletto d’azione”: al vuoto formalismo che aveva dominato finora il balletto, egli contrappone esigenze di contenuto, mirando all’espressione di sentimenti attraverso combinazioni coreografiche di passi meno complicati. Fu soprattutto a Vienna, a partire dal 1770, che Noverre poté applicare le proprie idee che già avevano dato frutti nella vita teatrale dell’epoca con riflessi anche nel campo della prosa, come dimostra il radicale mutamento dei costumi di scena degli attori della Comèdie Francaise nel senso indicato dal coreografo. A Vienna Noverre iniziò una feconda collaborazione con il compositore tedesco Christoph Willibald Gluck (1714-1787).3 Per un fenomeno naturale di simbiosi le idee sulla riforma melodrammatica dell’uno e quelle della riforma ballettistica dell’altro risultarono complementari e portarono a quel rinnovamento del teatro in musica che da lungo tempo era scaduto ad un puro fenomeno edonistico, con le fioriture vocalistiche dei cantanti e con il virtuosismo saltatorio ed acrobatico dei ballerini.Una delle conseguenze pratiche della riforma fu, come accennato, il radicale mutamento degli abiti di scena dei ballerini; ov-viamente il costume dei danzatori aveva subito sensibili evoluzioni dai balli di corte in avanti, ma adesso furono in particolare due ballerine, Marie Anne Camargo, belga, e Marie Sallé, francese, in polemica tra loro e iniziatrici del dibattito, ancora in voga in tempi vicini a noi, se la danza dovesse essere soprattutto un puro fenomeno virtuosistico o, piuttosto, un mezzo espressivo di sentimenti e stati d’animo dell’uomo in ogni epoca, che portarono le prime sostanziali innovazioni: sotto le gonne si cominciò ad indossare un “calecon”, abbandonando definitivamente il “panier”, accessorio indispensabile per sostenere le amplissime gonne, il corsetto e la parrucca, in modo tale che gli abiti fossero il più possibile consoni al tipo di azione che si era chiamati ad interpretare.Le idee che porteranno alla Rivoluzione francese si riflettono anche in qualche modo nel panorama artistico e sebbene la loro influenza sul balletto sia solo parziale, non si deve dimenticare l’abbandono degli immancabili argomenti mitologici. è del 1786, a Bordeaux, la prima rappresentazione del balletto La fille mal gardèe, su libretto e con coreografia di Jean Dauberval, allievo ed assistente di Noverre, fondamentale nella storia che stiamo ripercorrendo perché è il primo balletto “verista” o “di carattere” nella accezione più moderna del termine.4 I personaggi per la prima volta non sono storici o mitologici, ma persone di tutti i giorni, di estrazione contadina. Si tratta di un “intrigo campestre” in cui si narrano le disavventure di una madre ingenua che sorveglia così poco efficacemente la figlia da permettere al suo spasimante di entrare nella sua stanza.

Facciamo il punto sulla danza

1 Cfr. Luigi Rossi, Storia del balletto, Mondadori ed., 1961, pag 14: «[…] “balletto” o “ballitto” fu usato per la prima volta in Italia, in luogo di ballo, agli inizi del Cinquecento e certamente voleva indicare – anche in termini lessicali – una differenziazione di un’arte che andava fornendosi proprie regole precise nei confronti della danza indiscriminata e spontanea.»

2 Cfr. Jean Georges Noverre, Lettres sur la Danse et sur les ballets, a cura di Alberto Testa, Di Giacomo ed., 1980.

3 Christoph Willibald Gluck (1714 – 1787), compositore tedesco attivo soprattutto come operista, iniziatore del periodo storico musicale che va sotto il nome di Classicismo Viennese, e che riguarda la seconda metà del XVIII secolo. Riformò l’Opera seria, semplificandone la trama e cercando un giusto equilibrio tra musica e canto.

4 «Genere di danza con basi accademiche che immette nella tecnica passi derivati dal folklore, o dal carattere, ovvero appartenenti al patrimonio popolare di questo o quel paese» (cfr. Alberto Testa in Balletto Romantico, per Storia della Danza e del Balletto).

6

dei personaggi in versetti che venivano can-tati e accompagnati da motivetti popolari. Il vaudeville, sempre francese e coevo della su citata opera comique,fa riferimento ad un genere teatrale indicante una commedia di argomento “leggero” dove le parti cantate lo erano su arie di patrimonio comune, ap-punto “vaudeville”, termine usato in Francia fin dal Quattrocento per indicare canzoni di contenuto spesso licenzioso o satirico. Infine il Singspiel, letteralmente “recita cantata”, è un genere operistico molto popolare a partire dal Settecento e che si mantiene in voga per tutto l’Ottocento, nato e diffusosi in area tedesco-austriaca, la cui caratteristica di base

è l’alternanza di parti recitate e parti cantate. I recitativi sono in lingua tedesca come nel teatro di prosa e i brani cantati sono in genere semplici, simili ai Lieder.2 Tutti e tre questi generi, accomunabili anche alla ballad opera inglese e alla zarzuela spagnola, sono accomunati da una matrice di teatralità popolare assolutamente non colta, molto sponta-nea, con le parti scritte in una lingua che valoriz-za le parlate locali. Tutti gli spettacoli che fanno ad essi riferimento erano dunque destinati ad un pubblico affatto di élite, che andava a teatro per divertirsi e perché, magari, conosceva già le arie, le quali avevano presa perché di facile ascolto. I palcoscenici dove questi spettacoli venivano

rappresentati erano quelli dei piccoli teatri. Saranno poi i grandi musicisti che nobili-teranno tali generi, a comin-ciare ad esempio da Mozart con Il ratto del serraglio ed Il flauto magico nel caso del Singspiel.Possiamo a questo punto definire anche il ruolo della danza all’interno dell’O-peretta: è il valzer il vero protagonista, che si rivela dal punto di vista coreografico quanto mai duttile, capace di modellarsi sulle più diverse implicazioni psicologiche. Il valzer, danza rotatoria e vorticosa, era la rappresenta-zione e specchio di un’epoca e di due stati d’animo diffusi, che si alimentavano a vicen-da: un desiderio nevrotico di

piacere e un senso angoscioso di inquietudine. Il tempo di valzer rappresenta bene l’ossessione della società viennese immersa in un fugace edonismo. Nell’economia dei simboli e degli stereotipi drammatico-musicali, il valzer svolge

la funzione che nell’opera assume il canto me-lodioso: è l’espressione degli affetti allo stato puro, dell’umano nella sua “quintessenza”, ma anche dell’inesorabile fatalità che lo sospinge. Le altre danze, ad esempio la polka in La vedova allegra (con la successiva introduzione che accompagna, ad apertura di sipario, il brusio degli invitati all’ambasciata pontevedrina di Parigi, con frusciare di crinoline delle signore elegantemente vestite, alle quali sono rivolti baciamani e salamelecchi) così come le altre danze quali gavotte, mazurke, corrispondono a momenti diversi della costruzione dramma-turgica e sono pezzi “di carattere”, evocazioni d’atmosfera e d’ambiente.Se Offenbach in Francia incarnava nell’Ope-retta lo spirito della satira, Lehar3 a Vienna rappresenta invece l’inclinazione al sogno; la diversità di registro tra i due creatori dello stesso genere era l’effetto di un mutamento di tempo e di luogo, perciò a questo punto è doverosa una contestualizzazione.

La condizione psicologica di Vienna, la capitale real-imperiale al volgere del secolo, koniglich und kaiserlich, era quantomai unica ed autenti-ca: la sua massima fioritura culturale coincideva con la disgregazione dell’impero asburgico che l’aveva resa grande e famosa. Vienna era insieme, negli anni che stiamo trattando, una città barocca che ospitava anche edifici moderni; ne è testimonianza la Ringstrasse, il viale che circondava il centro storico della città, costruito per l’evento dell’Esposizione Universale del 1873. Il senso dell’ordine che emanava il decoro enfatico delle facciate dei palazzi nonché la persistenza anacronistica di un impero millenario, era in realtà percepito come un sottile involucro di apparenze sotto il quale si intuiva l’abisso. La sensazione della fine di un’epoca si incarnava nella figura stessa del vecchio imperatore Francesco Giuseppe: nel 1905, quando si rappresentò a Vienna La vedova allegra, egli aveva 75 anni; sedici anni prima era morto a Mayerling il suo unico figlio, nel 1898 sua moglie a Ginevra ed egli stesso era il più vecchio imperatore del mondo. Le élites culturali negavano gli avvenimenti che avevano luogo intorno a loro e rivolgevano la loro attenzione all’interno dell’uomo, a quei suoi aspetti fino ad allora nascosti e miscono-sciuti, atteggiamento che sta alla base anche della nascita della psicoanalisi secondo molti studiosi. La stragrande maggioranza della popolazione, però, come si legge nel testo di Bruno Bettelheim La Vienna di Freud,4 cercò un’altra via di fuga all’incertezza del momento storico che vedeva sgretolarsi quel mondo fatto

Walzer Incisione da un

almanacco del 1907

Due Bozzetti di Ivan Stefanutti per

La Vedova Allegra

7

di sicurezza e tradizioni, fondato sulla storica solidità dell’impero asburgico. La soluzione fu divertirsi, spensieratamente, e con la prima dell’opera Il pipistrello nel 1874 Vienna fu di nuovo in auge come dominatrice del mondo... dell’Operetta!Forse questa può essere un’analisi sommaria o tendenziosa, ma sta di fatto che Vienna, un tempo centro di cultura con la “c” maiuscola, dell’opera lirica, del “testo serio”, assurse adesso al primo posto per l’Operetta e, soprattutto, per la musica da ballo. Velocemente il valzer vien-nese aveva conquistato il pubblico, affiancato dalle Operette di Strauss, Lehar, Suppè ed altri.5

Se la contestualizzazione dell’Operetta viennese è piuttosto precisa, risulta estremamente vago ogni tentativo di definire le caratteristiche del genere, al di là di ribadire la sua natura di com-mistione tra danza, musica e parlato. Più che in una formula drammaturgica l’Operetta si andò a poco a poco identificando come un insieme di elementi teatrali che andarono ad occupare uno spazio lasciato vacante nel corso del XIX secolo dalla progressiva espulsione del comico dalla musica “di rango” e, soprattutto, dal teatro musicale di nobili origini. Nell’epoca idealistica e romantica, dominata da una rappresentazione essenzialmente tragica della realtà, viene infatti a confluire nell’Operetta un mondo di umori ri-masti esclusi quali la satira, l’umorismo, l’ironia, lo scherzo, la caricatura, ma anche di mezzitoni come il tragicomico, il semi-serio, il quasi pa-tetico che l’idealismo relegava su un piano di minorità artistica e morale. Questa medietas, a metà tra il nobile e il plebeo, fra l’autentico e il kitsch, offre all’Operetta una possibilità di “giocare con il linguaggio”, di mescolare i livelli artistici, di coniugare l’aulico con il volgare così da stendere su tutto un velo di ambiguità e generare la continua possibilità del doppio senso. è appunto questo particolare rapporto con il linguaggio che permette all’Operetta di riscrivere la realtà, funzionando essa da filtro, di farne la parodia, sia quella corrosiva alla Of-fenbach che quella più indulgente e sognatrice di Lehar. Molti l’hanno definita un’opera comica che non si prende troppo sul serio; anche l’impiego del parlato va nella stessa direzione e, lungi dal rap-presentare un tratto di realismo, evidenzia invece il senso convenzionale e ammiccante del canto.

Definibile sia come genere musicale che teatrale, l’Operetta nasce in Francia nel 1856 con Jacques Offenbach, compositore ebreo tedesco naturaliz-zato francese, con la sua Le rose de Saint-Flour e successivamente si diffonde in Austria. Non è

un genere nuovo, visto che le radici storiche affondano negli spettacoli teatrali del Sette-cento, ma la vera novità consiste soprattutto nel ruolo che in essa è affidato alla danza ed alle coreografie, alle quali sistematicamente si alternano parti recitate e parti cantate. è dunque la danza su determinate arie che di-venta la parte più godibile di questo genere teatrale e musicale, una danza “leggera” dal punto di vista interpretativo, facilmente frui-bile dallo spettatore, vivace ed allegra, privata di virtuosismi divistici, assurta a movimento coreografico d’insieme, inserita in un contesto privo di eccessiva sfarzosità scenica, ma che tiene conto in maniera piuttosto realistica

I sovrani aprono le danze a corte, in un dipinto cinquecentesco

L’interno delTheater an der Wien

8

dell’ambiente di riferimento.Lo schema dell’Operetta, la quale nell’Ot-tocento diventa un vero e proprio spettacolo a sé stante e non più una “piccola opera”, è piuttosto fisso; la musica è alla base della sua struttura e permette al compositore, che quindi diventa “narratore”, di creare l’ambiente di riferimento, ma anche di delineare la psicologia dei personaggi e di sottolinearne le emozioni; queste ultime vengono in genere affidate ad uno strumento solista. Per la caratterizzazione di un personaggio in generale e dell’ambiente in cui si muove il compositore ricorre ad un partico-lare brano musicale. La partitura comprende anche arie che rappresentano “reminescenze”, cioè episodi precedenti all’opera, una sorta di flashback, che nel corso della rappresentazione non subiscono mutamenti; inoltre ci sono leit motiv che rappresentano persone diverse o concetti astratti.L’Operetta è in genere formata da tre atti, di cui il primo presenta la vicenda e i personaggi, il secondo è la vicenda nel suo dipanarsi, il terzo è lo scioglimento dell’azione, in genere

a lieto fine.Gli attori principali sono quattro: un tenore, un soprano, una soubrette, un carattere comico, ai quali si affiancano a volte due attori secondari. Insieme sono presenti in terzetti, quartetti, quintetti all’interno dei tre atti, mentre singo-larmente cantano un’aria o una canzone caratte-rizzante. Ogni attore entra in scena da solo o in coppia, oppure accompagnato dal corpo di ballo che rappresenta la comunità di riferimento della storia. Le ballate, infine, esprimono i sentimenti condivisi dalla maggioranza dei personaggi e seguono generalmente un lungo parlato.

Se l’Operetta francese spinge soprattutto verso la satira e la parodia, prendendo come spunto indifferentemente personaggi esotici o leggendari deformati caricaturalmente, in-sistendo su un dialogo spesso ornato di doppi sensi e di battute piccanti, l’Operetta viennese si caratterizza di più per l’aspetto sentimentale della vicenda. Il primo grande rappresentante di essa è il già citato Franz Lehar con la sua La vedova allegra andata in scena nel 1905, la quale ebbe risonanza mondiale e divenne il modello di questo genere teatrale. La vicenda si svolge a Parigi nel palazzo del barone Mirko Zeta, ambasciatore del Pontevedro, dove è in corso un ricevimento con cui viene festeggiato il compleanno del sovrano del piccolo Stato balcanico di pura invenzione. In mezzo alle danze ed agli intrighi amorosi di questa corte, tra gli invitati c’è anche Hanna Glawari, giova-ne vedova di un banchiere pontevedrino, appena giunta a Parigi con la scusa di prendersi un periodo di riposo, ma, in realtà, probabilmente per trovare un nuovo marito. L’ambasciatore deve impedire alla giovane signora di sposare un francese perché se le ingenti sostanze dei Glawari uscissero dalla madrepatria, il piccolo principato di Pontevedro farebbe immediata-mente bancarotta. Secondo l’ambasciatore il candidato ideale sarebbe il conte Danilo, aristo-cratico segretario d’ambasciata dedito ai piaceri mondani e candidato ideale perché il patrimo-nio di Hanna rimanga in mani pontevedrine. I due, tra l’altro, avevano avuto una relazione amorosa in gioventù, ostacolata però dallo zio di lui perché Hanna, all’epoca, era una donna povera. Ecco dunque che, in mezzo a crinoline, baciamani, corteggiamenti, si inserisce anche una vicenda di carattere “diplomatico” che farà da cornice al quadro di questa società decadente e nostalgica, essendo la storia ambientata all’i-nizio del Novecento. Il secondo atto procede tra festeggiamenti di carattere pontevedrino, con danze e canti nostalgici della patria lontana, mentre gli aristocratici dibattono sulla natura

La vedova allegra di Franz Lehar,

New York

9

misteriosa delle donne e sulla loro infedeltà. La moglie stessa dell’ambasciatore flirta con un giovane aristocratico, Camille, e la tresca, scoperta dall’ambasciatore stesso, è in qualche modo “trasformata” attraverso un espediente usato da Hanna per testare il vero innamoramento di Danilo nei suoi confronti. Il terzo atto vede lo svolgersi della parte parigina della festa, secondo la moda musicale e coreografica dell’epoca e, dopo ulteriori colpi di scena che riguardano sia Hanna che la giovane moglie dell’ambasciatore, si giunge al lieto fine della vicenda, con Danilo e Hanna che finalmente si dichiarano un amore non più venale e l’ambasciatore che perdona la civetteria della giovane moglie.La festa e la vicenda si concludono dunque se-condo la formula “e vissero felici e contenti”, ma con l’aggiunta di una morale in auge nella società dell’epoca, la cui aristocrazia era ormai avviata al declino lento ma inesorabile: la donna trionfa sempre con la sua perspicacia e il suo savoir faire, ma rimane un insondabile enigma agli occhi dell’uomo. La vera morale è comunque ancora un’altra: ciò che si evince dalla Vedova allegra è l’inconsistenza della facciata di decoro e delle buone maniere e sentimenti dietro cui si celano le dinamiche della vita. Nella società in cui questa Operetta è ambientata l’amore ha comunque uno stretto rapporto con il denaro, sia che esso venga acquisito da qualcuno che fino ad un attimo prima non lo aveva, sia che esso da qualcuno venga donato ad altri.Pur essendo un genere ormai storicizzato del teatro musicale, l’Operetta continua ancora oggi ad essere popolare nei teatri dei paesi dove ha avuto origine. Anche in Italia esistono compa-gnie che mettono in scena operette, delle quali una delle più antiche è la Compagnia italiana di Operette che risale al 1953, fondata in territorio

NOTE

1 Cfr. Wikipedia per le voci relative.2 Cfr. Wikipedia: Lied (plurale Lieder) è una parola tedesca, che significa letteralmente “canzone” (o romanza). Tipicamente i Lieder sono composi-

zioni per voce solista e pianoforte.3 Franz Lehàr (1870 – 1948), noto compositore ungherese di Operette; cfr. Wikipedia.4 Bruno Bettelheim, La Vienna di Freud, Feltrinelli ed., 1990.5 Die lustige Witwe (La vedova allegra), assieme a Gräfin Mariza (La Contessa Maritza) e Die Fledermaus (Il pipistrello), formano il cosiddetto

“Trittico di Operette danubiane”.6 Il temine “danubiano” rende omaggio a quella grande civiltà che fu l’Impero austroungarico al suo tramonto e che vide Vienna e le grandi città

dell’impero, con Budapest nel ruolo di coprotagonista, farsi culla di uno straordinario fermento multiculturale.

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

Archivi della Fondazione Teatro Lirico “Giuseppe Verdi” di Trieste, per il Festival internazionale dell’Operetta.Bruno Bettelheim, La Vienna di Freud, Feltrinelli ed., 1990.Aldo Masella, Storia della danza, Tuttodanza interlinea ed., 2000.Jean Georges Noverre, Lettres sur la Danse et sur les ballets, a cura di Alberto Testa, Di Giacomo ed., 1980.Luigi Rossi, Storia del balletto, Mondadori ed., 1961.The Simon & Schuster Book of the Ballet, Mondadori ed., 1979.Wikipedia: www.wikipedia.org.

milanese. Il repertorio a cui si attinge ancora oggi è comunque sempre quello francese, viennese o “danubiano”,6 con copioni tardo ottocenteschi che necessitano di traduzioni e rivisitazioni. Non esistendo inoltre partiture a stampa dell’epoca per quanto riguarda le musiche, il responsabile di questo settore deve arrangiarsi per ricostruire il repertorio musicale basandosi su parti d’orchestra o su spartiti di canto e pianoforte manoscritti ancora reperibili.

Parente stretto dell’Operetta è il musical, genere di rappresentazione teatrale e cinema-tografica nato originariamente in Inghilterra e sviluppatosi negli Stati Uniti: anche in questo genere di spettacolo l’azione scenica è portata avanti dall’alternanza di recitazione, canto e danza, linguaggi che si avvicendano in ugual misura. Questo genere di spettacolo, che ha ormai al suo attivo quasi cento anni di storia e che ha visto l’avvicendarsi di un enorme numero di scrittori di soggetti, compositori di musiche, coreografi, costumisti, sceno-grafi, illuminotecnici, è parte integrante della nascita e dello sviluppo dello show business del XX secolo, sia per quanto riguarda lo spettacolo dal vivo sia per la produzione cinematografica.Il mondo del musical può oscillare da temati-che “leggere” o favolistiche, ricalcando in ciò la strada dell’Operetta e attirando il pubblico semplicemente desideroso di evadere dalla realtà quotidiana e di cercare il divertimento in uno spettacolo leggero, fino ad altre di argomento più profondo, legate al periodo storico e al contesto socio-culturale in cui quel determinato musical è prodotto. Ma questa è un’altra storia...

10

Il Mondo di ieri

tefan Zweig nasce a Vienna nel 1881. Sono gli ultimi anni della monarchia austriaca, di quel mondo che lui stesso definirà “della sicurezza”. Cresciuto in una famiglia della ricca borghesia ebrea, è da subito inserito nel contesto di grande cultura letteraria e linguistica della città.In un’epoca in cui l’insegnamento con la sua freddezza e rigidità suscita avversione verso l’ambiente scolastico, fiorisce una generazione di giovani letterati ispirati da poeti di lingua tedesca (Goethe, Rilke, von Hoffmannsthal) e stranieri (Baudelaire, Whitman). Zweig ne fa parte, e la sua esperienza adolescenziale lo porta a incentrare la sua vita sulla letteratura. Conseguiti gli studi letterari, nel 1900 si iscrive a Filosofia all’Università di Vienna e nel 1902 prosegue gli studi a Berlino. Nel decennio successivo compie molti viaggi nel continente (soprattutto Parigi e Londra) e fuori (Asia e America), e ha l’opportunità di confrontarsi con culture straniere e di conoscere importanti e famosi letterati, pensatori e politici del tempo. Le molteplici esperienze

costruiscono in lui una coscienza europeista, duramente colpita dal primo conflitto mondiale durante il quale si rifugia in Svizzera (1917), terra neutrale. Tornato in Austria (1918), seguono anni pacifici che si prospettano di redenzione per un’Europa ormai conscia del danno provocato. Sono gli anni che segnano il successo di pubblico di Zweig, culminato con la raccolta di racconti Sovvertimento dei Sensi (Verwirrung der Gefühle). Diventa l’autore più tradotto al mondo dopo una prolifica produzione di poesie (già dagli anni del liceo), opere teatrali e biografie. Nel 1920 si sposa con Friderike Maria von Winternitz, conosciuta dopo essere tornato in patria, e con lei si trasferisce a Salisburgo.A due ore da Monaco, ha la possibilità di osservare ogni graduale cambiamento che porterà la Germania alla dittatura di Adolf Hitler. Sono anni in cui il regime nazista si fortifica, e inizia a imporre leggi razziali e censure: nel 1933, in Germania, i libri di Zweig vengono bruciati, sorte di cui andò fiero. Guidato dalla sua lungimiranza, si trasferisce in Inghilterra (1934). Nel 1938 divorzia dalla moglie, e l’anno successivo sposa la giovane Lotte Altmann, sua segretaria.Quando sente avvicinare la nube temporalesca della guerra, dopo la chiamata inglese alle armi, è identificato come nemico del paese del quale era stato naturalizzato e si rifugia a New York. Il Brasile è il paese dove trascorrerà gli ultimi anni della sua vita, e lì nel 1942 si suiciderà insieme alla sua seconda moglie, con un’overdose di Veronal.Il mondo di ieri (Die Welt von Gestern. Erinnerungen eines Europäers) fu scritto negli anni dal 1939 al 1941 e pubblicato la prima volta a Stoccolma, postumo, nel 1942. Commenta un arco di tempo che si protrae da poco prima della nascita dell’autore fino alla dichiarazione di guerra da parte dell’Inghilterra alla Germania. In questa autobiografia, una narrazione dinamica si combina con un linguaggio fluente e piacevole, frutto di un vero e proprio poeta di altri tempi, e con l’eccezionale vita trascorsa da Zweig in giro per il mondo, soprattutto nella sua amata Europa. Il testo si sviluppa cronologicamente, e la biografia dell’autore va di pari passo con la cronaca storica, riportando fedelmente gli avvenimenti ma commentandoli con la grande interiorità di chi li ha vissuti sulla pelle. L’intellettuale viennese (Stefan Zweig) rievoca i luoghi delle sue memorie vividamente, spesso aggiungendo singoli eventi da lui vissuti in prima persona, dai quali si comprende l’atmosfera del più ampio contesto di un periodo storico meglio che da qualsiasi libro di storia. Grazie alle sue amicizie con grandi uomini di grande cultura, l’autore riesce a presentare un quadro generale della produzione artistica europea, soprattutto letteraria, di mezzo secolo. Attraverso le sue parole è possibile scoprire sfaccettature di personaggi famosi non note al pubblico, o trovare conferma riguardo alla loro personalità e stile di vita, e vederli non semplicemente quali icone ma anche come esseri umani. La citazione da Shakespeare all’inizio del libro, ripresa dal Cimbellino, “andiamo incontro al tempo come esso ci cerca” è un messaggio che può avere varie interpretazioni. Forse significa che bisogna adattarsi alle varie epoche storiche, e muoversi con sapienza e decisione nella vita, oppure che ognuno deve assumere un determinato ruolo quando se ne presenta il bisogno? Una cosa è certa, Zweig ha avuto un importante ruolo durante la sua vita, e ha saputo leggere la storia meglio di molti altri. Decenni dopo la sua morte, la sua figura assume persino maggiore importanza: denunciando crimini del passato, analizzando pericolose dinamiche e fenomeni sociali, riesce a riportare alla vita un mondo che sembra appartenga al passato remoto, nonostante condivida alcune delle insidie del presente.

Ricordi di un europeo. Stefan Zweig

di Valentino Mascherini. 4aDSA

11

egli anni ottanta dell’Ot-tocento il mondo acca-demico è coinvolto nella Methodenstreit, il dibattito sul metodo della scienza. Wilhelm Dilthey conia l’opposizione tra Gei-steswissenschaften, scien-ze dello spirito (o scienze

sociali) - quell’insieme di discipline che hanno come oggetto il mondo umano - e Naturwis-senschaften, scienze naturali. Al positivismo, che prevedeva la riduzione delle scienze dello spirito a scienze naturali unificate dallo stesso modello esplicativo, Dilthey oppone l’irriduci-bilità delle prime alle seconde: le scienze sociali hanno come oggetto l’uomo nella sua coscienza immediata, le scienze della natura assumono invece un oggetto esterno all’uomo; le une hanno dunque a che fare con un’osservazione esterna, le altre con una Erlebnis, ovvero una esperienza soggettiva interna all’uomo, pertanto non generalizzabile.

Gli anni della formazioneFreud ebbe al Reale Ginnasio di Leopoldstadt una formazione umanistica: qui studia latino e greco, l’arte e la letteratura classiche, si interessa agli studi storici e impara, oltre alle lingue antiche, l’inglese e il francese. Per conto suo intraprende anche lo studio dell’italiano e dello spagnolo: se si considerano l’ebraico, il

Uno strano metodo

tedesco e forse qualche reminiscenza di iddish, il dialetto di origine dei suoi genitori galiziani, Freud è in grado di comprendere otto/nove lingue. Non è del tutto casuale che il suo metodo si basi sulle “parole”, sul decifrare i sogni come fossero una scrittura antica. Dopo una certa incertezza se intraprendere studi giuridici o sociali, si iscrive alla facoltà di medicina, che allora era conside-rata un indirizzo a metà strada tra umanistico e scientifico. Nei primi anni dell’università segue corsi, non obbligatori, di materie umanistiche, anche se in seguito si interesserà a ricerche sperimen-tali, in particolare quando ottiene l’incarico di ricercatore a Vienna: le sue ricerche sulle strutture nervose dei gamberi contribuiranno alla elaborazione della nozione di neurone come unità del sistema nervoso. Tuttavia non si sente portato per le materie scientifiche e i suoi studi di medicina si trascineranno stanca-mente per sette anni. Dopo la laurea inizia a lavorare all’ospedale generale di Vienna in vari reparti: continuando a effettuare ricerche sul sistema nervoso passerà sei mesi nella clinica psichiatrica. Nel 1896 scrive in una lettera al suo amico Wilhelm Fliess: «Da giovane non avevo altro desiderio che per la conoscenza filosofica, e ora, con il passaggio dalla medicina alla psicologia, sono in procinto di soddisfar-la».1 Freud ha 30 anni e ha finalmente trovato la propria direzione.

Progetto di una psicologiaNel dibattito sul metodo, Freud si schiera con decisione dalla parte delle scienze della natura:

di Lucia Alessio

Flectere si nequeo superos acheronta movebo

12

la sua teoria della psiche considera l’essere umano come oggetto naturale. Il primo tenta-tivo di formulare una metapsicologia risale al 1890. Il progetto, mai terminato e pubblicato postumo, rappresenta il tentativo di descrivere la teoria psicologica (fenomenologia psichica), emersa per sostenere la sua pratica clinica, in termini neurofisiologici, ovvero: «si tratta di vedere quale forma prende la teoria del fun-zionamento psichico se vi si introducono con-siderazioni quantitative, facendone una specie di scienza economica della forza nervosa».2

Ecco come descrive il suo intento nell’accin-gersi a comporre il Progetto di una psicologia: «L’intenzione di questo progetto è di dare una psicologia che sia una scienza naturale, ossia di rappresentare i processi psichici come stati quantitativamente determinati di particelle materiali identificabili, al fine di renderli chiari e incontestabili».3 Gli elementi quantitativi qui introdotti nella teoria del funzionamento psichico sono di tipo dinamico. Ma dopo l’iniziale entusiasmo abbandona questo tentativo: «Non capisco più lo stato mentale in cui ho concepito la psico-logia: (…) mi sembra sia stata una specie di aberrazione».4

La scoperta dell’inconscio e il metodo psi-coanaliticoFacendo un passo indietro per definire le

esperienze alle quali Freud tentava di forni-re una base teorica nel 1895 siamo indotti a ripercorrere, in breve, le vicende che portarono alla nascita della pso-coanalisi e alla scoperta dell’inconscio.Il punto di partenza di Freud sono, com’è noto, gli studi sugli effetti dell’ipnosi sull’isteria condotti da Charcot a Parigi, dove egli si era recato nel 1885. Tor-nato a Vienna Freud cominciò a lavorare col medico e psichiatra Josef Breuer il quale

aveva utilizzato l’ipnosi non tanto per “guarire” i malati dai loro sintomi – come aveva fatto Chartcot ottenendo risultati per lo più provvi-sori; ma per indagare nella loro memoria alla ricerca di un episodio al quale potessero essere fatti risalire i sintomi della malattia. Tali sintomi - eclatanti – andavano dalla paralisi alla cecità

alle fobie e, siccome non era possibile trovare delle cause organiche che ne motivassero la presenza, venivano attribuiti a una sorta di “si-mulazione” dei - o più spesso delle pazienti. I due psichiatri giungono a individuare, nei ricor-di che affioravano sotto l’influsso dell’ipnosi, episodi traumatici non presenti nella coscienza dei malati e che si ponevano in stretto rapporto con l’insorgere dei sintomi. Il ricondurre alla memoria tali ricordi provocava una violenta scarica emotiva, seguita da un evidente miglio-ramento delle condizioni del paziente. Sulla base di questa esperienza Freud formula la prima ipotesi dell’esistenza dell’inconscio: esiste una zona inaccessibile alla coscienza, una sorta di contenitore, che conserverebbe il “rimosso”, ovvero i ricordi inaccettabili per la nostra coscienza e pertanto da essa rifiutati. Questa ipotesi vede l’inconscio come una sorta di contenitore di energia sotto forma di memoria, una sorta di “pentola a pressione”, all’interno della quale i ricordi e i pensieri inaccettabili finiscono col produrre i sintomi ne-vrotici come delle “valvole di sfogo”. In questo metodo, definito da Breuer “catartico”, la via della guarigione deve passare per l’“abreazio-ne”, la presa di coscienza ovvero la liberazione dei ricordi/energie rimossi. È evidente in questa interpretazione la presenza di quel modello economico/dinamico cui Freud cercherà invano di dar forma nel Progetto del 1895.Nel 1894 Freud si stacca da Breuer; il motivo più significativo del suo allontanamento è il rifiuto del collega di identificare i traumi sot-tostanti alla nevrosi come traumi di carattere sessuale vissuti nell’infanzia: tali erano infatti le conclusioni a cui invariabilmente sembra-vano condurre tutti i casi da lui analizzati. Freud abbandona anche l’ipnosi, convinto che potessero esistere altre e più efficaci strade per raggiungere l’inconscio. «Devo i miei risultati all’impiego di un nuovo metodo di psicoana-lisi» scrive nel 1896 in una relazione tenuta alla Società di Psichiatria e Neurologia sulla Etiologia della nevrosi: “Risalendo all’indie-tro nel passato del paziente, passo per passo, nella direzione indicata dal concatenamento organico dei sintomi, dei ricordi e dei pensieri suscitati, sono giunto alla fine al punto di par-tenza del processo patologico».5 È il metodo delle “libere associazioni” che Freud paragona all’opera di un archeologo che, attraverso il dissotterramento dei reperti e la decodifica di lingue ancora ignote, riesce a risalire dalle rovine alle caratteristiche delle civiltà cui esse provengono, riesce a “far parlare i sassi” (saxa loquntur!). All’anno successivo al distacco da Breuer, il 1895, risale la prima interpretazione

13

di un sogno: Freud ha trovato la “via regia” per l’inconscio. Sulla strada dei sogni: l’autoa-nalisiIl primo sogno analizzato da Freud è un sogno fatto da lui stesso, il sogno di Irma (24 luglio 1895), riportato nella Interpre-tazione dei sogni, nel quale egli individua per la prima volta la presenza dell’Edipo.6 Lo psichiatra viennese, primo e forse unico nella storia della psicoanalisi - si accin-ge, con il sostegno del suo amico e confidente Fliess, a una opera di autoanalisi. L’analisi di-verrà molto intensa dopo la morte del padre, il 23 ottobre1896, cui seguirà un periodo di grave sofferenza e nevrosi: «il malato che oggi più mi preoccupa sono io stesso» scrive a Fliess il 14 agosto 1897. Nei sogni analizzati in questo periodo entra in crisi la teoria della etiologia della nevrosi che vedeva, come si è detto, il suo nucleo originario in un trauma sessuale subito nella primissima infanzia. Tale trauma appare ora, non come un episodio realmente accaduto, ma come frutto della immagina-zione. Questa scoperta scuote profondamente Freud il quale parla di «un crollo dei valori» e dell’impossibilità di distinguere «tra verità e finzione investita d’affetto». Finché si trattava di scoprire fatti realmente avvenuti, l’opera di analisi poteva esser vista come una ricerca della verità nella ricostruzione della storia personale dei pazienti; ma a quale tipo di verità, se non quella puramente soggettiva e immaginaria, avrebbe potuto d’ora in poi aspirare? La strada da lui intrapresa lo induceva inesorabilmente ad addentrarsi in zone non battute dalla scienza. «Finora – scrive Freud nell’Interpretazione dei sogni – tutte le strade che abbiamo percorso portavano (…) alla luce, alla spiegazione e alla comprensione piena. Ma d’ora in avanti, dal momento in cui decidiamo di penetrare più a fondo nei processi psichici del sogno, tutti i sentieri sfoceranno nel buio.»7 Giunge sempre nella vita di un uomo il momen-to in cui vanno fatte delle scelte decisive: ora lo psichiatra viennese deve affrontare quella svolta che determinerà il corso delle sue ricerche e della sua stessa esistenza. Tra gli aspetti della sua complessa personalità, tenacia, ambizio-ne, determinazione, perspicacia, sicuramente quello che desta maggiore ammirazione è il coraggio. Egli sa bene che la sua decisione di indagare fenomeni “non osservabili” lo esporrà alle critiche della scienza positiva, alla quale

non rinuncia ad appartenere; sa inoltre che il porre al centro della sua teoria la libido, un

impulso di carattere sessuale de-terminante la vita psichica sin

dalla primissima infanzia, gli attirerà le critiche

dei benpensanti. Ma non può fermarsi, proprio per amore della verità e per la sua etica di scien-

ziato: «L’imperioso bisogno di dire la verità

deve sì essere fissato dall’eti-ca, ma è certamente fondato altresì

sul rispetto dei dati di fatto», scriverà nel la nel 1830.8 La sua reazione di sconforto alla scoperta dell’errore compiuto nell’identificare le cause della nevrosi in un trauma sessuale infantile è solo momentanea: egli non si abbat-te perché ritiene l’errore frutto di una onesta ricerca scientifica così come, per lo stesso motivo, ritiene doveroso non abbandonare l’opera, pure se irta di difficoltà. Si accinge dunque a continuarla cercando nuove ipotesi di lavoro, decide di mettersi in gioco totalmente e di proseguire l’autoanalisi che gli permette di raggiungere una conoscenza della psiche più precisa e approfondita rispetto a quella tratta dall’esperienza coi pazienti. L’Interpretazione dei sogni è il frutto di questo lavoro, che as-sume pertanto anche un carattere fortemente personale da lui mai rinnegato.

L’Interpretazione dei sogniL’Interpretazione dei sogni fu accolta con freddezza dalla comunità scientifica che tendeva a considerare le teorie di Freud come delle “favole scientifiche”. Il suo capolavoro, stampato nel novembre del 1899, ma che egli volle pubblicato all’i-nizio del nuovo secolo, non ebbe successo e vendette solo 350 copie nei sei anni successivi alla sua pubblicazione. Qui trovia-mo la prima descrizione sistematica del funzionamento dell’inconscio, quella prima “topica”, ovvero map-patura della psiche che la vede divisa in tre parti, conscio, preconscio e inconscio. Nell’individuare le “località psichiche” Freud è ora molto più prudente ri-spetto al Progetto del 1895: «Inten-

Freud visto dal caricaturista Nerilicon

14

diamo tralasciare completa-mente il fatto che l’apparato psichico in questione ci è noto come preparato ana-tomico e vogliamo evitare ogni tentazione di deter-minare in senso anatomico la località psichica».9 La descrizione del rapporto tra le parti psichiche fa sì riferimento a un modello “energetico” secondo lo schema “stimolo-risposta”, ma interpone tra stimolo e risposta la memoria, anzi, diversi sistemi di memoria che lavorano tramite asso-ciazioni. Questi invisibili sistemi di memoria e le loro relazioni sono l’oggetto vero e proprio della descri-zione dei processi psichici, così che gran parte di ciò

che era stato abbozzato nel Progetto del 1895 viene tradotto in modo molto più intellegibile.10 L’inconscio è uno di tali sistemi, ma sebbene sia un fenomeno inaccessibile alla coscienza e che si sottrae all’osservazione diretta, esso non è affatto identificato da Freud in qualcosa di metafisico «di mistico, di ineffabile, di non dimostrabile». L’inconscio e i suoi impulsi (che nella Metapsicologia del 1915 prendono il nome di “pulsioni”) sono qualcosa che si trova tra il somatico e lo psichico. Freud è ben consapevole di questa ambiguità, tuttavia, lungi dall’impegnarsi in un’analisi filosofica del pro-blema, usa il concetto come una insostituibile ipotesi di lavoro (ma non si comporta in modo analogo anche la fisica delle particelle nel supporre l’esistenza di entità di cui possiamo provare l’esistenza solo in base ai loro effetti?).

Ciò non scalfisce dunque la sua fiducia nella validità scientifica della sua teoria: le attribu-isce un valore ipotetico e congetturale, ma è certo che prima o poi le sue ricerche verranno a trovare una convalida anche partendo da altri presupposti scientifici: «Così le congetture psi-cologiche cui perverremo nell’analisi dei pro-cessi onirici dovranno per così dire sostare a una fermata, sinché avranno trovato la coincidenza con i risultati di altre indagini che, movendo da un altro punto di attacco, intendono penetrare sino al nucleo dello stesso problema».11

Pur ammettendo l’eccezionalità e l’esempla-rità dell’esperienza di autoanalisi compiuta da Freud che gli avrebbe consentito di indagare il funzionamento generale della psiche partendo dall’analisi di una psiche in particolare, resta il fatto, come ammette lo stesso Musatti «che il lavoro di interpretazione analitica conserva un suo carattere che è del tutto estraneo a ogni altra forma di indagine scientifica».12

E continua:«Certo tutto è molto strano. Strano che un’opera scientifica di psicologia dedicata a una circo-scritta funzione, quale quella del sognare, sia insieme, come l’autore dichiara, una parte della sua autobiografia, legata in qualche modo alla morte del proprio padre.Strano che il materiale dimostrativo su cui quest’opera scientifica si fonda sia prevalente-mente costituito da sogni dello stesso autore, per giunta spesse volte falsificati, allo scopo di impedire che il lettore riconosca il soggetto del sogno.Strano che quest’opera, che pure è rivolta a una situazione molto psicologica molto par-ticolare, ed apparentemente marginale per la vita dell’uomo, cioè il sogno, abbia assunto il carattere di un’opera di psicologia generale, che, direttamente o indirettamente, investe tutto intero il funzionamento della psiche umana.Strano che la disciplina, la scienza, che sulla base specifica di quest’opera si è sviluppata, sia in un certo modo una scienza personale, legata cioè al suo autore come nessun altra dottrina scientifica lo è: per cui sembra priva di quel carattere di impersonalità, che costitu-isce normalmente il marchio della obbiettività scientifica».13

Un’opera di civiltàFreud non arrivò mai a una formulazione de-finitiva del funzionamento psichico. Risale al 1915 l’ultimo grande tentativo di scrivere un’o-pera sistematica, la Metapsicologia. Il progetto prevedeva 12 saggi che furono effettivamente scritti in breve tempo, in un impeto creativo, ma di questi ce ne rimangono solo 5: 7 furono

Il sogno Pablo Picasso, 1931

Eros e Thanatos Filippo Capperucci

15

1 Le lettere a Fliess citate nel testo sono reperibili in: S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1904), Bollati Boringhieri, Torino 1985.

2 Lettera a Fliess del 25/05/1895. 3 S. Freud, Progetto di una psicologia in: Opere. Vol. 2, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 1968, p. 201.4 Lettera a Filess del 29/11/1895.5 S. Freud, “L’ereditarietà e l’eziologia delle nevrosi”, in: Opere. Vol. 2, cit., p. 297.6 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, in: Opere. Vol. 3, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 1966, p. 107 sgg.7 Ibidem, p. 467.8 S. Freud, “Introduzione allo studio psicologico su Thomas Woodrow Wilson”, in Opere. Vol. 11, a cura di C. Musatti,

Boringhieri, Torino 1979, pp. 36-7.9 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, cit. pag. 48910 Cfr. l’Avvertenza editoriale alla Metapsicologia, in S. Freud, Opere. Vol. 8, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino

1976, p. 8 sgg. 11 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, cit. p. 476.12 Ibidem p. XIX.13 Ibidem p. XVII. 14 S. Freud, Poscritto del 1935 all’Autobiografia del 1924, in Opere. Vol. 10, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino

1978, p.139.15 In: Opere. Vol. 11, cit., p. 521 sgg.16 Giancarlo Ricci, Sigmund Freud. La vita, le opere e il destino della psicanalisi, Mondatori, Milano 1998, p.141

probabilmente distrutti dallo stesso Freud. Alla prima topica seguì l’ipotesi di due pulsioni psichiche contrapposte Eros e Thanatos (Al di là del principio del piacere, 1920) e la scom-posizione della personalità psichica nelle tre istanze di Io, Es e Super-io (L’Io e l’Es, 1922). Nonostante le numerose critiche, Freud conti-nuò a considerarsi uno scienziato, né rinunciò mai all’idea che fosse possibile costruire una psicologia interamente basata sulla neurologia.L’accanita difesa della forza agente nella psi-che, la libido, come energia di natura sessuale, difesa che segnò il suo distacco oltre che da Breuer anche da Adler e da Jung, mostra quanto importante per lui fosse attenersi a una interpre-tazione organica e materialistica dello psichico. Ma la scienza medica non sembrava essere in grado di accedere alla dimensione psicologica, e nel corso del tempo il Freud neurologo venne sempre più sostituito e superato dallo psicologo. Egli fu sempre consapevole della precarietà della via che andava percorrendo accennando-vi spesso con un’autoironia venata peraltro di amarezza; ma i suoi interessi lo portavano in un’altra direzione:

«Dopo una diversione che era durata una vita, e che era passata attraverso le scienze naturali, la medicina e la psicoterapia, i miei interessi tornarono a quei problemi culturali che tanto mi avevano affascinato quand’ero un giovanetto imberbe, affacciatosi appena al mondo del pen-siero. (…) Mi resi conto con sempre maggiore chiarezza che gli eventi della storia, gli influssi reciproci tra natura umana, sviluppo civile e quei sedimenti di avvenimenti preistorici di cui la religione è il massimo rappresentante, altro

non sono che il riflesso dei conflitti dinamici fra Io, es e Super-io, studiati dalla psico-analisi nel singolo individuo: sono gli stessi processi ripresi su uno scenario più ampio».14

Forse l’opera di Freud può essere valutata, innanzitutto, come un’opera di civiltà. «Dov’era l’Es, occorre che l’Io avvenga» scrive in Anali-si terminabile e interminabile (1937) e aggiunge «È un’o-pera di civiltà».15

Giancarlo Ricci, psicanalista italiano, affianca a questa af-fermazione il celebre verso di Goethe più volte citato da Freud: «Ciò che hai ereditato dai pa-dri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero». L’Es è il mito, il luogo delle origini, la terra dei padri, l’arcaico, sintesi della filogenesi indivi-duale che ripercorre l’ontogenesi dell’umanità, in cui si volge il lavoro di reperimento dell’ana-lisi; l’Io è il nostro destino, ciò che dobbiamo diventare avendo acquisito la consapevolezza delle nostre origini. «L’esperienza analitica non riguarda soltanto un beneficio personale, uno ‘stare bene’ un ‘sentirsi meglio’ - scrive Ricci - Non partecipa insomma di quel mercato del benessere in cui troviamo di tutto. ‘L’uso terapeutico dell’analisi è soltanto una delle sue applicazioni, e l’avvenire dimostrerà che non è la più importante.’ (…) Qui i sentieri della psicanalisi e della psicoterapia, storicamente provenienti dalla stessa strada maestra inau-gurata da Freud, divergono».16

Johann Wolfgang von Goethe

16

l nostro cuore volge al sud”. Con queste parole scritte alla moglie Martha dal Tirolo, Sigmund Freud rivela la sua attrazione fatale per l’Italia. Dopo un in-tero anno trascorso nell’austera

Vienna, il fondatore della psicanalisi doveva risolvere quello che lui stesso chiamava “Som-merproblem”, il problema dell’estate. Infatti, da fine Giugno a Settembre, lasciava la capitale

asburgica per soggiornare prima in luoghi di villeggiatura, quasi

sempre montani, per poi esplorare la penisola ita-

liana in lungo e largo, già a partire dal 1895.Cambiava dunque la

stessa vita quotidiana, i ritmi delle giornate ed an-

che il cibo. Quando era nella mitica casa di Berggasse 19 a

Vienna, era solito pranzare sempre alle 13. La moglie, molto scrupolosa in cucina, custodiva gelosamente un quaderno di ricette, utile soprat-tutto per le grandi occasioni. Nei giorni feriali prevalevano le minestre. Il menù delle festi-vità, a famiglia riunita, è più elaborato, con tacchino e oca. Anche se la leccornia di gran lunga preferita da Sigmund era il caviale, che era uno dei regali più apprezzati degli amici.Quando usciva, dopo puntuali e lunghe passeggiate, era un frequentatore di eleganti caffè, dove leggeva, degustando dolci delicatezze. Immaginiamo Freud

alle prese con un derby di pasticceria tra la torta di nocciole e marzapane, specialità del Caffè Landtmann, e la Sacher, creata nel 1832 nell’omonimo hotel. Questi luoghi avevano per lui un risvolto terapeutico, tanto da consigliare ad alcune sue pazienti di passare del tempo in un caffè per distendersi e conversare davanti ad una tazza di tè. L’inizio delle vacanze era spesso tra Dolomiti e lago di Garda, prima sotto l’Austria poi l’Italia (Collalbo, Carezza, Lavarone, Merano...). Da varie lettere e testimonianze emergono la sua “nostalgia per la terra” e il particolare amore per la montagna. Già a 17 anni scriveva a un suo giovane compagno: “Sali sulle montagne e mangia le fragole!”. Un appello che è un concentrato freudiano: senso della scoperta, ascesa verso il raccoglimento, piacere. Insieme

alle fragole e

di Franco Banchi

17

ai lamponi selvatici il Dottore era un noto cercatore di funghi. Quando ne scovava uno, metteva mano al suo fischietto, chiamando a raccolta i compagni, per poi tagliarne il cappello quasi con rito sacrale. Né mancavano le escursioni, anche dif-ficili. Il figlio racconta che, una volta, in un momento di crisi fisica, dovette aiutare il padre, sostenendolo con un bel sorso di vino Chianti.Le vacanze proseguivano con le ri-petute “discese” nello stivale, che, alla fine, saranno ben quindici: da Venezia alla riviera Ligure, Emilia e Romagna, Toscana interna e costiera, Tuscia e Umbria, Roma, Na-poli e la costiera, la Sicilia intera, compresi gli angoli più sperduti. Era un’immersione totale, corpo e mente, in spazi storici, che, insieme con quelli greci, avevano partorito la civiltà

occidentale.Da notare che, allora, i prezzi in Italia erano irrisori per un medico della sua fama, al quale bastava una giornata di lavoro per permettersi quindici giorni di vacan-za nella nostra penisola,

concedendosi anche al-berghi e ristoranti di buon

livello e importanti acquisti “antiquari”.Di questo lungo e articolato ideale diario di viaggio spesso rimane fuori la prima tappa “italiana” del dottor Freud. In-

fatti, non si cita quasi mai la sua permanenza a Trieste (allora asbur-gica) nel lontano

1876. In quanto ricercatore egli aveva ottenuto una borsa di studio in anatomia sperimentale presso la Stazione Zoologica, da poco istituita.Negli appunti “italiani” di Freud, infatti, non troviamo solo il turista curioso, ma l’esploratore che passa dalla superficie alla profondità. Tante le dimensioni che s’incrociano: il collezionista di antichità, il cultore delle arti, il cronista scrupoloso e ironico.I suoi diari e specialmente le lettere e le carto-line che inviò ai suoi familiari sono una “mi-niera” per capire il suo approccio verso l’Italia e gli italiani. A partire dalla sua prima sosta a Venezia nel 1895, che per Freud più che una città assomigliava a “una strana fiaba” e di cui ricorda, fra le altre cose, le lunghe soste al Caffè Quadri e le nuotate al Lido.Il fondatore della psicanalisi ebbe una particola-

re p red i le -zione per i laghi italiani e le coste: il lago di Como fu definito “una benedizione per lo spirito”; il lago Maggiore apprezzato per le magnifiche Pallanza e Stresa e le famose isole Borromee. Rimase poi molto colpito dalla riviera ligure, come scrisse in una lettera al fratello: “Il sole celeste e il mare di-vino – Apollo e Posi-done - sono ostili a ogni attività” e inducono a naufra-gare “totalmente nella dolce vita”.Per Freud la vera e propria scoperta fu la città eterna; si trattò di un’autentica ubriacatura di stupore per l’arte, il paesaggio, la luce, i profumi, compreso i piaceri della

18

buona tavola. Visitò a più riprese e attraverso ripetuti viaggi tutti gli angoli di Roma: S. Pietro con la Sistina e le stanze di Raffaello, Via Appia e Gianicolo, Pantheon e S. Pietro in Vincoli, dove vide per la prima volta il Mosè di Michelangelo, fonte inesauribile di emozioni che lo nutrirono per molti anni. La sua convinta preferenza artistica lo spinse ad amare più la Roma classica rispetto a quella barocca.A dimostrazione della sua passione per la no-stra capitale, scriverà in modo inequivocabile: “Peccato che non si possa vivere sempre qui”.E, sullo sfondo, si può leggere anche l’implicito valore psicanalitico che attribuiva alla scoperta di Roma, “mantello di copertura e simbolo di molti altri desideri”. Diversi studi biografici e, in parte, spunti emersi dalle stesse ammissioni del medico viennese hanno ipotizzato possibili risposte: l’umiliazione paterna da riscattare;

un’esperienza totalizzante di immersione e possesso del corpo materno; il passato archeolo-gico della nostra civiltà da riportare alla luce; il ritorno alle radici del contrasto tra cattolicesimo ed ebraismo...Leggendo i testi delle sue lettere e cartoline inviate alla famiglia, riviviamo colori, profu-mi, sapori che sanno di terra, come quando accosta l’Italia a un paradiso terrestre grazie alla “favolosa bontà della frutta: grosse pere, fichi, uva bianca e nera”. Non c’è dubbio che il fondatore della psicanalisi avesse trovato in questi viaggi una superiore libertà, una continua fonte di ispirazione, un sottile piacere. A Roma è entusiasta di mangiare non solo all’aperto, ma in mezzo alla storia stessa, come in Piazza Colonna. Apprezza molto, durante il soggiorno a Napoli, l’idea “bella” di poter mangiare fin quasi a mezzanotte. La visita di Ravenna unisce sacro e profano: “Dante, mandorle, fichi d’albero presso il mausoleo di Teodorico, mosaici, pesche, vino e caffè si sono coniugati in grande armonia”. A Firenze patisce la sete perché l’acqua non è buona e fa fronte al disagio mangiando angurie e gelati. Univoci gli apprezzanti di Freud per il cibo italiano ed anche per i cuochi. Da Nord a Sud il suo giudizio da gourmet è sempre uniforme e generoso. Nel 1896 magnifica il vero “in-canto” fiorentino, dove, nuotando nell’arte, si consumano “pasti magnifici”, “il vino ottimo” e tutto è “meraviglioso”. Anche di Bologna, dove, nel corso del soggiorno, pranzerà sempre alla trattoria Tre Zucchetti (oggi non più esistente), ricorda il cibo “quasi troppo buono” e rimane colpito dal “vino delizioso”. Di Roma, insieme al cibo “eccellente”, rammenta alcuni di quei

Veduta del Chianti

19

fondamentali minori che lo hanno sempre colpito: l’acqua, il pane e il caffè.Infine, la Sicilia, “la parte più bella dell’I-talia”, un’autentica “dovizia di piace-volezze”, capace di esaltare la sua natu-rale predisposizione al- l’edonismo. In una lettera del 1910 l’ebbrezza è palpa-bile: “Bevo di nuovo vino ed ho comin-ciato con uno suc-culento di campagna a Girgenti e con un moscato di Siracusa”.I viaggi di Freud in Italia ci fanno co-noscere certamente il suo volto di borghese colto e illuminato, nutrito di cultura classica, che sulle orme di Goethe e di tanti viaggiatori dell’ottocento vive quel viaggio come occasione di conoscenza e nutrimento spirituale. Ma nelle lettere ci imbattiamo anche nel turista, attento e scrupoloso cronista del “quotidiano”. Ecco che emergono dimensioni “minori” non meno inte-ressanti: le meticolose annotazioni delle spese

giornaliere, che fanno intravedere un Freud un po’ taccagno; i commenti ripetuti sulle furbizie degli italiani da cui guardarsi con attenzione (specialmente osti e commercianti); le affannate scarpinate tra musei e rovine lamentandosi della torrida calura estiva; la continua caccia di sou-

venir e regali per moglie e figli lasciati a casa; le curiose istantanee di particolari incontri, come quello avvenuto sulla terrazza dell’Hotel Subasio di Assisi con la grande Eleonora Duse.Anche l’arredamento dello studio di Freud a Vienna testimonia il forte valore simbolico che egli attribuiva agli spazi, ai paesaggi e alle immagini “italiane”. Nella parete di fronte al celeberrimo lettino aveva collocato foto-ricor-do acquistate nel corso dei viaggi. Tra queste uno scorcio di alcuni monumenti funebri della Certosa di Bologna raffiguranti, con grande potenza affettiva, scene di consolazione fami-liare, che, per traslazione, indicano l’idea del flusso terapeutico che rinnova la forza dell’a-more materno. Altre fotografie sono vedute e paesaggi ariosi tra Venezia e Firenze, in grado di creare, attraverso il campo lungo, o la pre-

senza in primo piano di un fiabesco galletto

in ferro battuto, un clima che

induce ras-sicurazio-ne e rilas-samento.La “terra dove fiori-

scono i li-moni”, come

altre terre ita-liane, non saranno

solo foto-ricordo appese alla parete del suo celebre studio, ma un profondo solco interiore. Souvenir d’Italie o sindrome?

Piazza Colonna, Roma

20

a Vienna di Freud è un formi-dabile laboratorio culturale e artistico le cui idee hanno cambiato il modo di pensa-re l’architettura dell’intero ‘900. «Le strade di Vienna sono lastricate di cultura, quelle delle altre città di asfalto», diceva lo scrittore

austriaco Karl Kraus. Da una parte il glorioso passato imperiale e la sua storia testimoniati dalle architetture storici-ste in stile neogotico, neo rinascimentale, neo-

classico, ecc. dall’altra la veloce industrializza-zione, l’inurbamento di grandi masse di operai, l’ascesa della borghesia liberale. Già nel 1859 l’Imperatore Francesco Giuseppe bandisce un concorso per la realizzazione di un anello di viali intorno al centro storico sull’esempio dei Boulevards realizzati a Parigi dal Prefetto Haus-smann. Ma, a differenza delle altre città euro-pee, il modello viennese si realizza tramite uno stretto rapporto tra l’amministrazione statale e la locale cultura architettonica professionale. Il progetto dell’architetto Ludwig Ditter von Förs-ter prevede l’abbattimento delle mura e l’utiliz-

di Giovanni De Lorenzo

Parlamento di Vienna, Theophil Hansen,

1874

21

zo dello spazio così ottenuto per la costruzione della Ringstrasse (Ring=anello), elegante strada alberata di oltre sei chilometri con intorno i nuovi eleganti quartieri. Lo spazio da utilizzare è quello del Glacis, una grande fascia di circa mille metri di profondità lasciata libera da co-struzioni fin dal ‘600. I 4/5 di questi terreni sono da destinare ai monumenti e agli spazi pubblici. Per questo saranno realizzati oltre settecento

gran-

diosi palazzi. In questo modo, senza stravol-gere né demolire pezzi della Innere Stadt, la città vecchia, si crea una base di raccordo con il successivo sviluppo urbanistico. Lo scopo fondamentale è quello di creare un asse di scorrimento veloce per le carrozze e i cavalli lungo cui allineare i nuovi edifici simbolo della capitale asburgica. Il neorinascimentale Museum für angewandte Kunst, Museo d’arte decorativa. Lo Stadtpark, Parco cittadino di dodici ettari. La Staatsoper, Opera di Stato per

la lirica. Il Burggarten, giardino adorno di statue. La Neue Hofburg, nuovo Palazzo

Imperiale ispirato ai canoni rinasci-mentali italiani con al centro della

piazza antistante il monumento equestre all’arciduca Carlo

d’Asburgo. Il Kunsthisto-risches Museum e il Na-

turhistorisches Museum di oltre diecimila me-tri quadrati ciascuno. Il Volksgarten, parco pubblico con un Tem-pietto neoclassico. Il Parlament, su pro-getto in stile neogreco Scorcio dell’ingresso della Stazione di Karlsplatz

Ingresso dellaStazione di Karlsplatz, Otto Wagner

22

dell’architetto Theophilus Hansen. Il Rathaus, municipio simile a una cattedrale neogotica. Il più importante teatro di prosa, il Burgtheater in forme ancora rinascimentali secondo gli usi dell’eclettismo storicistico seguiti dagli architetti Gottfried Semper e Karl Freiherr von Hasenauer. L’Universität, anch’essa neorinasci-mentale, e la neogotica Votivkirche progettati da Heinrich von Ferstel. E infine la Börse, il Palazzo della Borsa e la Postsparkasse, Cassa di Risparmio Postale, quest’ultima su progetto di Otto Wagner. Nella realizzazione si utilizza indifferentemente un ampio campionario di stili, dal neogotico al neorinascimentale, dal neoclassico fino al nuovo Jugendstil.Intanto Vienna passa dai circa 850.000 abitanti del 1870 al 1.643.000 del 1900.Nel 1892 il Comune indice un nuovo concorso per indirizzare l’inevitabile sviluppo urbano futuro. Vincitore del concorso è Otto Wagner, insieme ad altri, con un progetto contrassegnato dal motto Artis sola domina necessitas in cui già si preannuncia il funzionalismo del Movimento Moderno del ‘900.

Palazzo della Secessione, Joseph Maria Olbrich, 1897-1898

Wagner ha della città una visione trionfale e aulica ma allo stesso tempo funzionale. Viene realizzato un secondo anello di viali più largo, il Gürtel, con strade radiali e trasversali che collegano i nuovi quartieri, e viene costruita la metropolitana. La Stadtbahn è una ferrovia urbana a scorrimento veloce, una metropolitana di superficie, inizialmente a vapore e solo in seguito elettrificata, che collega come circolare esterna le stazioni ferroviarie. Il progetto pre-vede cinque diverse linee che corrono per circa quaranta chilometri in galleria, sopraelevate o in trincea per non interferire con la viabilità stradale. Wagner non solo progetta le 36 sta-zioni, ma disegna anche gli arredi urbani, le panchine, le ringhiere, gli orologi, le scritte, con oltre duemila disegni preliminari. Le stazioni più rappresentative del progetto sono le due gemelle di Karlsplatz. I due padiglioni sono realizzati con una moderna struttura in ferro a vista abbinato a tamponature in lastre di marmo bianco con decorazioni floreali. Alla scuola di Wagner, che nel 1894 viene nominato profes-sore di architettura all’Accademia di belle arti, si forma una nuova generazione di architetti fra

23

cui Joseph Maria Olbrich che nel 1898 firma il progetto per il Palazzo della Secessione. Uno spazio espositivo in cui realizzare l’idea di Ge-samtkunstwerk, opera d’arte totale, incontro di architettura, pittura, poesia e musica. La forma è quella di un massiccio parallelepipedo a pianta quadrata sormontato da una cupola sferica composta da migliaia di foglioline metalliche dorate. Non sono più presenti decorazioni classiche ma sull’intonaco bianco, in cui sono tracciati i profili di piante e alberi, spiccano le parole del motto della Secessione «Der Zeit ihre Kunst / der Kunst ihre Freiheit, Al tempo la sua arte, all’arte la sua libertà».Il dibattito sull’architettura vede contrapposti l’eclettismo degli ‘stili storici’ che riutilizzano il repertorio di forme del passato per dare ufficialità e rappresentatività ai palazzi delle istituzioni, l’Art Nouveau, dalle linee e superfici curve, aperta all’uso dei nuovi materiali come il ferro e il vetro e infine il modernismo attento alle esigenze di semplicità della società più vitale e attiva. Nel suo testo più importante, Moderne Architektur, Otto Wagner afferma: «Ogni architetto dovrà seguire questo princi-pio: Niente che non sia funzionale potrà mai essere bello». Ancora più estremo è Adolf

Loos Haus Michaelerplatz, 1910, disegno di progetto

BibliografiaPaolo Sica, Storia dell’urbanistica, Editori Laterza, 1977Micaela Antonucci, L’architettura i Protagonisti: Otto K. Wagner, 2010Alessandra Coppa, L’architettura i Protagonisti: Adolf Loos, 2013

Loos, il precursore del Razionalismo e del gusto architettonico moderno del ‘900. Nel suo celebre saggio del 1908 Ornamento e delitto teorizza un’architettura dalla forma semplice e funzionale priva di decorazioni superflue. Nel 1910 suscita scandalo per l’assenza di or-namenti retorici la Casa della Michaelerplatz. Un palazzo, realizzato per la sartoria Goldman & Salatsch, dall’innovativo aspetto funzionale che si inserisce perfettamente tra gli edifici storici che si affacciano sulla piazza. Al pian-terreno un elegante ingresso rivestito in marmo cipollino verde con quattro colonne tuscaniche. Al di sopra di questo si elevano quattro piani completamente spogli scanditi dalla geometrica regolarità delle finestre. Il popolo la chiama «casa senza sopracciglia» perché sprovvista dagli ornamenti sopra le finestre.Le idee di questi architetti influenzeranno gran parte della progettazione architettonica e urba-nistica del ‘900 e senza di loro le nostre città oggi avrebbero un altro aspetto.

24

rotte di turisti si recano ogni gior-no al Palazzo del Belvedere di Vienna per ammirare Il bacio di Gustav Klimt (fig. 1), convinti di

poter trovarsi di fronte alla cele-brazione dell’amore e della dolcezza tipici dell’art nouveau. Un numero meno cospicuo di viaggiatori, e più vicini ad una sensibilità

di Fabio Sottili

1. Gustav Klimt,

Il bacio, olio su tela, 1907-08.

Vienna, Palazzo del Belvedere

tormentata e spregiudicata, entrano invece nel Leopold Museum della stessa città per vedere il marcescente Cardinale e suora di Egon Schiele (fig. 2), l’enfant terrible della pittura espressionista, preannunciatore del fallimento dei valori borghesi e del dramma della prima guerra mondiale.Ma è proprio così?

25

Sicuramente i due dipinti sono i sommi inter-preti delle due anime della Secessione Vienne-se, ma, pur presentandosi con uno stile molto diverso, dimostrano una matrice comune.La Secessione di Vienna nasce nel 1897, quan-do alcuni giovani artisti (Olbrich, Hoffmann e Moser) che non si riconoscono più negli inse-gnamenti della “Scuola d’arte e mestieri”, si uniscono in un gruppo sotto la guida di Klimt, e iniziano la pubblicazione della rivista “Ver Sacrum” (letteralmente “Primavera Sacra”), alludendo così al destino profetico e all’im-portanza spirituale che avrebbe avuto la loro arte. In quel momento la capitale dell’impero austriaco è uno dei luoghi più stimolanti d’Eu-ropa, laboratorio di nuove idee radicali che spaziano dalla musica alla medicina, e fucina di intellettuali che rivoluzioneranno la cultura del Novecento.Come acutamente affermava Giulio Carlo Ar-gan, Gustav Klimt nelle sue opere si dimostra «consapevole della lenta, ineluttabile decaden-za della società di cui si sente l’interprete: la società del vecchio impero austroungarico, che ormai conserva soltanto il ricordo dell’origina-rio prestigio di istituto teocratico. Klimt sente

profondamente il fascino di questo tramonto storico; associa l’idea dell’arte, e del bello, a quella della decadenza, del dissolvimento del tutto, del precario sopravvivere della forma alla fine della sostanza. Il suo pensiero va all’arte bizantina, splendida ed esangue, in cui si riflette un analogo processo storico: il declino di un impero teocratico, la sopravvivenza della for-ma estetica alla morte storica»1.Artista formatosi non alla tradizionale Acca-demia di Belle Arti, ma alla meno prestigiosa Accademia di Arti Decorative di Vienna, inizia la sua carriera occupandosi di decorazioni che guardavano ai modelli del Rinascimento italia-no e alle novità delle Arts and Crafts inglesi di William Morris, avendo come scopo la ricerca dell’opera d’arte totale, che rivoluzionasse la società. è il contatto con la Scuola di Glasgow e la suggestione per i mosaici bizantini osservati nelle due visite a Ravenna del 1903, a condurre il suo stile verso la piena maturità. Da quel momento il pittore rende protagonista la figura femminile «in una profusione di ornati simbo-lici, ma del cui significato s’è perduta anche la memoria», e «sviluppa i ritmi melodici di un linearismo che finisce sempre per ritornare

2. Egon Schiele, Cardinale e suora, olio su tela, 1912. Vienna, Leopold Museum

26

al punto di partenza e chiudersi su se stesso; e li accompagna con le delicate, malinconiche armonie dei colori spenti, cinerei, perlacei, con morenti bagliori d’oro, d’argento, di smalto»2.Dal punto di vista artistico appare «raffinato fino alla morbosità»; con grazia seducente immortala i lineamenti delle sue languide mo-delle avvolgendole in superfici bidimensionali iperdecorate, dense di forme stilizzate e astratte, dove spesso l’oro diventa il filo conduttore, il colore della spiritualità e della ricchezza con cui il simbolismo si riappropria di valori trascendentali e arcaici per esaltare Eros e Tha-natos, gli istinti sessuali e l’ineluttabilità della

distruzione: ciò che Freud nel 1920 chiamerà rispettivamente “pulsione di vita” e “pulsione di morte”3.Proprio Il bacio, realizzato fra 1907 e il 1908, incarna questi aspetti. In una tela di forma perfetta in quanto perfet-tamente quadrata, mostra due amanti abbrac-ciati, secondo uno schema compositivo già sperimentato nel 1902 all’interno del Fregio di Beethoven, un grande fregio dipinto nel Palazzo della Secessione, che illustra l’Inno alla gioia della Nona Sinfonia, opera del grande musicista tedesco, e nel quale Klimt immagina l’apoteosi musicale rappresentandola come abbraccio fra un uomo e una donna (allegoria dell’Artista e della Poesia), espressione della potenza crea-trice di Eros (fig. 3).Anche qui i due amanti sono circondati dall’oro, e poggiano i piedi su un prato fiorito schematico e privo di profondità, ma non sono più nudi; le parti rese visibili sono soltanto le teste, le mani, e i piedi della figura femminile, perché tutto il resto dei corpi è celato da vesti piatte, caratterizzate da decori rettangolari neri, bian-chi e oro per quanto riguarda l’uomo, a spirali, ovali colorati, e oro per avvolgere invece il busto e le gambe della donna. Entrambi i per-sonaggi sono poi circondati da un’aura dorata con spirali che si concludono in filamenti che vanno a mescolarsi ai fiori del prato, e le loro teste sono coronate da edera e da fiori, allusivi ad uno stato paradisiaco, e capaci di sublimare la realtà. Per rendere ancora più ricca la scena, Klimt, oltre all’applicazione della foglia d’oro zecchino, ha perfino usato l’intarsio di pietre dure, e con lo stucco ha posto in rilievo alcune parti decorative, come le spirali.Tuttavia se guardiamo con più attenzione questo dipinto, vediamo che si tratta della raffigurazione soltanto di un abbraccio, e non di due amanti che si baciano: l’uomo è in piedi e pare sovrastare la donna nel tentativo di ba-ciarla, mentre la sua partner si abbandona in ginocchio, e, chiudendo gli occhi, gira il volto verso lo spettatore, con la mano destra che, quasi ad uncino, si arpiona sulla spalla di lui. Il tutto avviene poi sull’orlo di un precipizio incombente ed estraniante, dove l’artista ha apposto la sua firma.Il soggetto verrà da lui ripetuto nel Fregio di Palazzo Stoclet a Bruxelles eseguito fra il 1905 e il 1909, ma inserito in un’ambientazione simbolista e spiritualistica (l’Albero della Vita) dai connotati maggiormente astratti e geome-trizzanti (fig. 3).Questa lezione sarà fondamentale per Egon Schiele, l’artista viennese che traghetterà l’arte

3. Gustav Klimt, L’abbraccio, Particolare del Fregio di Beethoven, caseina su stucco, 1902. Vienna, Palazzo della Secessione.

27

sognante della Secessione verso gli incubi feb-brili espressionisti. Ammiratore di Klimt, tanto da considerarlo il suo “padre spirituale”, Schiele invece, pur partendo da premesse secessioniste come la predilezione per il rigore geometrico, per la bidimensionalità e per la figura femmi-nile, cercherà nei suoi dipinti di manifestare i turbamenti interiori, l’incombere della morte, e il valore dell’esperienza sensibile, anche se frutto di passioni violente, attraverso una pittura nervosa, segnata da contorni marcati e da colori lividi, per definire corpi dalle forme sgraziate e spigolose.Anticonformista e contrario alle convenzioni della borghesia austriaca, spirito libero e ribelle, proporrà un’arte provocatoria e sbeffeggiante, che si nutre del linguaggio dei sensi, e che spesso sarà considerata scandalosa e pertanto censurata.L’ossessione di Vienna per il sesso in quei primi anni del XX secolo, espressa nel bestseller ses-suofobico Sesso e carattere di Otto Weininger

Nella chimica, con il termine “sublimazione”, si intende il processo di transizione di fase di una sostanza semplice o di un composto chimico dallo stato solido allo stato aeriforme, senza passare per lo stato liquido.Sigmund Freud, ispirandosi a questa definizione scientifica, sviluppa il concetto di sublimazione, come il trasferimento di una carica originariamente sessuale, definita dal filosofo “libido”, su oggetti non sessuali. Così, secondo le sue parole: «La pulsione sessuale mette a disposizione del lavoro culturale delle quantità di energia estremamente grandi; e ciò è dovuto alla peculiarità particolarmente accentuata in essa di poter spostare la sua meta senza ridurre sensibilmente la propria intensità. Questa capacità di scambiare la meta sessuale originaria con un’altra meta che non è più sessuale, ma è psichicamente imparentata con la prima, viene chiamata capacità di sublimazione.» In tal modo, l’uomo può incanalare la sua pulsione sessuale o aggressiva in attività socialmente accettabili e altrettanto gratificanti quali il lavoro, attività culturali, attività di beneficenza, sport etc.Ma la forma più evidente e culturalmente importante di sublimazione viene identificata con l’arte, dato che questa non ha la portata limitata delle piccole soddisfazioni individuali, ma acquisisce un significato universale. Infatti ciò che l’uomo comune non può confessare, perché attirerebbe la riprovazione della società e susciterebbe scandalo, nell’artista viene trasfigurato in modo tale da riscuotere l’interesse generale e infondere piacere nella gente.Quindi l’arte è una sorta di terapia, utile non soltanto all’artista, ma anche allo spettatore, perché attraverso questa arriva a toccare le corde più nascoste della propria anima e a risvegliare emozioni spesso ignorate.È a questo punto che Freud introduce il concetto di “perturbante” per descrivere la sensazione che l’uomo prova osservando un’opera d’arte, in quanto percepisce in essa qualcosa di diverso, ma anche di “spaventoso e familiare”, ovvero qualcosa che si vorrebbe tenere lontano, ma dal quale si è irresistibilmente attratti, poiché costituisce l’essere più vero di noi stessi.

Sublimazione arte e perturbante

Virginia Franchi e Alessandra Miele classe 5aF LS

del 1903, trovarono alimento per l’accusa nei confronti di Schiele di corruzione di minorenne e di esposizione di opere pornografiche, con conseguente condanna al carcere nel 1912.Al ritorno in libertà dipinse Cardinale e suora (fig. 2), opera nella quale il pittore, parodiando il celebrato dipinto di Klimt sopra analizzato, ne distrugge tutta la poesia e la struggente atmosfera sospesa. Con grande e drammatica sintesi espressiva, Schiele si autoritrae insieme alla sua compagna Wally (ed ex modella di Klimt nonostante fosse diciassettenne) nelle vesti rispettivamente di un cardinale e di una suora, mentre i due si abbracciano inginocchia-ti, proprio come avviene nel dipinto klimtiano, dal quale riprende anche il formato quadrato. Ad un amore sacrilego si allude quindi, per prendersi gioco del suo maestro e deridere i benpensanti, promotori di una morale bigotta e repressiva. Seguendo una struttura piramidale dispone i due amanti, e li costruisce attraverso masse di colore compatto in cui domina il

28

rosso della veste cardinalizia sul nero cupo e assoluto della tunica della donna e dello sfon-do. La dialettica fra i due è espressa attraverso i loro atteggiamenti: la suora si volta verso lo spettatore quasi con uno sguardo colpevole, contrapponendosi al cardinale, il quale noncu-rante continua a fissare la suora. Mani e piedi esasperano le tensioni finora soltanto percepite nei personaggi klimtiani, diventando qui i veri testimoni di tutta la sofferenza dell’autore e di un clima di ipocrisia che Schiele cerca di scardinare.Nella tecnica i due pittori si differenziano fortemente: laddove Klimt utilizza una pen-nellata levigata ed elegante con linee flessuose tipicamente moderniste, Schiele si appropria di impasti cromatici più densi, stesi con pen-nelli abbastanza asciutti per rendere graffianti forme spigolose e definire superfici più aspre e materiche (fig. 5).Forse nessuno meglio di Oskar Kokoschka - l’altro grande pittore austriaco che con Schiele divide lo scettro di aver condotto Vienna nelle braccia dell’Espressionismo – ha espresso in parole il clima che si respirava nella capitale austroungarica negli anni precedenti alla Gran-de Guerra: «La gente viveva nella sicurezza, cionondimeno erano tutti pieni di paura. Io lo avvertii attraverso il loro raffinato modo di vive-re che derivava ancora dal barocco; io li dipinsi nella loro ansietà e nel loro panico», e così fece anche Schiele, eliminando gli orpelli decorativi dei personaggi klimtiani, e scarnificandoli per adeguarli alla finis Austriae imminente.

5. Egon Schiele, L’abbraccio,

olio su tela, 1917. Vienna,

Österreichische Galerie.

4. Gustav Klimt,

Il bacio, Particolare del

Fregio di Palazzo Stoclet a Bruxelles,

Tecnica mista su carta, 1905-09.

Vienna, Museum für Angewandte Kunst.

29

er Freud L’interpretazione dei sogni rappresenta la “via regia” che porta alla cono-scenza dell’inconscio. Infatti durante il sonno la censura messa in atto dalla propria coscienza si affievolisce (sebbene non venga annientata del tutto), consentendo così all’inconscio di esprimersi con meno inibizioni le quali sono invece costantemente presenti durante veglia.

I sogni sono per Freud l’appagamento di un desiderio rimosso. Per motivare questa tesi all’interno dei sogni egli individua un contenuto manifesto e un contenuto latente: il primo che rappresenta la “scena” onirica così come viene vissuta dal soggetto, il secondo l’insieme delle tendenze che danno luogo alla scena onirica. Ma perché questa distinzione? Perché i desideri sono ritenuti inaccettabili dal soggetto il quale li “censura” ottenendo così dal contenuto latente il suo travestimento socialmente accettato che è il contenuto manifesto. Il compito dell’interpretazione dei sogni è ripercorrere a ritroso il percorso fatto dal sogno per arrivare al contenuto latente partendo dal contenuto manifesto.Nonostante ciò lo stesso Freud afferma che “chi nella veglia si comportasse come nelle situazioni del sogno verrebbe ritenuto pazzo”; questo, perché? Perché come lui stesso sostiene a seguito di numero-se autoanalisi “Il sogno è incoerente, mette insieme instancabilmente le più stridenti contraddizioni, ammette ciò che è impossibile […] e ci fa apparire eticamente e moralmente ottusi”.Anche per questo motivo Freud ritiene che i sogni raccontati non siano mai esattamente come erano ma piuttosto frutto di una rielaborazione secondaria da parte del soggetto; i nostri ricordi del sogno sono sconnessi e di conseguenza, in quanto al cervello umano piace avere connessioni sensate tra i vari ricordi, esso li amplia inevitabilmente e involontariamente con abbellimenti, provando così a dare un ordine a dei ricordi non ordinati. Il sogno in quanto tale non è però qualcosa di casuale, ma anzi è frutto di un lavoro dell’incon-scio che segue la logica delle associazioni; il problema sta nel ricono-scere e decifrare questa logica tramite i suoi passaggi che sono quelli della condensazione, dello spostamento, della visualizzazione e del simbolismo, tramite i quali si giunge a coglie-re il contenuto latente del sogno partendo dalle immagini confuse di quello manifesto.

di Pier Giuseppe Rivano classe 5aALS

Vincent van Gogh Notte stellata

olio su tela, 74 cm x 92 cm 1889, Museum of Modern

Art, New York

30

di Giovanni Venturi

mmaginate di iniziare a ruotare su voi stessi con le braccia larghe a formare col busto una perfetta croce. Rapidamente sentireste una leggera pressione sulla punta delle vostre dita che si farebbe tanto più intensa quanto maggiore la vostra velocità

(angolare); la testa inizierebbe a girarvi dopo un po’ e un senso di nausea si manifesterebbe a ren-dere la rotazione ancora più fastidiosa. Se poi smetteste di ruotare gli effetti continuerebbero a farsi sentire, risulterebbe difficoltoso mantenere l’equilibrio e forse il senso di nausea continue-rebbe a produrvi un certo malessere. “Certo”, penserete, “è normale!”. Chi da piccolo non si è divertito a ruotare su se stesso e ha imparato a conoscere questi effetti; l’esperienza ci ha insegnato. Eppure ciò che è ovvio per espe-rienza può avere risvolti del tutto inaspettati se studiato razionalmente alla luce dei principi e delle conoscenze acquisite.Probabilmente uno studente che abbia già affrontato un po’ di dinamica si azzarderebbe persino a dare una possibile interpretazione di questo fenomeno, sentendosi magari orgoglioso di possedere un bagaglio culturale che gli per-mette di andare oltre l’esperienza, e di conosce-re il fenomeno in forma più ampia. Penserebbe

probabilmente: “Colpa delle forze inerziali, quelle che si considerano quando si studia il moto di un corpo in un sistema di riferimento non inerziale. Il sangue e tutti i tessuti molli sono oggetti che risentirono di forze apparenti centrifughe dovute alla rotazione del corpo, il sistema di riferimento non inerziale in cui si trovano. Ecco spiegato il perché dell’aumento della pressione del sangue sulla punta delle dita, e del senso di nausea dovuto agli effetti della rotazione sul meccanismo di equilibrio presente nelle macchine umane!’’ Eppure c’è sicuramente qualcosa che anche a un bravo studente sarebbe sfuggito. Immaginate di eliminare la Terra sotto i vostri piedi mentre state ruotando e poi anche tutte le Stelle e tutte le disomogeneità energetiche presenti nel cosmo. Immaginate di essere soli nell’Universo. Come potreste sapere di essere in rotazione? Esiste per caso qualche punto di riferimento che vi dice che state ruotando? Fatta eccezione per quegli effetti che ogni astronau-ta sente quando non è sottoposto all’azione gravitazionale, per quale motivo dovrebbero manifestarsi anche gli effetti della rotazione? Se il movimento è qualcosa di relativo, rispetto a cosa mi sto muovendo? Forse rispetto a un sistema di riferimento assoluto? Rispetto a uno

31

spazio euclideo tridimensionale che è presente anche se non lo sento né lo percepisco? Magari rispetto all’etere? Possibile, peccato però che i fisici hanno escluso la presenza di una sostanza che permea l’Universo e che rappresenta “Il” (con la lettera maiuscola) sistema di riferimento inerziale. Ma questi effetti allora li sento oppure no? Fu Mach ad affrontare la questione, che ha un carattere più filosofico che scientifico, e a dare una risposta formulando quello che oggi è noto come il principio di Mach:«L’inerzia di ogni sistema è il risultato dell’in-terazione del sistema stesso con il resto dell’U-niverso. In altre parole, ogni particella presente nel cosmo ha influenza su ogni altra particella.»Di fatto questo principio sembra asserire che gli effetti inerziali si possono sentire solo perché esistono oggetti nello spazio, ed è la presenza di questi oggetti a stabilire le caratteristiche di un tale spazio e fissare un riferimento inerziale a cui, appunto, riferirsi. Quello solidale con le stelle fisse, diceva qualcuno. D’altronde se ci pensiamo bene è un po’ come il senso di vertigine che sentiamo quando siamo su di un precipizio, o l’ansia che a volte proviamo nel doversi muovere, agire o parlare in presenza di altre persone. Senza il precipizio e senza le persone, niente vertigine, niente ansia. Per Mach, questo principio indicava che l’i-dea assiomatica di un sistema di riferimento assoluto, così come pensato da Newton, non era altro che un’idea erronea, capace peraltro di portare fuori strada chi avesse continuato a costruire le proprie credenze o interpretazioni della realtà basandosi proprio su tale idea, che Mach peraltro definiva meta-fisica. La scienza

deve procedere basandosi sull’esperienza, deve sforzarsi di eliminare ogni concetto meta-fisico e sostenersi solo su concetti utili, “economici”, perché ci aiutano a semplificare i fenomeni e le grandezze con cui dobbiamo lavorare. Su queste affermazioni si basava, in sintesi, la corrente filosofica dell’empiriocriticismo, di cui Mach rappresentava appunto uno dei mag-giori esponenti. è importante a questo punto sottolineare come la fisica e la filosofia si siano intrecciate spesso e influenzate vicendevol-

mente nel determinare il percorso evolutivo della scienza, in particolar modo in quel periodo storico che ha portato alla “crisi” della fisica classica (fra virgolet-te perché è difficile pensare a una crisi quando da que-sta fioriscono idee nuove, nuovi ambiti di studio, rinnovato entusiasmo); ed è proprio in questo periodo che la teoria cinetica ha cercato di guadagnarsi un posto di rilievo nel pano-rama scientifico. Ma andiamo per gradi.Mach era austriaco ed è stato un fisico ma anche un filosofo, arrivando a ricoprire il ruolo di docente di filosofia all’università di Vienna, nel XIX secolo. Ed è proprio in Austria, o per meglio dire a Vienna, che verso la fine del XIX secolo e l’inizio del XX se-colo ebbe luogo uno dei confronti in ambito scientifico-filosofico più proficui nella storia della scienza/filosofia. Poco importa se in quel periodo il predominio tecnologico e scientifico se lo spartivano l’Inghilterra, forte ancora dello sviluppo legato alla prima rivoluzione indu-striale, la Germania, che avanzava nel campo delle nuove scoperte scientifiche e che si faceva forte di un impulso in questo campo dovuto al consolidarsi dell’approccio teorico, e gli Stati Uniti, grazie alle nuove scoperte nel campo

dell’elettricità e alla quantità di materie prime che avevano a disposizione. Il nucleo del più intenso dibattito sugli aspetti epistemologici della scienza risiedeva indubbiamente a Vien-na, fucina di idee, scontri ideologici, dibattiti interdisciplinari, fra menti matematiche, fisiche e chimiche e filosofiche. Fu proprio a Vienna infatti che ebbe luogo quel confronto di approcci filosofici volti a definire cosa fosse la scienza e quale fosse il ruolo della fisica teorica nello studio dei fenomeni

Ernst Waldfried Josef Wenzel Mach (Brno, 1838 – Haar,1916)

32

e nell’interpretazio-ne della realtà che ci circonda. Ridu-zionismo, empirio-criticismo, olismo, verificazionismo, falsificazionismo, sono alcune delle correnti filosofiche legate ad aspetti epistemologici che in un modo o nell’altro si legarono al cosiddetto “Circolo di Vienna” che contava personaggi di spicco nel campo della fisica, della matematica, della chimica e della filosofia e che fu attivo per lo meno fino all’avvento del nazismo. Ed è interes-sante comprendere come da queste “tempeste di cervelli” non nascono in modo idilliaco e naturale idee buone e innovative, originali e corrette interpretazioni e teorie che permettono avanzamenti insperati in ambito scientifico, ma con grande sforzo e superando vari ostacoli sopravvivono quelle visioni che si dimostrano più idonee a interpretare quanti più fenomeni possibili o che vengono corroborate dall’espe-rienza, o quantomeno non falsificate. Ma torniamo a Mach; egli rappresentava un

enorme personaggio per l’epoca, di quelli che ti mettono in soggezione solo con

la loro presenza, rivestiti da un’aurea costruita grazie a quei lavori che

diventano pietre miliari. Ebbene, Mach rappresentò un ostacolo all’affermazione di nuove e corrette teorie che in quel pe-riodo cercavano di farsi strada fra i fisici teorici, e a breve ne vedremo il motivo.Ludwig Boltzman fu un altro fisico austriaco, geniale e determinato, ma forse con le

spalle non troppo larghe per sopportare il peso delle critiche

e gli sforzi necessari per vincere le resistenze che si presentano quando

si intende far riconoscere un lavoro un po’ in controtendenza. Potrebbe essere

definito il padre della “teoria cinetica”, elabo-rata riprendendo e ampliando un’idea che era già stata abbozzata da Maxwell. Alla base della teoria cinetica un’ipotesi, normale per noi, quasi scontata, eppure per qualcuno assurda nella seconda metà del XIX secolo: la materia è fatta di elementi costitutivi elementari detti atomi.In una delle sue lezioni, agli inizi del ‘900, Boltzmann affermò: «Un giorno discutevo animatamente della di-sputa riacutizzatasi tra i fisici sul valore delle teorie atomistiche nella sala dell’Accademia

con un gruppo di accademici fra cui il consigliere di corte, Professor Mach.[...] In quel gruppo Mach disse all’improvvi-so laconicamente: “Non credo che esistano gli atomi”.

Questa dichiarazione mi rimase in testa.» Ebbene sì, Mach non credeva nell’esistenza degli atomi! Ipotesi metafisiche che complica-no l’interpretazione della realtà, non risultano di conseguenza “economiche” e dunque non giovano alla scienza; probabilmente questo avrà pensato Mach. Tanto più che grandezze come la massa e la velocità degli atomi non sono osservabili e quindi non rientrano nel novero delle grandezze misurabili che secondo Mach si dovevano considerare nello studio di un fenomeno. Ma i problemi per Boltzmann non si limitava-no solo a questo. Egli non doveva vedersela solo con gli empirocriticisti, c’erano anche gli energetisti. Sembra quasi una lotta fra bande, dai nomi assurdi forse per i lettori, una lotta che però non avviene per strada o in un quartiere, ma nel campo della mente e in quella dei labo-ratori e dei circoli intellettuali. Gli energetisti erano un gruppo di fisici di rilievo dell’epoca che sostenevano che concettualmente aspetti come la materia non avessero significato di per sé e che l’unica grandezza fisica che avesse un’identità ben definita fosse l’energia. In effetti a pensarci bene, tutto è energia, anche la mate-ria, come avrebbe mostrato qualche anno più tardi Einstein. Essi pensavano che tutta la fisica si sarebbe dovuta studiare a partire dagli scambi energetici, come in termodinamica. Solo l’ener-gia nelle sue varie forme aveva significato. Cosa rappresenterebbe dunque quest’assurda ipotesi degli atomi? Helm e Ostwald, energetisti, Mach e l’empirocriticismo, contro Boltzmann e gli atomisti. Lo scontro sembrava oramai delinear-si, ma come avviene spesso nella fisica teorica, ogni passo comporta ulteriori dubbi, domande, e nuovi “nemici”. Secondo la teoria cinetica e secondo la visione di Boltzmann, la termodinamica si può inter-pretare a partire dalle leggi della meccanica, leggi alle quali sarebbero sottoposti gli atomi che formano il sistema termodinamico. Peccato però la meccanica sia una branca della fisica che prevede solo equazioni reversibili, mentre in termodinamica la maggior parte dei fenomeni sono irreversibili, il che significa che una volta avvenuta la trasformazione risulta impossibile riportare il sistema e l’ambiente nelle condizio-

Ludwig Eduard Boltzmann (Vienna, 1844 – Duino,1906)

33

ni iniziali. In altre parole, il secondo principio della termodinamica, non sarebbe derivabile dalla teoria cinetica.Per comprendere meglio questo ulteriore aspetto che ha contribuito ad alimentare il dibattito sulla teoria atomica e quella cinetica, facciamo una pausa e mettiamoci a giocare con una pallina. Pensiamo dunque a una pal-lina che rimbalza elasticamente. Nella visione meccanica ogni urto elastico avviene in assenza di effetti dissipativi e in conseguenza di ciò la pallina deve continuare a rimbalzare all’infinito. Dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Se filmassimo il moto e mostrassimo il video a ritroso a qualcuno, questo non sarebbe in grado di rendersi conto che il tempo sta scorrendo al contrario nel video, perché il moto elastico è perfettamente reversibile. Ma se la pallina su-bisse effetti dissipativi, allora a ogni rimbalzo perderebbe un po’ della sua energia meccanica, raggiungendo dopo ogni rimbalzo una quota massima sempre più bassa. Mostrare in questo caso il video al contrario tradirebbe subito l’errore commesso da chi sta proiettando. Tutti sappiamo benissimo che un bicchiere di vetro che cade si rompe, ma sembra alquanto strano che un bicchiere in frantumi si ricomponga e torni nella credenza; sappiamo che un gas che occupa una stanza, si espande per occupare anche le stanze limitrofe, ma che il contrario è improbabile che avvenga. Insomma, come afferma il secondo principio della termodinami-ca, l’entropia, o misura del disordine, aumenta sempre. Dal disomogeneo si va sempre verso uno stato più uniforme ed omogeneo, a entropia maggiore.Questa differenza fra meccanica e termodian-mica non è di poco conto se si pensa alle conse-guenze dell’irreversibilità. Se non posso inver-tire il verso in cui avvengono le trasformazioni vuol dire che tutto procede lungo una direzione dalla quale non si può tornare indietro, la freccia del tempo è ben definita da questi processi; e la direzione in cui stiamo andando non prevede al capolinea un Universo perfetto. Al contrario di ciò che potrebbe far presagire la teoria di Darwin, secondo cui si evolverebbe verso uno stato più adattato, più organizzato, migliore, il secondo principio della termodinamica sembra suggerire che ci si stia muovendo invece verso una condizione di uniformità e di staticità defi-nita come “morte termica”. Ogni trasformazio-ne porterebbe infatti a un degrado della qualità dell’energia presente nel cosmo, un’energia che certo si deve conservare ma che allo stesso modo può essere presente nell’universo in una forma che non la rende utile agli scopi della vita perché non può essere trasformata. Un po’ come

avere tanto cibo, ma di una qualità così scarsa da non poter essere mangiato. Un po’ come avere tanta acqua, ma distribuita sul fondo di una vasca così grande, ma così grande, da rendere la profondità dell’acqua solo di qualche millimetro, impossibile dunque potersi lavare.Schematizzare un gas con atomi che intera-giscono elasticamente equivale a considerare un’interpretazione teorica basata su leggi reversibili. Come sarebbe dunque possibile interpretare fenomeni irreversibili a partire da questa teoria? Questo paradosso, introdotto da Loschmidt, assieme con il paradosso di Zermelo, secondo cui un sistema chiuso do-vrebbe sempre ripassare nei pressi di uno stato precedentemente occupato, rappresentarono gli ostacoli maggiori per l’affermarsi della teoria di Boltzmann. Eccone altri due: un fisico, anch’esso austriaco, il primo e un matematico il secondo. Come se non bastassero i fisici della vecchia guardia e i filosofi, adesso pure i matematici! Boltzmann però lavorò a fondo su questi paradossi modificando anche la sua visione della teoria cinetica e introducendo un’interpretazione probabilistica che permise di legare il secondo principio della termodi-namica all’impianto teorico della meccanica.Certo, adesso ci si mette pure la probabilità, come se non bastassero i problemi! Vi sembra possibile che in un mondo apparentemente deterministico in cui le leggi della fisica hanno la presunzione di spiegare esattamente come dovrebbe evolvere un sistema, possa entrare in gioco la probabilità? Come se le cose avvenis-sero in maniera casuale, come se “Dio giocasse a dadi”, per citare un’espressione che sarà in seguito usata contro un’altra teoria scientifica. Dio lancia il dado e a seconda di cosa esce l’universo evolve in un modo oppure in un altro. Eppure l’interpretazione di Boltzmann

Equazione dell’entropia di

Boltzmann

34

era in perfetto accordo anche con le leggi della meccanica, e la probabilità entrava solo nel determinare lo stato di uniformità verso cui ten-de il sistema, semplicemente perché uno stato uniforme è più probabile di uno non uniforme. Ma chiariamo meglio. Supponete di entrare in un labirinto. Entrarci non sarà difficile se esiste un ingresso. Chiun-que sarebbe in grado di compiere quest’azione, ed è vero che, se dopo aver camminato un po’, decideste di invertire il vostro moto ripercor-rendo a ritroso il cammino, tornereste all’uscita. Ma per questo ci vuole il filo di Arianna, che Teseo utilizzò per poter ritrovare l’uscita dal labirinto in cui era entrato per sconfiggere il Minotauro. E le molecole, e gli atomi, il filo di Arianna non ce l’hanno! Loro si muovono secondo le leggi della meccanica che non pre-

vedono che a un certo punto tutte le molecole, contemporaneamente, decidano di invertire il proprio moto per tornare allo stato iniziale e disomogeneo da cui erano partite. Il gas che si espande evolve dunque deterministicamente verso una configurazione più omogenea, una delle tante possibili, ed è molto improbabile che riesca, nel corso della sua evoluzione, a occupa-re una configurazione disomogenea (ad esempio concentrandosi in un angolo della stanza in cui si trova), perché di queste configurazioni ce ne sono ben poche. Quanto alle considerazioni di Zermelo, che prevedono che un sistema prima o poi ripassi vicino ad uno stato già occupato in precedenza (un po’ come dire che a forza di camminare nel labirinto dovrò prima o poi ripassare in pros-simità dell’ingresso), è sufficiente soffermarsi

sulla risposta che dette Boltzmann:

«Quando il Sig. Zermelo conclude, dal fatto teorico che gli stati iniziali devono ripresentar-si - senza aver calcolato quanto tempo questo richiederà -, che le ipotesi della teoria dei gas devono essere abbandonate, egli è come il gio-catore di dadi che ha calcolato che non è nulla la probabilità di una successione di mille ‘uno’ e allora conclude che un dado è truccato perché non ha mai osservato una tale successione!»

Insomma, è vero che a forza di camminare nel labirinto prima o poi si tornerà a incontrare l’uscita, ma se il labirinto è fatto bene, questo fatto provocherebbe nella mente del fortunato un solo pensiero: ” Che c…!”. Perché sarebbe solo un caso fortuito riuscire a trovare l’uscita dopo poco tempo. Se aspetto che tutto l’ossi-geno presente nella stanza in cui mi trovo si compatti in un angolo della stanza lasciandomi senza aria, probabilmente devo aspettare milio-ni di milioni di milioni… di milioni… di anni, e già non ci sarò più io, né la stanza, né forse le molecole d’aria.L’entropia è dunque una variabile di stato che può essere dedotta a partire da considerazioni probabilistiche basandosi sull’ipotesi atomisti-ca della materia; se ne può quindi dare un’in-terpretazione teorica scorrelata dalle procedure sperimentali e dalle grandezze osservabili, con buona pace di Mach. E il secondo principio della termodinamica, che prevede il continuo aumento dell’entropia, ci dice che se non si interviene con un lavoro, con la volontà, tutto procederà verso l’uniformità, la staticità, la noia, il degrado. Dopo aver superato perigliosi ostacoli, vinto i draghi oppositori con la spada della volontà e della determinazione, Boltzmann riuscì a fare in modo che la teoria cinetica avesse il riconosci-mento che le spettava; purtroppo però la nostra favola assomiglia più a una tragedia greca; sì perché forse proprio per il peso delle tante battaglie, per le umiliazioni e chissà cos’altro, Boltzmann decise di togliersi la vita. In realtà non è chiaro quali siano i motivi che spinsero il fisico a questo gesto, ma come spesso, forse troppo, succede nella storia, si tende a inter-pretare un fatto nel modo che rende meglio nel racconto! Quindi la nuova teoria trionfò, ma non fu facile, leggendo i commenti che altri fisici e matema-

Il Gallo Rosso a Ro-chusmarkt, Vienna,

1900

35

tici fecero sullo scontro che oppose fra di loro questi personaggi; gli esperimenti, le nuove leve, e la morte delle vecchie menti, aprirono il campo a questa nuova teoria che si affermò rinnovando il ruolo della fisica teorica, resti-tuendo il valore alle grandezze non-osservabili e continuando a rafforzare l’importanza di pro-cedimenti euristici nella soluzione dei problemi. Il tentativo di trovare un ordine costituito, un diagramma chiaro ed evidente che emerge dalle scoperte e dagli avanzamenti scientifici e che indica il modus operandi secondo cui procedere nel tentativo di ottenere nuove scoperte,come secondo Boltzmann la filosofia aveva preteso di fare, sembra dunque risultare un fallimento.Non è a mio avviso corretto considerare una teoria o un’ipotesi la giusta interpretazione della realtà, forse la realtà non la conosceremo mai nella sua essenza, non riusciremo a squar-ciare il velo di Maya e vedere la realtà nuda davanti a noi, forse non con la scienza, ma di certo potremo imparare ad avvicinarci a lei anche grazie a ipotesi teoriche che ci aiutano a schematizzarla e a proporre nuovi esperi-menti spingendoci verso nuove scoperte. Ed è probabilmente per criticare questo tentativo di mettere dei punti fermi da parte dei filosofi che Boltzmann dichiarò, forse togliendosi qualche sassolino dalle scarpe (e non me ne vogliano i filosofi per aver riportato questa citazione):«La filosofia si è dimostrata assai inefficace nel dare risposte chiare.»e ancora:«Per la filosofia le cose più ordinarie sono sor-genti di puzzle insolubili. Al fine di spiegare le nostre percezioni essa costruisce il concetto di materia e, in seguito, trova il concetto di ma-teria alquanto inutile sia in se stesso che come causa delle percezioni nella nostra mente. Con grande ingegnosità essa costruisce i concetti di spazio e di tempo e, in seguito, afferma che è assolutamente impossibile che vi siano oggetti in questo spazio o che accadano eventi in questo tempo. Essa trova difficoltà insuperabili nelle relazioni tra causa ed effetto, tra corpo e ani-ma, nella possibilità che esista la coscienza, in

BIBLIOGRAFIABaracca A., Fiaschetti M., Rigatti R., Fisica e realtà, Cappelli, Bologna 1999.Bellone E., Il mondo di carta, Mondadori, Milano 1976.Dal Fovo F., La Termodinamica: dal macroscopico al microscopico, in: <http:// www.science.unitn.it/~dalfovo/boltzmann/index.html>Darrigol O., Renn j., “L’Ottocento: fisica. La nascita della meccanica statistica” in Enciclopedia Treccani.

breve, in ogni cosa e in tutte le cose. Invero, la filosofia trova alquanto inspiegabile che qualsiasi cosa possa esistere.1»Insomma, l’agguerrito Bol-tzmann sembrava quasi volerci mettere in guardia da un eccessivo approccio intellettuale allo studio della realtà. Di fatto, se si analiz-za il percorso storico della scienza, si noterà che spesso gli oppositori più agguerriti verso le nuove visioni che puntano a risolvere problemi aperti sono proprio coloro che nella precedente gene-razione risolsero i problemi allora presenti. In altre paro-le sembra quasi che quando si forma una visione della realtà, più o meno cosciente-mente, si crea una teoria che imprigiona la nostra capacità di leggere la realtà stessa rendendoci ciechi e sordi al nuovo. Non a caso le parole di Plack, uno dei giovani sostenitori di Boltzmann, sul progresso della scienza:«Una nuova verità scientifica non trionfa per-ché convince i suoi oppositori, mostrando loro la luce, ma piuttosto perché i suoi oppositori prima o poi muoiono, lasciando spazio ad una nuova generazione che trova quella verità più familiare.»

Forse anziché cercare di imbrigliare la verità in concetti, teorie e principi, con l’ambizione vana di dominarla e il rischio certo di farcela sfuggire di mano, sarebbe opportuno cercarla ogni momento come qualcosa di nuovo, con sempre rinnovato entusiasmo e un’apertura che non conosce la rigidità a cui spesso l’intelletto ci condanna.

1 Da Ludwig Boltzmann, “On statistical Mechanics”, relazione tenuta a S. Louis nel 1904, in Theoretical Physics and Philosophical Problems, Reidel Publ. Company, 1974.

Tomba onoraria di Ludwig Boltzmann al cimitero centrale di Vienna

36

ertamente, quando si pensa a Freud, pensiamo a lui come il padre della Psicoanalisi - giusto - … e cominciare da una istanza piuttosto che da un’altra non è cosa facile. Iniziamo dal transfert: con-

ditio sine qua non, nella relazione analista-pa-ziente, per giungere poi al controtransfert, grandiosa e fortuita intuizione del Dottor Freud.È un fatto che le prime scoperte teoriche di questa disciplina sono nate dall’incontro di un analista di sesso maschile con una paziente. Niente di strano, visto che gli psicoterapeuti erano tutti uomini e, tra i pazienti, le donne era-no la quasi totale maggioranza. Non c’è, quindi, da meravigliarsi troppo che “due casi” di questo tipo rappresentino delle autentiche pietre miliari nel cammino della terapia analitica.Il “caso Anna O.” per Freud e il “caso Sabine

Spielrein” per Jung, risultano sorprendenti per alcune analogie.Sabine fu la prima paziente “analitica” per Jung e Anna O. fu la prima paziente di Breuer, passata poi a Freud.L’una e l’altra si innamorarono del rispettivo terapeuta e, tutte e due, furono più o meno dram-maticamente ricambiate. Entrambe rischiarono di mettere in crisi l’assetto matrimoniale del te-rapeuta ed entrambe furono sconfitte e, di quella sconfitta, entrambe portarono a lungo la ferita. Nella prima lettera di Jung a Freud, 1909, dove peraltro Jung non ammette niente del rapporto in essere con Sabine, anzi, molto superficial-mente lo informa di una relazione un po’ pesante fra lui ed una paziente, senza nemmeno citarne il nome, Freud immediatamente indossa la “Ma-schera” del luminare e consiglia l’amico-disce-polo di fare altrettanto. Gli eventi precipitano ed il giovane Jung, incapace di gestire la relazione, ormai allagato e travolto dalle pulsioni, indos-sa la “Maschera” del professionista, intento a difendersi dagli attacchi, assolutamente giusti-ficati, della paziente innamorata: ecco che attiva una serie di comportamenti, che potremmo definire, oggi, riprovevoli. Messo in difficoltà dalle pretese di Sabine (vuole un figlio da lui) decide di troncare il rapporto, perché minacciato da uno scandalo: la madre di Sabine, informata “anonimamente” dalla signora Jung su tutto l’affare, ha intenzione di andare a trovare il superiore di Jung e gli scrive una lettera a cui lui risponde in questi termini:

«(...) potevo facilmente abbandonare il ruolo di medico perché non mi sentivo impegnato come tale, non avendo mai preteso un onorario. È quest’ultimo che segna chiaramente i limiti ai quali è sottoposto il medico. Lei capirà che è impossibile per un uomo e una ragazza avere alla lunga soltanto rapporti d’amicizia, senza che a un certo punto subentri qualche altra cosa

Sigmund Freudnel suo studio a

Vienna

di Giuliana Giubbolini

37

(...) per rimanere nella posizione di medico, come Lei desidera, Le propongo di fissare un adeguato onorario per le mie prestazioni. In questo modo Lei sarà assolutamente sicura che io rispetterò in ogni circostanza il mio dovere di medico (...) il mio onorario è di Fr.10 per consultazione.»

Sorprendente!Il fatto di chiamare in causa l’elemento denaro può essere intesa come la possibilità di far intervenire un nuovo soggetto all’interno del rapporto, ossia, trovare un gancio cui potersi aggrappare. Il denaro è visto come se potesse garantire a Jung la possibilità di mettersi in relazione con la paziente entro i limiti della correttezza professionale: il denaro può essere un freno alla tentazione di lasciarsi andare a una situazione “seduttiva” perché richiama il contratto: ricordati, psicoterapeuta, che stai dando una prestazione professionale...come se “far correre denaro” fosse la soluzione che rimette in equilibrio la relazione.A questo punto, fra le due maschere, forse tre, forse quattro, si osservano il Professor Freud che esercita la sua professione “professionale”; il Dottor Jung, che pretende di esercitare la sua professione “professionale”; la mamma della Spielrein che esercita il suo ruolo di mamma; la

moglie di Jung che esercita il ruolo di moglie... e Sabine?Ecco, finalmente emergere la figura di Sabine Spielrein, che offesa e giocata dal giovane Jung, si rivolge di nuovo al Professor Freud una seconda volta. La prima egli non l’aveva presa troppo in considerazione: era nata una complicità fra i due uomini - Freud e Jung - nei confronti della donna che si era abbandonata alla seduzione di un uomo: essi la condannano perché non vuole rinunciare all’amore, cioè non vuole capire che deve tirarsi indietro di fronte alla carriera e al matrimonio; Freud, infatti le scrive di reprimere i suoi sentimenti e, soprat-tutto la esorta a «non compiere alcuna azione esterna e a non coinvolgere terze persone».Di fronte allo scandalo entrambi gli psicote-rapeuti hanno paura: Jung ha paura per il suo matrimonio e la sua carriera, Freud teme per il futuro del movimento psicoanalitico.Dicevamo, dunque che la Spielrein si rivolse di nuovo al Prof. Freud che, questa volta, ebbe minori difficoltà ad ammettere una cor-responsabilità del terapeuta. Era possibile, anzi enormemente probabile, che la tempesta emotiva dalla quale era stata travolta non deri-vasse soltanto da sue istanze interne ma fosse direttamente legata anche ad alcune pulsioni esterne che originavano dall’analista.Freud, quindi, la legge in modo diverso: la Spielrein è la più vera, la più presente a se stes-sa, capacissima di tenere a bada, e qui azzardo (visto che ha tentato di uccidere Jung con un coltello), pulsioni e sentimenti, come? Nel lasciarsi vivere e lasciare andare la relazione fintanto-ché non si scontra con la Maschera: quella non l’aveva considerata, l’ipo-crisia, la pochez-za e la codardia che dietro questa si cela. Tutto ciò lo palesa al Prof. Freud con il quale ha intrapre-so una fitta corri-spondenza che gli rivela una diver-sa donna-pazien-te-collega; soprat-tutto Freud legge in maniera diversa il dott. Jung e ca-pisce.

Sabine Spielrein, la paziente che si innamora di Jung e Freud, i suoi terapeuti.Rostov 1885

Carl Gustav Jung Kesswill, 1875 - Kusnacht, 1961

38

Capisce che Jung deve affrontare un passaggio fondamentale, se non vuole essere travolto, sicuramente dallo scandalo, soprattutto da se stesso: deve operare il CONTROTRANSFERT, un’operazione fin’ora mai considerata e messa in atto, se ne vuole uscire, ma soprattutto se vuole riacquistare quella dignità professionale e personale che sta calpestando ignominiosamen-te. Il controtransfert servirà a lui a riemergere dal gorgo d’acqua in cui era immerso e a lei a riappropriarsi dei propri sentimenti e pulsioni epurate e disintossicate dalla morbosità, e servirà a Freud che a partire da allora lo userà nelle sue sedute psicanalitiche lasciando a noi questa sofferta e complicata eredità.

(dal carteggio Freud, Jung, Spielrein, ed i ri-conoscimenti vanno tutti al Prof. Carotenuto)

IL TRANSFERT

Il transfert è la relazione che si instaura tra il paziente e lo psicanalista. Esso è un meccanismo inconscio che si attiva spontaneamente da parte dell’analizzato, il quale tende ad essere coinvolto emotivamente durante la terapia, poiché identifica l’analista come il proprio oggetto d’amore.Il transfert venne considerato inizialmente come un ostacolo alla cura, solo in seguito però fu riconosciuto come parte fondamentale del trattamento psicoanalitico dato che permetteva un collegamento concreto con il complesso di Edipo.Dal momento in cui il transfert coinvolge anche il medico e, in questo caso si parla di controtransfert, è fondamentale la sua capacità di saper prendere le distanze dai sentimenti del paziente. Questa dinamica psicologica accade ogni volta che qualcuno assume un ruolo nella nostra vita; nessuno di noi, quindi, è in grado di incontrare un’altra persona in modo obiettivo. Infatti proiettiamo in modo inevitabile nell’altro caratteristiche di precedenti persone su cui era stato fatto un investimento affettivo. Tutto ciò ci porta ad avere una visione non sempre corretta della realtà.

Federica Frezzi, Giulia Sinatti classe 5aALS

39

arissimi Lettori de Il Gobetti, se una parte di ciò che dirò oltre a quello già esposto dai miei compagni di viaggio, stavolta lungo il Danubio fino a Vienna e di qui sulle tracce di Sigmund Freud, potesse mai aggiungere seppure un

semplice scrupolo alla letteratura infinita che si è venuta scrivendo sulla pratica della psicoana-lisi e su quanto questa abbia influito non solo

in campo medico ma su l’intero spettro delle scienze umane per arrivare senza troppa diffi-coltà alle arti tutte, direi di aver compiutamente percorso quanto era mia intenzione percorrere.Dunque se ciò accadesse, tale percorso non potrebbe che iniziare dalla intuizione di Freud nel trattamento dell’isteria, termine passato in disuso con il quale si intendono gli stati nevrotici caratterizzati da stati emozionali fin troppo intensi al limite del parossismo e generalmente enfatici e teatrali. Il risultato rag-

di Massimo Bartoli

Salvador Dalì, La persistenza della Memoria, olio su tela, 1931

40

giunto nel collaborare al trattamento di alcuni casi di questa patologia infatti, diceva che non già, una disfunzione uterina od un malfunzio-namento della struttura nervosa ne era la causa, come maturato fino al XVIII secolo, ma che tale causa era da ricercarsi nella sfera psichica. La paziente isterica in sostanza non è malata organicamente, non è affetta da disturbi neuro-logici, ma i motivi, gli avvenimenti, le variabili che scatenano questo particolare fenomeno nevrotico vanno ricercati in un passato psichi-co, in un trauma rimosso ma inconsciamente rivissuto nuovamente nella crisi di isterismo e che tale processo andrà avanti fino a quando il paziente non riuscirà a ricordare quel trauma sofferto e sepolto nelle profondità della mente. È evidente che l’approccio eziologico, come si dice, l’approccio che deriva dalle cause che si intendono essere per un particolare fenomeno, nel caso di specie oltre a creare i presupposti di un sostanziale superamento di quella visione organicista che rappresentava la psichiatria ottocentesca, di fatto disegnava un nuovo e più complesso universo mentale e umano. Nel suo vivere quotidiano l’uomo, ognuno di noi, chicchessia che si muova all’interno di un tessuto sociale, è portato ad avere con questo una serie di interazioni. Necessariamente, è la vita diremmo. Tuttavia questo interagire conti-nuativo con l’ambiente si snoda attraverso dei meccanismi che sono molto complessi e che rappresentano il nucleo attorno al quale ruota la psicoanalisi. Noi non siamo quello che siamo o per meglio dire potremmo essere anche altro da quello che comunemente pensiamo di essere. Questo perché la personalità umana secondo Freud non è che un complesso gioco di equi-librio tra le tre istanze psichiche attraverso le quali vive e lavora la mente. La prima di queste istanze è la parte più profon-da delle mente, la parte inconscia. L’inconscio o ES, per descrivere il suo carattere impersonale, è come un serbatoio di energia psichica formata da pulsioni variegate, solitamente di carattere ereditario e governate da principio del piacere. Sono l’espressione di una razionalità altra, ri-spetto alla razionalità della coscienza. Un com-plesso di energie che agisce al di fuori di ogni categoria sia essa la logica o la morale dell’Io. Ma non è l’Inconscio per Freud, l’istintuale, l’animale soltanto. O tutto quello che vive in uno spazio atemporale al di fuori della normale categoria del bene e del male. È anch’esso un componente della ragione che si manifesta però attraverso costruzione linguistiche particolari, come il sogno. Dunque l’Inconscio Freudiano è parte della ragione ed è una ragione che si

muove con una logica diversa da quella co-munemente usata dalla ragione dell’Io nella veglia. Non è il lato oscuro della luna per usare una metafora, ma un’altra manifestazione della nostra ragione. La seconda istanza è quella dell’Io, che ha il compito di gestire e organizzare l’insieme pulsionale che proviene dall’inconscio dall’am-biente e dal super Io. È la coscienza mediatrice principalmente tra il Sé e il mondo esterno generando la sensazione e la possibilità di poter dire io sono. Con il termine super Io infine, si va ad inten-dere quella istanza psichica che si origina con l’interiorizzazione dei codici morali come di comportamento. Rappresenta l’insieme ideale verso il quale tende l’individuo ed ha una fun-zione censoria verso gli atti e i desideri.Senza dubbio una meccanica inaspettata e complessa quella per adesso appena accennata. Freud non solo ridisegna la mappa mentale e pulsionale dell’uomo, ma ci fornisce un principio concettuale fondamentale che può essere descritto benissimo con una frase di Karl Popper, filosofo ed epistemologo austriaco poi naturalizzato inglese, secondo il quale: «Ogni qualvolta muore un uomo, è un universo intero a venire distrutto. Ce ne rendiamo conto non appena ci identifichiamo con quell’uomo.» L’uomo insomma è un individuo, unico e ir-ripetibile. Il frutto di un’azione combinatoria di innumerevoli fattori quali quelli ambientali, fisici, culturali e mentali per dirne alcuni ed anch’essi, valutabili al meglio soltanto in ambiti circostanziali dando davvero l’idea che ognuno sia e non possa non essere che un universo a se. E diverso da qualsiasi altra persona. In apertura di questo scritto si accennava a quanto la psicoanalisi, con una tale visione dell’uomo, abbia condizionato uno spettro va-stissimo di attività e riflessioni. Ma se le scienze sociali in genere hanno da subito afferrato il fascino dei nuovi territori che si aprivano grazie ad una spiegazione così rivoluzionaria della natura umana, restava pur sempre il problema di capire come la storia del mondo intesa come la storia dei popoli e della loro propensione a pensarsi ed a strutturarsi all’interno di un or-ganismo statale intessuto di quadri legislativi, potesse accordarsi con la peculiarità di ogni singolo individuo. Perché insomma una miriade di individui ciascuno unico e irripetibile ha nei millenni cercato la creazione di imperi prima e di Stati successivamente! Come si concilia l’individualità con la socialità, e perché l’uomo, come diceva Aristotele è un animale politico e in questa sua attività di costruzione non è ap-

41

parentemente mosso da nessuna esigenza primaria?Sapremmo adesso noi riper-correre a grandi linee le tappe che hanno portato l’uomo delle caverne ad essere l’uomo che adesso conosciamo, dispensato-re di tecnologie sofisticatissime e di cultura. E saremmo tentati ad escludere senza ombra di dubbio la possibilità che vi sia ancora un legame tra questi due uomini tanto diversi e distanti come peraltro, a ben vedere le troveremmo ancora macchiate queste tappe, dal sangue e dalla brutalità. Una per tutte quella causata dai campi di sterminio nazista e avvenuta nel secolo di maggiore progresso tecnologico della storia. E questa notazione al contrario ci porterebbe a concludere che in fondo assai poca differenza divide il nomade ricoperto di pelli con la clava in mano, dall’a-gente di borsa ben vestito con lo smartphone perennemente all’orecchio. Sennonché Freud ci fornisce una chiave di lettura per questa “apparente” dicotomia. I nostri due attori infatti sarebbero divisi solamente, si fa per dire, da millenni di storia nella quale il genere umano ha voluto sublimare gli istinti più bestiali sotto il peso di imponenti costruzioni filosofiche, in sofisticati apparati simbolici che regolano la vita delle comunità umane e alle quali diamo il nome di norme giuridiche. Nelle invenzioni e scoperte scientifiche, nelle arti. Nella civiliz-zazione in sostanza. Questa linea evolutiva è molto seguita dalla psicoanalisi per i notevoli risvolti clinici come nel caso delle nevrosi, poiché attribuisce la civi-lizzazione al retaggio mai sopito di pulsioni pri-mordiali a livello inconscio che devono essere costrette e codificate in sanzioni. L’uomo in pra-tica per Freud, nello stesso momento nel quale andava scoprendo l’estrema economia della vita comunitaria, ha dovuto o voluto, questo è il problema, pensare a norme di comportamento che potessero da un lato, regolamentare la rete variegata di scambi che nascono in una comu-nità di persone e dall’altro, creare il presuppo-sto di “fonte” da cui tali regolamenti o norme giuridiche traggono origine, la morale. Per essere più precisi, la psicoanalisi, e Sigmund Freud in particolare, sembrano soffermarsi sulla componente coercitiva dello Stato, che deve pur esserci col compito di sublimare e limitare la

parte aggressiva dell’uomo, senza considerare la sua necessità storica e antropologica. Tuttavia potremmo ben dire di trovarci davanti alle due facce della stessa medaglia poiché non tanto è la meccanica che ci interessa ma le sue conseguenze. Se difatti è innegabile l’azione coercitiva dello Stato, fattore questo che opera nello sviluppo delle nevrosi secondo Freud, quando per essere chiari taluni individui vivono una inadeguatezza e una frattura tra il proprio Io e i codici suggeriti dalla morale comune, di fatto l’organizzazione statale difende lo stesso nevrotico da se stesso come da condotte endo-gene più gravi.La psicoanalisi perciò attribuisce particolare importanza alla genesi dei disturbi mentali e della personalità proprio in relazione al rap-porto tra Stato e individuo. Se quanto scritto fin qua potesse inoltre ambire ad aver tracciato quel preciso percorso di cui ad inizio, dovrebbe risultare chiaro che il legame tra l’Io e il mondo esterno e parimenti quello tra la persona e la sua intimità più nascosta, rappresentano gli indici della presenza o meno di un disturbo nevrotico. La nevrosi in sostanza non è che un disturbo psicopatologico scaturito da un conflitto interiore. Tale conflitto di tipo ansio-geno viene a crearsi quando inconsciamente viviamo una dimensione di vita, lavorativa e quant’altro, che sentiamo non essere la nostra. È una rimozione di istinti o pulsioni che dà origine ad un conflitto inconscio tra quello che siamo, e quello che invece vorremmo essere se

Salvador Dalì, Enigma del desiderio: mia madre, olio su tela, 1929

42

qualcuno non ci impedisse di poterlo essere, la morale in genere o qualche autorità che venga riconosciuta. Tale condizione avrebbe comun-que come base un conflitto di tipo sessuale per la psicoanalisi Freudiana, che se non risolto in tempo darebbe origine a disturbi mentali molto più gravi. In ogni modo ciascuno di noi vive un conflitto interiore ma in coloro affetti da questo disturbo, i tratti salienti che sono un infantilismo di fondo, un attivismo esagerato ai limiti del teatrale, un fastidio verso ogni tipo di costrizione, assumono toni inutilmente esa-gerati e fuori luogo. Questa alterazione di tono che caratterizza il panorama comportamentale nevrotico pur talvolta simpatico e affabulante va sottolineato ma sempre e in qualche modo eccessivo, denota in realtà una scarsa matura-zione dell’Io contrariamente a quanto a prima vista si potrebbe supporre. Costoro, reduci da conflitti interiori inconsci di vario genere, fini-scono per vivere una vita che non appartiene loro eppur credendola propria. Naturalmente le pulsioni sessuali in questa dinamica fanno da attori principali, desideri che si scontrano con i dettami morali del Super Io ad esempio nel caso di un’omosessualità repressa. Ed è l’istanza mentale Io, colei che come si è già detto presiede alla sintesi dei bisogni e suggella la coscienza del Sé, a rimanere nella nevrosi un’istanza incompiuta, mai correttamente cre-sciuta e di qui le tinte infantili già accennate. I lettori si chiederanno a questo punto in quale

lungo e tortuoso sentiero mi sia avventurato. Ebbene, a costoro dico di pazientare fiduciosi poi-ché se sono arrivato fin qui, è semplicemente per il fatto che sol-tanto tramite l’analisi dei disturbi dell’Io vi potrò accompagnare dove voglio arrivare. Un punto fondamentale riguarda l’azione coercitiva dello Stato, concetto più volte già accennato ma sul quale devo tornare. Freud in questo caso pare non prendere nessuna posizione politica e si limita a sviluppare una dinamica ben precisa. Se infatti la civiltà, abbia permesso all’uomo tutto quello che è facile supporre ed es-sendo la vita umana senza dubbio migliorata nei secoli grazie alle invenzioni in campo tecnologico, medico, e non ultime per le tante dottrine di Diritto che hanno posto a dibattito temi come l’uguaglian-za e la giustizia per dirne alcuni, di contro, proprio questi ordinamenti

hanno voluto una rimozione ed una sublima-zione forzata di alcuni retaggi istintuali. Tali retaggi istintuali come ad esempio l’esercizio gratuito dell’aggressività o la libera espressio-ne sessuale, sono stati necessariamente fatti soggetti di precise normative, morali prima di tutte. Ora, chi è in uso muoversi liberamente e a proprio agio all’interno di queste normative, vuole che il proprio Io sia sufficientemente for-mato e stabile a tal punto da poter interiorizzare senza eccessivi scompensi i parametri dettati dal senso comune. Ma talvolta la maturazione dell’Io che è principalmente la consapevolezza del Sé distinto dal resto della realtà, non avviene in maniera compiuta. Il normale processo di differenziazione avviene nei primissimi anni di vita e generalmente è la carenza di affetto e di attenzione a relegare oltremodo il bambino in quel humus indistinto che è la realtà dei primi momenti di esistenza. Conseguenza di ciò, può essere quella di non sviluppare un’immagine psichica del proprio corpo creando poi nel tem-po i presupposti di una vera e propria psicosi come la schizofrenia, definita non a caso quale malattia e destrutturazione dell’Io. L’uomo dunque avrebbe bisogno della verifica della propria esistenza per poter maturare la sensazione di occupare uno spazio, di uno “specchio” nel quale potersi riconoscere come elemento distinto dal resto. Tale verifica è fondamentale durante l’infanzia e avviene

L’iceberg, metafora

dell’inconscio secondo Freud

43

normalmente per mano dei genitori e della rete affettiva che circonda il bambino. Verrebbe da chiedersi dunque, se è proprio in questo bisogno di verificare la propria esisten-za l’anelito alla socialità e alla politica di cui sopra si chiedeva il grande Aristotele. E se ciò è vero, conclusione con la quale umilmente mi permetto di essere in accordo, è vero anche che il Disagio della civiltà, saggio di Sigmund Freud del 1929 sulle cui orme ho voluto ac-compagnarvi per questo breve trattatello, è un disagio inevitabile. Lo Stato si configura per Freud come una prerogativa insita nella natura umana, da non confondersi con la civiltà, una necessità libidica per la psicoanalisi ortodossa al pari del sentimento religioso e non avrebbero ambedue altro scopo se non quello di far riaf-fiorare per assurdo, quella sensazione oceanica che pervade il bambino quando è parte di un “tutto”, ed il suo Io come abbiamo visto non è ancora correttamente formato.Parrebbe insomma l’uomo, portato a tessere intorno a sé una intricata tela come quella di un ragno, nella quale resterebbe inevitabilmente imprigionato. Il problema però, è che l’uomo molto probabilmente non disdegna l’idea di una coercizione seppure a livello inconscio. Tale risoluzione deriverebbe dal fatto che la distanza temporale che ci separa dalle conclusioni di Freud è occupata da un progresso tecnologico impressionante e dal proliferare di nuove disci-pline quali le neuroscienze o la psicobiologia. Per non citare i nuovi orizzonti verso i quali durante il ‘900 si è diretta la nuova psichiatria, per i quali non è da scartare la possibilità che l’uomo in realtà, e la sua mente in particolare, prediligano muoversi attraverso dei codici. Ma tali codici se da un lato finiscono per esercitare quella coercizione di cui parla Freud e giocando un ruolo non secondario come abbiamo visto nello sviluppo delle nevrosi, di contro, vanno ad assumere un ruolo protettivo e rassicurante nel quale abbraccio l’individuo pare trovare una propria libertà.Il disagio della civiltà sarebbe allora un disagio dell’Io, la cui normale strutturazione è stata impedita tanto da poter determinare quelli che la psicoanalisi chiama stagnazioni o impedi-menti al giusto scorrere della libido che, per dirla nella sua accezione freudiana, si configura come un’energia psichica, una spinta alla vita dell’individuo da non relegarsi al solo ambito sessuale. La libido è il desiderio che pervade l’uomo fin dalla nascita e che proietta la sua interiorità verso l’esterno. È il limite è l’accesso alla felicità. Ma anche, da non trascurare, tale disagio può essere addebitato a fattori esclusi-

vamente individuali e personali che possono rilevare una inadeguatezza ed una indolenza perfino volontarie talvolta, al certo non evita-bile mestiere di vivere. Quest’ultima osservazione nasce dal fatto che la pratica psicoanalitica per i motivi già ac-cennati dovuti all’ampliamento esponenziale delle conoscenze, ha dovuto abbandonare la sua sacrale impostazione meccanicista sulla spiegazione della mente umana; un esempio per tutti potrebbe essere il celeberrimo com-plesso di Edipo sul quale adesso le psicoterapia attribuisce un’importanza ben minore a quella attribuita da Sigmund Freud. Per acquisire, ancora la psicoanalisi, sempre più un profilo interdisciplinare che adesso tiene conto sia del patrimonio scientifico raggiunto dalla ricerca in campo medico, e sia delle risoluzioni teoriche delle scienze umane prima di tutte ma anche e non ultimo del pensiero filosofico e religioso.Alla luce di tutto questo, potremmo declinare il disordine mentale attraverso un’ottica di-versa. Ad esempio con un sostanziale cambio di scena che veda come soggetto e attore dei vari disturbi mentali non tanto l’ambiente ma il malato stesso. Potremmo allora ipotizzare un ruolo attivo e non secondario della mente dell’individuo nella nascita delle nevrosi come delle psicosi. Per dirla in maniera chiara, il cer-vello umano svilupperebbe di propria iniziativa l’insorgenza di una nevrosi preoccupato delle conseguenze che si avrebbero nell’affrontare una data situazione, lo stato ansioso in questo caso è un infallibile campanello d’allarme. Come abbiamo visto tale campanello d’allarme per la psicoanalisi non è altro che una debolezza dell’Io che è delegato alla razionalizzazione degli stimoli sia interni che esterni. Nei casi ansiogeni di maggior rilevanza, l’Io è come se abbandonasse la cabina di comando lasciando la barca in balìa di quelle forze che, se da un lato affonderanno la barca certamente, dal lato opposto con lo stesso naufragare porranno fine allo stato di malessere vissuto. Il “naufragare”, in una vaga ma non troppo accezione leopardia-na, non è altro perciò che la malattia mentale, così che tale disturbo in alcuni individui viene ad assumere la funzione di cura, con la quale liberarsi da un malessere ben più grave che è quello di vivere.A questo punto se questo sommesso trattatello potesse iniziare a trarre una prima conclusione da quanto forse indebitamente si è preposto di riferire, questa sarebbe che l’uomo pur nella sua individualità, questi è senza dubbio socievole e la sua natura è stata esplicata nei millenni proprio nella tessitura di infiniti legami

44

tra se e gli altri uomini e di qui nel teorizzare organismi simbolici come lo Stato. Un’altra considerazione è che la declinazione rivoluzio-naria esercitata dalla psicoanalisi di Freud per la natura umana, pone a mio parere l’accento sulla responsabilità. L’uomo è anche vittima e carnefice del suo destino e l’esercizio di tale responsabilità non può prescindere dal rispet-to della propria umanità, intesa questa quale limitatezza eppure prerogativa fondamentale della spinta verso l’eterno e l’infinito. L’uomo può quindi e deve conoscere se stesso. Deve conoscere la propria macchina che è anche l’unica che gli è stata messa a disposizione e con la quale percorrere al meglio quel tratto di esistenza che gli è riservato. Tale macchina purtroppo come abbiamo visto necessita di una guida la cui tecnica può risultare difficile perfino al suo possessore laddove la si voglia usare oltre e diversamente dalle sue dotazioni di origine. Ed è a questo punto che appare chiara la funzione dello Stato e della Morale che. pur nei loro bagagli simbolici, codificano ciò che è plausibile da ciò che non lo è. Naturalmente am-bedue le costruzioni possono essere anch’esse oggetto di una lettura psicoanalitica, cosicché le riluttanze già analizzate nelle nevrosi sulle costrizioni e su l’ordine costituito, potrebbero bene essere lette come una deriva psicopatolo-gica della nostra società, quando questa intra-prende strade oltremodo liberiste che esaltano le imprese dell’individuo a scapito del sentimento

comunitario. Tale complesso nevrotico non può avvenire se non con il demolire gran parte delle costruzioni morali e filosofiche del nostro tempo. E non ultimo del pensiero teologico e religioso. Se dunque tali strutture simboliche come peraltro lo sono, forse, hanno assunto nei millenni l’aspetto di intricate geometrie come quelle della ragnatela di un ragno nella quale poi gli uomini hanno trovato casa, queste non sono interpretabili soltanto al pari di una debo-lezza, ma come prova tangibile che nell’animo alberga un sentimento fine a se stesso che è la ricerca del bello e del giusto quando questo è il rispetto che si ha di sé, e quando seguiamo o vorremmo seguire la legge morale o Divina. Tuttavia se non siete riusciti ancora, cari lettori, ad intravedere o seppure ad intuire lo sbocco di questo breve girovagare intorno alla mente umana, vi dico che non c’è da meravigliarsi dato il mistero che avvolge la vita in tutte le sue forme e il tentativo lodevole di Freud nello spiegare le dinamiche della mente umana non è né più né meno che un tentativo. Cosicché, se soltanto una cosa dovesse risultarvi chiara, questa vorrei fosse il fatto che ogni debolezza umana è comprensibile proprio perché umana e in quanto tale, può benissimo essere gestita attraverso meccanismi di difesa se questi consentono una vita più serena quando tali meccanismi siano razionalizzati attraverso un processo di crescita. In fondo siamo uomini.

45

logo dell’Austria

Vienna

di Silvio Biagi

Vienna: la capitale del football europeo. Nota per essere la culla di tanta parte della cultura di fine Ottocento e inizio Novecento, Vienna annovera tra le sue caratteristiche anche quella di aver contribuito alla nascita ed allo svi-luppo del più celebre degli sport: il football. Nei primi anni novanta del XIX secolo, i giardinieri, di nazionalità inglese ed austriaca, al servizio del Barone Nathaniel Anselm von Rothschild, iniziarono a giocare le prime partite di football nei campi del barone stesso. Per evitare danni ai suoi fiori il Barone cedette agli stessi un terreno ove poter praticare il loro sport, e fornì loro le prime divise giallo-blu, colori utilizzati dalla sua scuderia di fantini. Nasce così la più antica squadra di Vienna, il First Vienna, il 22 agosto 1894. Un solo giorno dopo, il 23 ago-sto, John Thomas Gamlick, un imprenditore britannico trasferitosi nella capitale asburgica, insieme ad alcuni connazionali, fonda il Vien-na Cricket and Football club. Tra il 1894 ed il 1896 nascono poi altri club ed in generale negli anni a cavallo tra i due secoli fu un fiorire di squadre di football, o meglio di società sportive con la sezione di football, che hanno poi avuto storie illustri, come il Rapid Vienna (1899), l’Admira (1905), il Wacker (1906-1908), l’ Austria Vienna (1911).1 Fu proprio di Gamlick l’idea di una gara per determinare la squadra più forte dell’Impero: egli mise a disposizione la Challenge Cup, creando di fatto la prima competizione calcistica internazionale, che si svolse, con fortune alterne, dal 1897 al 1911 ed a cui presero parte, oltre a squadre viennesi, squadre boeme (di Praga) ed ungheresi (di Bu-dapest). Teatro di svolgimento principale della competizione fu proprio Vienna.A questa competizione si ispirerà Hugo Meisl calciatore, dirigente e poi allenatore di origine boema, per fondare, nel 1927, la Mitropa Cup,

cioè la coppa della mitteleuropa: disputata negli anni Trenta, interrotta per la guerra e ri-presa negli anni cinquanta, fu un vero e proprio trofeo di respiro europeo per squadre di club ed è a buon diritto considerata la progenitrice della Coppa dei campioni (poi Champions League), da cui fu oscurata a partire dagli anni Sessanta. Dunque l’impero austro-ungarico, e l’Austria in particolare, dopo la ‘madre fondatrice’ del football moderno, l’Inghilterra, furono i più illustri promotori di questa disciplina; la scuola danubiana sarà dominante, assieme a quella dei maestri inglesi, negli anni Venti e Trenta e resterà la più raffinata fino ad oltre la metà del secolo, sia con le squadre di club che con le rappresentative nazionali di Austria, Ungheria e Cecoslovacchia.

Il Wunderteam.Di queste l’Austria degli anni Trenta è stata, assieme alla Squadra d’oro, l’Ungheria degli anni Cinquanta,2 la più grande, tanto da esse-re passata alla storia come la squadra delle meraviglie, il Wunderteam. Sotto la guida di Hugo Meisl, che ebbe a disposizione una generazione di campioni, la squadra dominò l’Europa, con la parziale ecce-zione dell’Inghilterra. Egli fu fautore di importanti novità di gioco: all’epoca le due tattiche praticate erano il “Sistema” inglese, elaborato da Chapman ed il “Metodo” italiano, eleborato da Vittorio Pozzo. Meisl sperimentò, con grandi risultati, una sintesi delle due tattiche fondata sul grande dinamismo dei giocatori, portando di fatto alla massima efficacia il Metodo, di cui

46

la sua Austria divenne la massima interprete. Era un convinto asser-tore del gioco offensivo e sosteneva la necessità che tutti i ruoli, a co-minciare dal portiere, contribuissero alla co-struzione dell’azione, con un movimento con-tinuo ed imprevedibile, con qualcuno sempre pronto ad occupare lo spazio del compagno che si proietta in avanti, ad esempio dalla me-diana, con il fine di sorprendere gli avver-sari senza squilibrare la squadra. Una filosofia che anticipa il calcio totale dell’Olanda degli anni Settanta e quella di Arrigo Sacchi.3 No-nostante la sua bellezza e la sua forza, testimo-niata da una serie im-pressionante di vittorie

e di vere e proprie lezioni di calcio, l’Austria non riuscì a conquistare i titoli più importanti. Ai mondiali italiani del 1934 fu fermata in semifinale dalla forte Italia di Vittorio Pozzo e dall’arbitro svedese Eklind: tributo forzato alla nazione organizzatrice, con un regime che si serviva anche delle vittorie sportive come mezzo per crearsi consenso interno e prestigio internazionale.4 Fu poi la storia a sbarrare la strada allo squadrone austriaco: ai mondiali francesi del 1938, l’Austria non esisteva più, dopo l’Anschluss del marzo dello stesso anno. Ma è proprio qui che si innesta la parte più si-gnificativa avuta da colui che del Wunderteam era il maggior talento, oltre che la maggiore intelligenza calcistica: Matthias Sindelar.

Matthias Sindelar: il no al nazismo.Il suo soprannome era “carta velina” (der Papierene) per la figura esile, ma era anche chiamato il “Mozart del pallone” per la rapidità e l’eleganza dei suoi movimenti e la maestria nel controllo del pallone. Sindelar è stato, senza dubbio, uno dei più grandi talenti che il football ha prodotto nel Novecento. La sua storia ha tratti in comune con diversi campioni anche più conosciuti di lui: nato in Boemia5

da famiglia di origini molto umili (la madre lavandaia, il padre muratore, morto sul fronte italiano dell’Isonzo nella Grande Guerra), lavorò come operaio per sostenere la famiglia e praticò il football nel tempo libero. Per dirla con Gianni Brera, Eupalla, la Musa del calcio,6 non permise che il suo talento naturale passasse inosservato e Matthias progressivamente arrivò fino ad una delle due squadre storiche di Vienna, l’Austria Vienna e poi alla Nazionale, dal 1926. Con l’Austria Vienna vinse quello che c’era da vincere (Campionati e Mitropa cup), con la nazionale non ebbe la medesima fortuna. Ai mondiali del 1934 si presentò come il maggior talento in vetrina, assieme a Giuseppe Meazza, ma l’Austria, come detto, non superò le semifi-nali. Dopo la partita con l’Italia Sindelar, scien-tificamente marcato dal coriaceo Luisito Monti (che l’arbitro lasciò impunito), fu costretto al ricovero in clinica. Per i mondiali del 1938 fu diverso. E questa vicenda, che pone Sindelar oltre la semplice storia calcistica, pur gloriosa, e lo fa entrare in un campo che lo rende unico nel panorama calcistico, è raccontata dall’ap-passionante romanzo di un ex giocatore italia-no: La partita dell’addio di Nello Governato. Un romanzo che entra nei silenzi della storia, soprattutto privata, ma racconta secondo verità i fatti ed il profilo umano dei suoi protagonisti.7 “Vienna, il giorno dell’Anschluss, 12 marzo 1938. Pioveva […] Lentamente, come predi-sposte a un agguato già vinto, venivano avanti, in quella che era una colonna immensa, le auto grigie e verdastre, coperte e scoperte, e le moto con i sidecar dell’esercito hitleriano. […] Dall’alto, la finestra socchiusa come te-messe di essere individuato, Matthias osservava quanto stava accadendo, e ciò che vedeva, e lo prostrava, era un autentico plebiscito di popolo, un consenso totale all’invasione, un gigantesco stadio pieno che tributava il meritato trionfo ai vincitori consegnandoli alla storia. […] Chiuse la finestra. Si sentì stanco peggio che dopo una partita persa. Era solo in casa, Camilla sarebbe tornata appena finite le lezioni. Lezioni? Quali lezioni? Di sicuro non c’erano state lezioni quella mattina. Aule vuote in tutta Vienna, il contagio diffuso, studenti e professori alla parata per il gran giorno patriottico. Cercò di reagire come in campo nei momenti difficili. Prendevi un gol e moltiplicavi gli sforzi con i compagni che ti guardavano, ti seguivano e sapevano sicura la rimonta. Qui non c’erano compagni né ci sarebbero state rimonte. Pensò a Camilla e seppe di poter resistere, sconfig-gere ciò che provava. Lo seppe senza ombra di dubbio.”8 Camilla è insegnante di letteratura italiana in

Matthias Sindelar

47

“Fuorigioco” sulla vita di Sindelar e sul suo rifiuto al nazismo

un liceo di Vienna. è italiana di origini ebree, di Milano. A Milano si erano conosciuti quattro anni prima, durante il Mondiale del ‘34, nella clinica ortopedica cui Matthias aveva dovuto ricorrere dopo la semifinale di San Siro. Per Camilla cominciano le difficoltà: è difficile entrare a scuola e fare lezione. I suoi studenti arrivano a dirle: «Via gli ebrei dalla scuola» o addirittura: «Morte agli ebrei». Matthias talvolta la accompagna: è una celebrità in tutta Vienna, è un mito intoccabile, sa proteggerla. Ma sa anche che non servirà. Di lì a poco sarà sollevata dall’incarico. Anche lui è disoccupato. La nazionale austriaca non esiste più, l’Austria Vienna, il suo club, è allo sbando. Il presidente, Schwarz, una figura paterna per i giocatori, è stato costretto a fuggire perché ebreo. Ma il regime vuole celebrare l’unificazione anche dal punto di vista sportivo, con l’ultima partita della nazionale austriaca, contro la Germania, il 3 aprile, al Prater. Dopo sarà solo Germania, con il progetto di incamerare i maggiori talenti austriaci, in vista dei mondiali di Parigi. Il primo dubbio è se giocarla, quella partita. Sindelar è il riferimento per tutti i suoi compagni. Si decide di giocarla, tutti d’accordo. La si vuole vincere. Per la macchina della propaganda nazista deve essere un giorno di trionfo, durante la partita e dopo, con la cerimonia ufficiale davanti ai gerarchi. “Tutto programmato e filmato per la gloria del grande Reich e per tutti quelli che non erano presenti e che avrebbero visto quanto avvenuto nelle sale cinematografiche dell’intero territorio nazionale. Un’agonia contrabbandata da festa, pensò Matthias, su cui i nazisti avrebbero spe-culato fin dove era possibile puntando i riflettori sulla sua persona”. Poi la partita. “Matthias segnò al 17° del secondo tempo. Dicevano i tecnici che i gol erano tutti uguali. Non era vero. Quel gol contò per mille e mille ancora. Volò su Vienna e sull’Austria e si piantò nel cuore di chi lo volle avere”. Sesta, poi, raddoppiò. Il risultato finale fu 2-0. Dopo la partita “la cerimonia annunciata, l’impronta, il mar-chio. […] Le squadre si schierarono sull’attenti. Così, al comando scandito, ci fu lo scatto nel saluto nazista. Sindelar e Sesta stettero immobili le braccia allungate sui fianchi”. Un gesto che pagheranno. Il giorno successivo il commissario tecnico tedesco Sepp Herberger va a casa di Sindelar, per convincerlo ad entrare nella nazionale tedesca. Così vuole il regime, così vorrebbe anche lui, che è un uomo leale, nazista solo per necessità, vorrebbe parlare solo di calcio e spera di convincere un grandissimo

campione ad entrare nella sua squadra. Ma non c’è spazio possibile di convincimento: Matthias sa che cosa significherebbe indossare una casacca con la croce uncinata. La sua età ed il ginocchio malandato sono le ragioni, ma Herberger capisce e rispetta. è un altro no che le autorità non possono ignorare. Sesta viene incarcerato per alcune settimane, poi liberato. Matthias e Camilla per ora sono sorvegliati, niente più. Il regime usa Sindelar libero come bandiera di falsa libertà. Anzi lo vuole a Parigi, per la finale dei Campionati Mondiali, che la Germania ha abbandonato, sconfitta al primo turno. E lui ci va, adeguatamente sorvegliato dalla Gestapo. Accolto con amicizia da Vitto-rio Pozzo viene fotografato in tribuna accanto all’italiano Eraldo Monzeglio. Dopo, sempre sotto stretta sorveglianza, va in vacanza con Camilla, in Italia, dove ormai vigono le leggi razziali; il padre di Camilla

48

ne sarà colpito. Loro non vogliono fuggire, né lasciare Vienna. Sindelar è invitato a riprendere l’attività, con i suoi compagni, l’Austria Vienna continua a giocare, per ora: un breve campiona-to misto, con squadre austriache e tedesche. Lui è contento di farlo. Ma c’è una sinistra novità: gli viene notificata la sua origine ebraica, da parte di nonna, sangue diretto. Un certificato inoppugnabile nella sua falsità. Il cerchio si sta per chiudere. La finale del campionato è a Berlino il 26 dicembre, sotto la neve, tra Herta ed Austria Vienna: un 2-2 che sancisce la vit-toria di entrambi e la fratellanza tra austriaci e tedeschi. Di Sindelar l’ultimo gol, quello del definitivo pareggio. L’ultimo lampo.Poi “[…] precisamente alle 11 della mattina del 23 gennaio 1939, i corpi senza vita di Matthias Sindelar e Camilla Castagnola vennero trovati distesi sul letto nel loro appartamento dalla po-lizia segreta tedesca. Nessuno seppe mai perché fu la Gestapo a scoprire i corpi. […] Non ci fu autopsia, e se ci fu un’inchiesta, cosa di cui è lecito dubitare, non ne venne trovata traccia nemmeno alla fine della guerra. Il caso venne

1 Le squadre attualmente più famose sono rimaste il Rapid Vienna e l’Austria Vienna; l’Admira ed il Wacker si sono fuse assieme nel 1971; il First Vienna è relegato in serie minori, mentre i Cricketers, il club fondato da Gamlick ha cessato di esistere nel 1936.

2 è la grande Ungheria di Puskas, Grosics, Kocsis, Czibor, Hidegkuti, che perse la finale dei mondiali svizzeri del 1954 per 3-2 dalla Germania; una finale passata alla storia anche per i sospetti di doping da parte della Germania.

3 Il “Sistema” dell’ inglese Chapman veniva rappresentato con le due lettere WM (che riproducevano la posizione in campo dei calciatori) ed il “Metodo” italiano di Vittorio Pozzo, con le due lettere WW. Come Austria e Ungheria, anche gli olandesi, maestri del calcio totale, non riuscirono ad imporsi nei campionati mondiali, sconfitti in finale sia nel 1974 che nel 1978 dalle rappresentative dei paesi organizzatori (Germania ed Argentina).

4 La semifinale, giocata a Milano, fu caratterizzata da grandi polemiche per il gol vincente di Guaita in sospetto fuorigioco e per il comportamento duro, anche oltre il regolamento, del difensore italiano Luisito Monti proprio nei confronti di Sindelar.

5 Sindelar nacque il 10 febbraio 1903 a Kozlov, nell’attuale Repubblica Ceca, ma la famiglia si spostò a Vienna per cercare una sorte migliore, data la situazione di estrema povertà.

6 Eupalla è un’invenzione dello scrittore e giornalista Gianni Brera, che chiama così una immaginaria “divinità” che protegge e ispira il gioco del pallone. Il nome si ispira ad Euterpe, divinità della musica e della poesia lirica. Così la definisce lo stesso inventore: «la dea che presiede alle vicende del calcio ma soprattutto, del bel gioco (dal greco Eu ‘bene’). Divinità benevola che assiste pazientemente alle goffe scarponerie dei bipedi»

7 Nello Governato, La partita dell’addio (Il campione che non si piegò ad Hitler), Mondadori, 2007.8 Tutti brani riportati in corsivo sono citazioni dirette dal romanzo di Nello Governato.

chiuso in fretta con la comunicazione ufficiale che parlava di disgrazia. Matthias e Camilla erano morti per il cattivo funzionamento della stufa a gas. I pompieri che sopraggiunsero nell’appartamento, soli estranei che poterono entrarvi, testimoniarono di non aver sentito odore di gas, così come dichiararono di non aver trovato guasti di nessun genere né al condotto dell’impianto né alla stufa nuova. […] Altri parlarono di suicidio. […] Nessuno a Vienna credette a queste versioni. La voce popolare parlò di assassinio. […] Le autorità avrebbero voluto esequie in forma privata da attuarsi in semiclandestinità. Fallirono lo scopo per la mobilitazione generale che avvenne in Austria e in tutta Europa. […] I funerali furono seguiti da una folla enorme, più di quaranta-mila persone. I corpi furono immediatamente cremati”.Nello Governato, dopo aver ricordato che nel dicembre 2000 venne assegnato il premio di “Calciatore del secolo” ad Edson Arantes do Nascimiento, detto Pelé, ed a Diego Armando Maradona, conclude così il suo romanzo:“Di Matthias Sindelar nessuno parlò, nessuno si ricordò. Non sappiamo se il tempo, come spesso succede, potrà rimediare. Però sap-piamo che una candidatura Sindelar avrebbe portato a considerare altri valori, oltre quelli meritati sui campi di calcio. Valori, da sempre e per sempre, decisivi per gli uomini.”Non esistono documenti fotografici di un mo-mento che la propaganda nazista ha dovuto forzatamente ‘ritoccare’. Tuttavia è suggesti-vo immaginare le due braccia ostinatamente abbassate lungo i fianchi in quel 3 aprile 1938, al Prater di Vienna, accanto ai due pugni neri ostinatamente alzati al cielo allo stadio di Città del Messico, il 17 ottobre 1968, da Tommy Smi-th e John Carlos sul podio dei duecento piani. Quando lo sport dà il meglio di sé.

Il Wunderteam