Friedrich Nietzsche - Considerazioni Inattuali I

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DAVID STRAUSS L'UOMO DI FEDE E LO SCRITTORE Considerazioni inattuali, I 1873

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DAVID STRAUSS L'UOMO DI FEDE E LO SCRITTORE

Considerazioni inattuali, I

1873

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Traduzione condotta sull'originale tedesco «David Strauss. Der Bekenner und der Schriftseller», in Nietzsche Werke, Kritische Gesamtausgabe, Herausgegeben von Giorgio

Colli und Mazzino Montinari. Walter de Gruyter, Berlin - New York, 1973. Traduzione di Mirella Olivieri

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Introduzione

Nell'agosto 1873, allorché uscì presso l'editore Fritzsch di Lipsia la pri­ma Considerazione inattuale, Nietzsche aveva già pubblicato da più di un anno la Nascita della tragedia dallo spirito della musica, senz'altro l'opera decisiva della sua produzione giovanile, lo scritto più dirompente e geniale che sia mai uscito dalla penna di un ventisettenne: un'opera carica di desti­no, gravida di futuro, che avrebbe fatto epoca non solo nella biografia del suo autore, ma in assoluto. Eppure non fu in virtù di quest'opera che il giovane accademico dell'Università di Basilea divenne celebre, non fu quello sguardo gettato con temerarietà nell'origine dionisiaca della trage­dia greca a suscitare il massimo clamore. L'opera che procurò maggior fa­ma al giovane Nietzsche, lo scritto che fece scalpore fu proprio la sua pri­ma Inattuale. Forse il libro più debole tra quelli da lui pubblicati, come ha osservato Giorgio Colli', quello più paradossalmente legato all'attualità. Un 'opera tutta e solo polemica, ferocemente polemica. Di essa il lettore di oggi stenta a ricordarsi qualche altro contenuto o concetto che non sia l'impietoso e quasi ossessivo martellare contro la figura del «filisteo col­to», esemplarmente colta e centrata nell'opera del critico biblico e storico del Cristianesimo David Strauss (1808-1874). Nella persona di questo teo­logo liberale di scuola hegeliana Nietzsche prendeva a bersaglio — col pi­glio furente ed aspro tipico dell'alloro venerato Schopenhauer — l'esiziale fusione tra cultura e Stato, l'indecenza di un pensiero che nuotava quieta­mente abbandonato alla corrente dello spirito del tempo: di un pensiero e di una cultura, dunque, sommamente improduttivi e cioè incapaci di attri­to e di urto con il presente.

Quella di Nietzsche non era nemmeno una polemica nel senso garbata­mente letterario o giornalistico del termine, la sua era una guerra sans phrase condotta con i mezzi della scrittura. Quando — tra una devota visi­ta a Bayreuth dai Wagner ed un'escursione sulle montagne svizzere (a Flims nei Grigioni) con l'amico di Pforta Gersdorff— egli decide di muo­vere il suo attacco a sorpresa contro la Kultur bismarckiana (preceduto dall'ancora timide schermaglie contenute nella conferenza Sull'avvenire delle nostre scuole dell'anno precedente), l'ormai anziano Strauss, già noto per la sua Vita di Gesù (uscita nel 1836), aveva pubblicato da poco (nei pri­mi mesi del 1872, per l'esattezza) il suo libro su La vecchia e la nuova fede. Un 'opera, questa, di immediato successo (in pochi mesi aveva raggiunto le quattro edizioni), in perfetta armonia con lo spirito dominante nel neo proclamato Reich tedesco; tutta intrisa di ottimistico progressismo, piatta­mente apologetica — fin nel bagaglio metaforologìco che metteva in cam­po — della modernità o meglio, della sua identificazione con un mélange tra devozione patriottica ed esaltazione religiosa della scienza (la nuova fe­de che doveva soppiantare quella non ancora demitologizzata del Cristia-

1 Cfr. G. Colli, Scritti su Nietzsche, Adelphi, Milano 1980, p. 21.

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nesimo tradizionale). Di una tale opera non si poteva non parlare a Bay-reuth, nel circolo dei Wagner. E Cosimo, infatti, in una pagina di Diario del 7 febbraio 1873 annota di averne discusso durante un pranzo dai We-sendonck e di averla trovata insieme al marito — a differenza della padro­na di casa che la difendeva — «terribilmente superficiale». Tanto più che lo stesso Wagner aveva «un vecchio conto da regolare»2 con David Strauss, da ascriversi al fatto che quest'ultimo era intervenuto pubblica­mente a favore del direttore d'orchestra Franz Lachner (1803-1890) nella polemica con lo stesso Wagner, che lo aveva praticamente soppiantato alla corte monacense di Luigi n di Baviera. Perciò si è parlato3 della prima Inattuale nietzscheana come di un'opera scritta dietro suggerimento o, ad­dirittura, su incarico dello stesso Wagner, evidentemente insoddisfatto dei tre «velenosi» ma poco efficaci sonetti che aveva indirizzato contro Strauss. Ma non è questo un problema di grande rilevanza ai fini di una lettura e di una valutazione del «bellicoso» pamphlet nietzscheano. Indub­biamente qui — ma l'osservazione si può tranquillamente estendere alle al­tre Inattuali — è ancora fortemente avvertibile l'influenza dei Maestri della sua gioventù: Schopenhauer e Wagner, il travagliato distacco dai quali co­mincerà solo con il concludersi o meglio, con l'interruzione del ciclo delle Inattuali (Nietzsche ne aveva infatti previste altre dodici). Della presenza di Schopenhauer nella verve causticamente polemica che anima lo scritto an-ti-straussiano e, quindi, anti-fìlisteo dì Nietzsche, già si è detto. Wagner poi, se non direttamente all'origine di queste pagine come occulto o palese ispiratore, ne è certo partecipe della genesi fino ad attenderne con impa­zienza l'invio (come testimonia, appunto, una sua lettera a Nietzsche del 30 aprile 1873). Non è, però, quella delle ascendenze o dei debiti la cifra migliore per leggere questa prima Considerazione inattuale, di cui è quasi ovvio affermare che si tratta ancora di un frutto acerbo, seppur denso di succhi originali. Per interpretare quest'opera che si presenta nel segno del­l'eccesso: dell'eccesso polemico anzitutto e, quindi, dell'eccedenza della forma e della tonalità stilistica su qualsiasi contenuto, la chiave migliore ci è ancora offerta dallo stesso Nietzsche con lo sguardo retrospettivo che in Ecce homo rivolge alle quattro Inattuali ed, in particolare, allo «straordi­nario successo» che toccò alla prima, al «superbo» clamore da essa suscita­to. Come precisa subito Nietzsche, le Inattuali sono da leggersi essenzial­mente nel segno della guerra: hanno il carattere strategicamente bellico del­l'attacco, dell'attentato. E qui, nella prima, l'attacco frontale, l'incursione quasi terroristica era rivolta direttamente alla «cultura tedesca», contro la sua fatale mutazione in pura e semplice «opinione pubblica». E già così si chiarisce il senso dello scritto contro Strauss: l'aver sancito un irreversibile dissidio tra lo spirito della filosofia nietzscheana e quello del Deutschtum e, più in generale, tra la sua concezione della cultura e una qualsiasi filoso­fia dello Stato. Ogni immediata utilizzazione politica di Nietzsche trova qui Usuo ingombrante ostacolo4. Con il suo attacco al filisteismo della cul­tura, in quanto del tutto acquiescente ali'«estirpazione dello spirito tedesco a favore delV'impero tedesco"», Nietzsche intende avvertire che lo stile del suo pensiero è assolutamente in urto con il proprio presente. Ma questo —

2 Cfr. per questo C. P. Janz, Friedrich Nietzsche. Biographie, tr. it.: Vita di Nietzsche, a cura di M. Carpitella, 3 voli., Laterza, Roma-Bari 1980, voi. ì, pp. 498-499.

3 Cfr. C. P. Janz, op. cit., voi. i, pp. 499-500. 4 A questo proposito è sempre da vedere il saggio di M. Cacciari su «L'impolitico nietz­

scheano» contenuto in F. Nietzsche, // libro del filosofo, a cura di M. Beer e M. Ciampa, con saggi di M. Cacciari, F. Masini, S. Moravia e G. Vattimo, Savelli, Roma 1978.

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si potrebbe obiettare — era già espresso a chiare note nella Nascita della tragedia con la ricerca, che qui conosce un eclatante inizio, di un immedia­to contatto del pensiero, all'apice del Moderno, con lo spirito della trage­dia greca: con l'oscuro e terribile fondo di aspre dissonanze e di inaudita crudeltà da cui emerge. Ma in tal caso la forma espositiva pare ancora im­pacciata, ancora avvolta di professorali cautele, di timidezze proprie del fi­lologo; qui ancora, a differenza che nel Nietzsche maturo, «lo stile smorza contenuti troppo dirompenti, quasi li diluisce, li attenua nel fragore del lo­ro disvelamento»5. La sua filosofia tragica, lo sappiamo, doveva trovare la propria genuina cifra stilistica: la sua forma. E questa sarà una forma radi­calmente antitetica alla grevità peculiare dei filosofi tedeschi della cattedra, sarà la tonalità sospesa e talvolta letteralmente enigmatica della scrittura per aforismi.

Quando Nietzsche osserva, nel primo capitolo dello Strauss, che la vitto­ria militare della Prussia sulla Francia è l'opposto di una vittoria della cul­tura tedesca, in quanto «la cultura francese continua ad esistere come pri­ma, e noi dipendiamo da essa come prima», sembra avvertire questo pro­blema come un problema interno alla formazione della sua filosofia. La «severa disciplina», la «più ferma obbedienza» come qualità morali tipiche dell'esercito tedesco (dei suoi colti ufficiali) lo distinguono da quello fran­cese, così come gli eserciti macedoni si distinguevano dagli «eserciti greci, incomparabilmente superiori quanto a cultura». Perché cultura — afferma Nietzsche con echi certamente burckhardtiani — è «soprattutto unità di stile artistico in tutte le manifestazioni vitali di un popolo». E quanto vede imperare nell'attuale cultura tedesca è il perfetto contrario: «la barbarie, ossia la mancanza dì stile o la caotica confusione di tutti gli stili». Quel che allora sottintende Nietzsche già all'inizio del suo scritto del 1873 è una pro­vocatoria equiparazione di antichità greca e modernità «francese». Così, ai suoi occhi lo spazio del Moderno sì apre subito come l'antitesi di deboli e celebratori appaesamentì (qui, insomma, Nietzsche si rivela già un critico del Post-moderno a cui lo si vorrebbe talvolta assimilare): non, dunque, nello spirito di una conciliazione hegelianeggiante o storicistica, bensì in quello di una somma conflittualità. «Intanto — ribadisce — teniamo pre­sente il fatto che, oggi come ieri, in tutte le questioni di forma noi dipen­diamo — e dobbiamo dipendere — da Parigi: infatti sinora una cultura originale tedesca non esiste.» Con un'affermazione del genere, a ben vede­re, non era deciso soltanto un destino di isolamento e di dissidio nei con­fronti dello Stato tedesco e della sua cultura. Qui già si profilavano, seppur implicitamente, i motivi che lo avrebbero diviso da Wagner fino ad oppor­gli ironicamente la levità mediterranea della musica di Bizet; i motivi del futuro emergere di un esprit irrisorio e dissacrante nella sua filosofia che gli avrebbe fatto dedicare a Voltaire la prima opera «illuministica»: Umano, troppo umano*; quegli stessi motivi che lo avrebbero indotto ad

5 G. Colli, op. cit., p. 26. 6 Ancora in Ecce homo e proprio nelle pagine che dedica ad Umano, troppo umano Nietz­

sche chiarisce la ragione del suo distacco da Wagner, la «profonda estraneità» provata assi­stendo al primo festival di Bayreuth: «Cos'era accaduto? — Si era tradotto Wagner in tede­sco! Il "wagneriano" si era impossessato di Wagner! — L'arte tedesca, il maestro tedescol La birra tedesca*. [...] Il povero Wagner; dov'era andato a finire! Fosse almeno finito tra i porci! Ma'tra i Tedeschi!». Come, poi, avesse cercato di difendere Wagner stesso dall'identificazio­ne con la cultura tedesca contemporanea lo testimoniano gli ultimi aforismi di Al di là del be­ne e del male, dove da un lato, si continua a parlare della Francia come della «sede della più spirituale e raffinata cultura europea» (af. n. 254) e dall'altro, si sostiene la profonda affinità tra lo spirito della musica wagneriano — quello spirito incompreso allo stesso Wagner — e

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ispirare il suo pensiero di immoralista allo stile aforistico e saggistico dei grandi moralisti francesi come Montaigne, La Rochefoucauld, Chamfort.

Come l'attacco mosso da Nietzsche, con «impietoso disprezzo», alla cul­tura come «opinionepubblica», avvenisse essenzialmente in difesa della di­gnità della lingua tedesca — e dunque in uno spirito krausiano avant-Iettre7

— fu colto da uno dei suoi pochi difensori: lo scrittore Karl Hillebrand (1829-1884) in un articolo apparso sulla Augsburger Zeitung e ricordato con gratitudine da Nietzsche in Ecce homo. Ma tale aspetto non faceva al­tro che accrescere la spavalda provocatorietà dello scritto nietzscheano. Come vide l'onesto Hillebrand, attaccando Strauss Nietzsche prendeva di mira uno tra i «primi scrittori della nazione» e, inchiodando la sua presun­ta «classicità» alle miserie del gergo accademico-giornalistico già allora im­perante, mostrava «quell'altissimo coraggio che porta sul banco degli ac­cusati proprio i favoriti di un popolo». Così inteso, allora, il capitolo 12 — puntigliosamente dedicato ad analizzare l'inconsistenza sintattico-gram-maticale, prima ancora che stilistica, della prosa straussiana — è più che una «stucchevole lista» dovuta alla «propria pedanteria professorale», co­me ha sostenuto invece Giorgio Colli8. Esso è frutto anche di una profonda devozione per la lingua di Goethe e di Lichtenberg e, insieme, della scalpi­tante impazienza di trovare una nuova forma che rendesse onore a questi nomi e al classico nitore della loro scrittura. Ed in questo prefigura già, in qualche modo, il doppio sguardo che — nella sua ricerca — Nietzsche avrebbe gettato verso i frammenti degli antichi greci e, da «buon euro­peo», verso la «raffinata» modernità dei francesi; nonché Usuo imparare a «pensare camminando», come un baudelairìano flàneur, per i vicoli del porto di Genova o per le calli veneziane.

È per tutta questa serie di motivi che non si può sottovalutare l'importanza di questa prima Considerazione inattuale. Seppur legata all'attualità (e, per­ciò, apparentemente distante dal lettore odierno) nel suo bruciarsi tutta nella furia della polemica, nella distruttiva identificazione senza residui con il pro­prio bersaglio — una identificazione che priva certamente lo scritto del «pa­thos della distanza» e della serenità della critica — essa resta comunque la pri­ma, perentoria autoaffermazione dell'inattualità di Nietzsche, del suo esser «postumo» rispetto al proprio tempo. «La ripercussione di questo scritto — leggiamo ancora in Ecce homo — è addirittura incalcolabile nella mia vita. Nessuno ha più cercato di attaccar briga con me fino ad oggi. Si tace, in Ger­mania mi si tratta con cupa circospezione: da anni ho usufruito di un 'illimita­ta libertà di parola, per la quale nessuno oggi, tantomeno nel "Reich", ha le mani abbastanza libere. Il mio paradiso è "all'ombra della mia spada"... In fondo avevo messo in pratica una massima di Stendhal: egli consiglia di fare il proprio ingresso in società con un duello. E come avevo saputo scegliere il mio avversario! Il primo pensatore tedesco!...»

Si comprende, allora, il senso di questo scritto e la sua posizione strate­gica nel complesso dell'opera nietzscheana, se si tiene conto che ad entrare

quello del tardo romanticismo francese; a parlare in entrambi i casi è una sola anima: «è l'Eu­ropa, l'Europa una». Ben altro sarà il tono — dominante — negli scritti che di lì a due anni {Aldi là del bene e del male è del 1886 ed era stato pensato in origine come continuazione di Umano, troppo umano) Nietzsche dedicherà all'amato-odiato Wagner.

7 A questo aspetto accenna Mario Carpitella nella sua limpida prefazione all'edizione adel-phiana della prima Inattuale, cfr. F. Nietzsche, David Strauss. L'uomo di fede e lo scrittore, nota introduttiva di M. Carpitella, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1991, p. 7.

8 Cfr. G. Colli, op. cit., p. 21.

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in società gettando il guanto di sfida al filisteismo della cultura tedesca nel­la persona di David Strauss era pur sempre l'autore della Nascita della tra­gedia. In altri termini: con il suo scritto acremente polemico — fino a di­struggere letteralmente il proprio avversario — Nietzsche mostrava di aver ormai inteso una lezione cui resterà fedele per tutta la vita e ancor più negli ultimi libri che pubblicherà. Ossia, che il pianissimo non può essere il mo­dulo espressivo di una filosofia «moderna», anche nel caso che si presenti come una critica della modernità e intenda resuscitare il Dio della «saggez­za tragica»; che, dunque, anche il filosofo per farsi ascoltare — per far in­tendere finanche i suoi pensieri più segreti — deve oggi, in qualche modo, alzare il tono della sua voce e, quindi, assumere la maschera del comme­diante. Con la prima Inattuale, insomma, Nietzsche pare avvertire che d'o­ra innanzi la sua filosofia dovrà anzitutto mettersi in scena: trovare quella forma ad effetto, quella moderna forma teatrale in cui si potesse rappre­sentare il serio gioco dell'antica tragedia. Il pamphlet anti-Strauss va forse letto proprio in questa direzione: come una strategica «provocazione» del­l'autore della Nascita della tragedia, come un «ingresso in società» di cui non ci si poteva non accorgere. Che poi il senso di questo ingresso: il farsi avanti di una figura inquieta e inquietante per la cultura contemporanea, lo si potesse capire a chiare lettere solo con la seconda Inattuale — dove netto è il dissidio tra la moderna coscienza storica e le «ragioni» della vita — è altra questione. Resta semmai da precisare come anche questo tema sia già annunciato nello scritto su Strauss e precisamente nel capitolo 2, dove si descrivono i filistei «colti» come coloro che, «amanti della quiete», cercarono di «trasformare in discipline storiche tutte le scienze dalle quali ci si potesse aspettare turbamenti per la tranquillità, soprattutto la filosofìa e la filologia classica» e, così, «con la coscienza storica si salvarono dal­l'entusiasmo» fdurch das historische Bewufltsein retteten sie sich vor dem Enthusiasmus/ Quell'entusiasmo, ovvero queli'esser posseduti da un Dio come esperienza maniaca all'origine della filosofia, che Nietzsche, appun­to, cercherà di far udire ancora — in mortale inimicizia con la propria epo­ca — nella propria opera.

Quanto poi alla fortuna del testo, c'è da aggiungere alle considerazioni retrospettive dì Nietzsche — sempre, in Ecce homo, un po' inclini ali'auto­glorificazione — che l'efficacia del suo attacco a Strauss fu tale da incon­trare, paradossalmente, il plauso degli ambienti più tradizionalisti di Basi­lea, come ebbe a notare Cari Spitteler nelle sue memorie:

In uno dei miei brevi viaggi in patria, nell'anno 1874 o 1876, appresi poi su Nietzsche una cosa che per lunghi anni determinò il mio atteggiamento interiore verso di lui: trovai il mondo culturale e quello devoto di Basilea, ossia il potere e l'aristocrazia, pieni di giubilo. Il nuovo professor Nietzsche, così mi spiegarono, sebbene miscredente, aveva distrutto il vecchio Da­vid Strauss a tal punto che non avrebbe dato più segni di vita. Un professore di Basilea che, pur non essendo credente, rende ai devoti, e quindi ai detentori del potere di Basilea, il servi­gio di annientare il loro avversario più odiato e da gran tempo isolato e abbandonato da tutti, mi sembrò il contrario di una nobile azione9.

Di questo — a parte le discutibili osservazioni sul presunto isolamento di Strauss — parve accorgersi lo stesso Nietzsche, se poco dopo la morte del suo bersaglio polemico, avvenuta 18 febbraio 1874, scrisse all'amico Gers-dorff: «Ieri hanno sepolto David Strauss a Ludwigsburg. Spero proprio di non avergli turbato gli ultimi anni, e che sia morto senza saper niente di me — Mi sento alquanto toccato». In fin dei conti Strauss, con la sua Vita di

' C. Spitteler, Gesammelte Werke, vi, Artemis-Verlag, Zìi ridi 1947, tr. it.: Le opere, UTET, Torino 1978, p. 497 ss., citato in C. P. Janz, op. cit., voi. i, p. 500.

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Gesù, intorno alla metà degli anni Sessanta era stato una lettura importan­te per il giovane Nietzsche, tra quelle decisive nel farlo desistere dagli studi teologici e, quindi, dal percorrere la strada del padre. Il tutto, naturalmen­te, con sommo scandalo della madre10. Proprio di questo, forse, Nietzsche aveva dimenticato di mostrarsi grato nei confronti del vecchio Strauss. E probabilmente anche in tal caso la dimenticanza aveva i suoi buoni, recon­diti motivi.

FABRIZIO DESIDERI

Cfr. C. P. Janz, op. cit., voi. i, pp. 128-129.

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1. La pubblica opinione in Germania sembra quasi che vieti di parlare delle

cattive e pericolose conseguenze della guerra, soprattutto di una guerra conclusa vittoriosamente: tanto più volentieri invece si ascoltano quegli scrittori, i quali non conoscono opinione più importante di quella pubbli­ca, e che perciò si impegnano a gara ad esaltare la guerra e a seguire con giubilo i grandiosi fenomeni della sua influenza su moralità, cultura e arte. Tuttavia diciamolo: una grande vittoria è un grande pericolo. La natura umana la sopporta più difficilmente di una sconfitta; anzi sembra perfino che sia più facile riportare una simile vittoria che sopportarla in modo che non ne nasca una più grave sconfitta. Ma di tutte le cattive conseguenze che l'ultima guerra con la Francia si trascina dietro, forse la peggiore è un errore diffuso, anzi generale: l'errore dell'opinione pubblica e di tutti colo­ro che la adottano, che in quella lotta anche la cultura tedesca abbia vinto, e che pertanto la si debba adornare di ghirlande adeguate ad eventi e suc­cessi tanto straordinari. Questa illusione è quanto mai perniciosa: non tan­to perchè è un'illusione — infatti esistono errori assai salutari e benefici — ma perchè è capace di trasformare la nostra vittoria in una totale sconfitta: nella sconfitta, anzi nell'estirpazione dello spirito tedesco a favore del­l'«impero tedesco».

Anche ammesso che fossero state due culture a combattersi, il criterio per misurare il valore di quella vincente resterebbe pur sempre molto relati­vo e, così stando le cose, non autorizzerebbe affatto a un giubilo di vittoria o a un'autoglorificazione. Infatti sarebbe importante conoscere quale va­lore avesse la cultura soggiogata: forse un valore assai scarso, nel qual caso anche la vittoria, persino se ottenuta col più splendido successo delle armi, non significherebbe affatto per la cultura vincente un invito al trionfo. D'altronde, nel nostro caso, non si può parlare di una vittoria della cultura tedesca, per motivi molto semplici; infatti la cultura francese continua a esistere come prima, e noi dipendiamo da essa come prima. Neppure al successo delle armi essa ha contribuito. Una severa disciplina militare, un coraggio e una tenacia innati, la superiorità dei comandanti, l'unità e l'ob­bedienza dei comandati, elementi insomma che nulla hanno a che fare con la cultura, ci hanno consentito la vittoria su avversari ai quali mancavano i più importanti di questi elementi: solo di questo ci si può stupire, che quel che oggi in Germania si chiama cultura abbia ostacolato così poco questi requisiti militari necessari a un grande successo, forse solo perché questo qualcosa che si definisce cultura stavolta ha ritenuto più vantaggioso per sé mostrarsi servizievole. Se lo si lascia crescere e lussureggiare, se lo si vizia con la lusinghiera illusione di essere stato vincitore, esso avrà la forza di estirpare, come ho detto, lo spirito tedesco — e chissà se allora si potrà fa­re ancora qualcosa con quel che resterà del corpo tedesco!

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Se fosse possibile sollevare quel coraggio freddo e impassibile, che il Te­desco contrappose al patetico e subitaneo impeto del Francese, contro il nemico interno, contro quella «culturalità» sommamente ambigua e co­munque antinazionale che oggi in Germania, con pericoloso equivoco, vien detta cultura, non sarebbe perduta ogni speranza di giungere a una ve­ra, genuina cultura tedesca, l'opposto di quella culturalità: infatti ai Tede­schi non sono mai mancati i capi e i generali più perspicaci e ardimentosi — solo che a questi spesso mancarono i Tedeschi. Ma che sia possibile im­primere al valore tedesco questa nuova direzione, mi appare sempre più problematico e, dopo la guerra, ogni giorno più improbabile; vedo infatti come ognuno sia convinto che non ci sia più affatto bisogno di una batta­glia e di un tale coraggio, che anzi la maggior parte delle cose sia già siste­mata nel più bel modo possibile, e che in ogni caso tutto ciò che serve sia stato trovato e fatto già da tempo, insomma che dappertutto il miglior se­me della cultura sia già stato in parte seminato, in parte sbocci in verdi ger­mogli, e qua e là addirittura metta fiori rigogliosi. In questo campo non c'è solo contentezza; c'è felicità ed ebbrezza. Sento questa ebbrezza e questa felicità nel contegno incomparabilmente sicuro dei giornalisti e dei fabbri­catori tedeschi di romanzi, tragedie, liriche e storie: giacché questa è chia­ramente una compagnia di affini, che sembra aver congiurato per impa­dronirsi delle ore di ozio e di digestione dell'uomo moderno, ossia dei suoi «momenti culturali», e stordirlo con della carta stampata. In questa com­pagnia oggi, dopo la guerra, tutto è felicità, dignità e coscienza di sé: dopo tali «successi della cultura tedesca» essa si sente non soltanto confermata e sanzionata, ma quasi sacrosanta, perciò parla più solennemente, ama ri­volgere allocuzioni al popolo tedesco, pubblica, come si fa per i classici, opere complete, e nei fogli mondiali a sua disposizione sanziona anche ef­fettivamente alcuni membri della sua cerchia quali nuovi classici tedeschi e scrittori ideali. Forse bisognerebbe aspettarsi che i pericoli di un siffatto abuso di successo dovessero essere avvertiti dalla parte più avveduta e istruita degli uomini di cultura tedeschi, o che almeno si sentisse quanto c'è di penoso in questo spettacolo: infatti cosa può essere più penoso del vede­re un deforme starsene pettoruto come un gallo davanti allo specchio e scambiare occhiate di ammirazione con la propria immagine? Ma le classi istruite lasciano di buon grado che accada quel che accade, e hanno abba­stanza da occuparsi di se stesse per potersi preoccupare anche dello spirito tedesco. Inoltre i loro membri sono convinti col massimo grado di sicurez­za che la loro propria educazione sia il frutto più maturo e più bello del tempo, anzi di tutti i tempi, e non comprendono affatto che ci si preoccupi per l'educazione tedesca generale, in quanto essi stessi e gli innumerevoli loro simili sono, per quanto li riguarda, molto al di sopra di ogni preoccu­pazione del genere. A un osservatore più attento, soprattutto se è stranie­ro, non può del resto sfuggire che, fra quel che oggi il dotto tedesco chia­ma la sua educazione e quella trionfante cultura dei nuovi classici tedeschi, esiste un contrasto soltanto riguardo alla quantità del sapere: ovunque sia questione non di sapere, ma di saper fare, non di scienza ma di arte, ossia dovunque la vita debba testimoniare della specie della formazione, esiste oggi una sola cultura tedesca — e questa pretenderebbe di aver vinto sulla Francia?

Questa affermazione appare del tutto incomprensibile: proprio nel più ampio sapere degli ufficiali tedeschi, nella maggiore istruzione dei soldati tedeschi, nella più scientifica condotta di guerra tutti i giudici imparziali, e infine gli stessi Francesi, hanno riconosciuto consistere il vantaggio decisi-

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vo. Ma in qual senso la cultura tedesca potrebbe ancora pretendere di aver vinto, se la si volesse separare dall'istruzione tedesca? In nessuno: giacché le qualità morali di più severa disciplina, di più ferma obbedienza non han­no niente a che fare con la cultura, e hanno per esempio fatto distinguere gli eserciti macedoni di fronte agli eserciti greci, incomparabilmente supe­riori quanto a cultura. Si fa solo confusione quando si parla di una vittoria della formazione e della cultura tedesche, una confusione che si fonda sul fatto che in Germania il concetto puro di cultura è andato perduto.

Cultura è soprattutto unità di stile artistico in tutte le manifestazioni vi­tali di un popolo. Ma il molto sapere e il molto studio non sono né un mez­zo necessario della cultura né un indizio di essa, e all'occorrenza si accor­dano nel migliore dei modi con il contrario della cultura, la barbarie, ossia con la mancanza di stile o la caotica confusione di tutti gli stili.

È in questa caotica confusione di tutti gli stili che vive il Tedesco dei no­stri giorni: e resta un problema serio come gli sia possibile non accorgerse­ne, nonostante tutta la sua dottrina, e per di più rallegrarsi di cuore della sua presente «cultura». Eppure tutto dovrebbe metterlo in guardia: uno sguardo al suo vestiario, alle sue stanze, alla sua casa, una passeggiata per le vie della sua città, una sosta nei magazzini dei mercanti d'arte più in vo­ga; in mezzo ai suoi rapporti di società dovrebbe prender coscienza dell'o­rigine delle sue maniere e delle sue movenze, e in mezzo ai nostri istituti d'arte, alle gioie dei concerti, dei teatri e dei musei, rendersi conto del grot­tesco accostamento e della sovrapposizione di tutti gli stili possibili. Il Te­desco innalza attorno a sé cumuli di forme, colori, prodotti e curiosità di ogni tempo e di ogni regione, e produce così quella moderna policromia da fiera, che i suoi dotti dovranno dal canto loro esaminare e formulare come il «moderno in sé»; e in questo tumulto di tutti gli stili egli se ne resta tran­quillo a sedere. Ma con questa specie di «cultura», che è soltanto una flem­matica insensibilità per la cultura, non si possono vincere nemici, e tanto meno nemici che, come i Francesi, possiedano una cultura vera, produtti­va, non importa di quale valore, e dai quali noi sinora abbiamo imitato tutto, per di più quasi sempre goffamente.

Se avessimo davvero smesso di imitarli, non avremmo per questo ancora vinto su di loro, ma ci saremmo soltanto liberati da loro: solo quando avessimo imposto a essi una cultura tedesca originale, si potrebbe parlare anche di un trionfo della cultura tedesca. Intanto teniamo presente il fatto che, oggi come ieri, in tutte le questioni di forma noi dipendiamo — e dob­biamo dipendere — da Parigi: infatti sinora una cultura originale tedesca non esiste.

Noi tutti questo dovremmo sapere di noi stessi: lo ha anche reso noto pubblicamente uno dei pochi che avessero il diritto di dirlo ai Tedeschi in tono di rimprovero. «Noi Tedeschi siamo di ieri — disse una volta Goethe a Eckermann — È vero che da un secolo ci siamo notevolmente affinati, ma possono ancora trascorrere un paio di secoli prima che nei nostri con­nazionali penetri e si diffonda tanta intelligenza e tanta superiore cultura, che di loro si possa dire: è passato molto tempo da quando essi erano bar­bari.»

Ma se la nostra vita pubblica e privata manca così visibilmente del con­trassegno di una cultura produttiva e ricca di stile, se per di più i nostri grandi artisti hanno ammesso e ammettono, con accenti della massima se-

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rietà e con la sincerità che è propria della grandezza, questo fatto enorme e profondamente vergognoso per un popolo dotato, com'è possibile che fra i Tedeschi colti regni la più grande contentezza, una contentezza che, dal­l'ultima guerra in poi, addirittura si mostra continuamente pronta a pro­rompere in spavalda esultanza e a trasformarsi in trionfo? Si vive comun­que nella fiducia di possedere una vera cultura: e l'enorme contrasto fra questa fiducia soddisfatta, anzi trionfale, e un'evidente manchevolezza sembra sia percepito solo da pochissime, rarissime persone. Infatti tutti co­loro che concordano con l'opinione pubblica, si sono bendati gli occhi e tappate le orecchie — quel contrasto non deve esistere. Come è possibile ciò? Quale forza è tanto potente da prescrivere un simile «non deve»? Qual sorta di uomini dev'esser giunta al potere in Germania per vietare senti­menti tanto forti e semplici, oppure per impedirne l'espressione? Questa potenza, questa sorta di uomini, voglio chiamarli per nome — sono i fili­stei colti.

Com'è noto, la parola filisteo è presa dalla vita studentesca, e definisce in senso lato, e tuttavia affatto popolare, l'opposto del figlio delle Muse, dell'artista, del vero uomo di cultura. Ma il filisteo colto — studiarne il ti­po, ascoltarne le dichiarazioni, ove le faccia, diviene oggi increscioso dove­re — si distingue dall'idea generale della specie «filisteo» per una supersti­zione: si illude di essere egli stesso figlio delle Muse e uomo di cultura; un'illusione incomprensibile, dalla quale discende che egli non sa affatto che cosa sia il filisteo e che cosa il suo contrario: per cui non ci meraviglie-remo se nella maggior parte dei casi giurerà solennemente di non essere fili­steo. In questa mancanza di ogni conoscenza di sé, egli si sente fermamente convinto che la sua «educazione» sia proprio la piena espressione della ve­ra cultura tedesca: e poiché dappertutto si trova davanti persone colte della sua specie, e tutte le istituzioni pubbliche, scolastiche, culturali e artistiche sono organizzate in base alla sua culturalità e alle sue esigenze, egli si porta attorno dappertutto il vittorioso sentimento di essere il degno rappresen­tante della cultura tedesca odierna, e in conformità a ciò formula le sue ri­chieste e le sue pretese. Ora, se la vera cultura presuppone comunque un'u­nità di stile, e se persino una cultura cattiva e degenerata non può pensarsi senza quella molteplicità che confluisca nell'armonia di un unico stile, la confusione insita in quell'illusione del filisteo colto può ben derivare dal fatto che egli dappertutto ritrova l'uniforme impronta di se stesso, e che da questa impronta uniforme di tutte le «persone di cultura» deduce un'unità di stile nell'educazione tedesca, insomma una cultura. Attorno a sé egli scorge esigenze tutte uguali e opinioni simili; ovunque vada, subito lo av­volge il vincolo di una tacita convenzione su molte cose, specialmente in questioni di religione e d'arte: questa imponente omogeneità, questo tutti unisono non comandato eppure subito prorompente, Io induce a credere che qui operi una cultura. Ma il filisteismo sistematico e reso dominante non è, per il fatto di avere un sistema, ancora cultura, e neppure cattiva cultura, bensì sempre e soltanto il contrario di essa, ossia barbarie durevol­mente fondata. Infatti tutta quell'unità di impronta, che così regolarmente ci salta agli occhi in ogni persona colta della Germania di oggi, diviene tale solo per la consapevole o inconsapevole esclusione e negazione di tutte le forme ed esigenze artisticamente produttive di un vero stile. Nel cervello del filisteo colto dev'essersi prodotto uno sciagurato travisamento: egli considera cultura proprio ciò che ne è la negazione, e poiché procede con coerenza, ottiene alla fine un gruppo compatto di tali negazioni, un siste­ma di non-cultura, alla quale potrebbe concedersi persino una certa «unità

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di stile», se ancora avesse un senso parlare di una barbarie assunta a stile. Se lo si lascia libero di decidere tra un'azione conforme a uno stile e una contraria, egli sceglie sempre la seconda, e poiché sceglie sempre questa, in tutte le sue azioni resta un'impronta negativamente omogenea. Proprio di qui egli riconosce il carattere di ciò che ha patentato come «cultura tede­sca»: è dalla non concordanza con questa impronta che egli misura ciò che gli riesce ostile e fastidioso. In tal caso il filisteo colto si limita a respingere, negare, celare, tapparsi le orecchie, non guardare, è un essere negativo, an­che nel suo odio e nella sua ostilità. Ma egli nessuno odia più di colui che lo tratta da filisteo e gli dice ciò che è: l'ostacolo di tutti i forti e i produtti­vi, il labirinto di tutti i dubbiosi e gli sperduti, la palude di tutti gli sfiniti, la catena al piede di tutti coloro che corrono verso alti scopi, la nebbia ve­lenosa per tutti i nuovi germogli, l'arido deserto di sabbia per lo spirito te­desco che cerca assetato nuova vita. Infatti cerca, questo spirito tedesco! e voi lo odiate perché cerca, e non vuol credervi quando sostenete di aver già trovato ciò che esso cerca. Com'è possibile che un tipo come quello del fili­steo colto sia potuto nascere e, se è nato, sia potuto assurgere alla potenza di supremo giudice di tutti i problemi culturali tedeschi? com'è possibile, dopo che accanto a noi è passata una serie di grandi figure eroiche che con ogni loro movenza, con tutta l'espressione del volto, con la voce interroga­tiva, gli occhi fiammeggianti, rivelavano una sola cosa: che erano dei cer­catori, e cercavano ardentemente e con severa determinazione proprio ciò che il filisteo colto si illude di possedere: la vera, originaria cultura tede­sca? Esiste un terreno, sembravano chiedere, così puro, così intatto, di così verginale sacralità, che su di esso e su nessun altro lo spirito tedesco possa costruire la sua casa? Così chiedendo traversarono il deserto e la sterpaglia di tempi miserabili e di situazioni anguste, e come cercatori scomparvero ai nostri sguardi: tanto che uno di loro, in tarda età, potè dire per tutti: «Per mezzo secolo mi son reso la vita amara abbastanza e non mi son concesso riposo, ma ho sempre lottato e indagato e agito quanto meglio e più ho po­tuto».

Ma come giudica la nostra cultura filistea questi cercatori? Li prende semplicemente per persone che abbiano trovato, e sembra dimenticare che essi si sentivano soltanto dei cercatori. Abbiamo già la nostra cultura, si di­ce allora, perché abbiamo i nostri «classici», non esistono solo le fonda­menta, no, anche l'edificio già poggia su di esse — questo edificio siamo noi. Così dicendo il filisteo si porta la mano alla fronte.

Ma per poter giudicare i nostri classici così erroneamente e onorarli in modo così insultante, bisogna che non li si conosca più affatto: e questa è la situazione generale. Altrimenti si dovrebbe sapere che c'è un solo modo di onorarli, quello di continuare a cercare, nel loro spirito e con il loro co­raggio, senza stancarsi. Invece far gravare loro addosso il termine così im­pegnativo di «classici» ed «edificarsi» una volta ogni tanto sulle loro ope­re, cioè abbandonarsi a quelle commozioni pallide ed egoistiche chele no­stre sale da concerto e le nostre platee promettono a chiunque paghi; e così pure erigere statue e battezzare col loro nome feste e associazioni — tutto questo è soltanto un saldo in moneta sonante, con il quale il filisteo colto chiude i conti con loro, per non conoscerli più nel resto, e soprattutto per non doverli seguire e non dover continuare a cercare. Infatti: non si deve più cercare; questo è il motto del filisteo.

Una volta questo motto aveva un certo senso: allorché in Germania, nel primo decennio di questo secolo, si levò un confuso mareggiare di così molteplici e sconcertanti ricerche, esperimenti, distruzioni, promesse, pre-

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sagi, speranze, che il ceto medio intellettuale dovette a ragione temere per se stesso. A ragione esso allora respinse con una scrollata di spalle il miscu­glio di filosofie fantasiose, dal linguaggio distorto, e di esaltata riflessione sulla storia, consapevole dei fini, il carnevale di tutti gli dèi e miti messo as­sieme dai Romantici, e le mode e le follie poetiche inventate in uno stato di ebbrezza; a ragione, perché il filisteo non ha diritto neppure a una dissolu­tezza. Ma, con la scaltrezza propria delle nature inferiori, egli profittò del­l'occasione per render sospetta la ricerca in generale e per esortare alla co­moda scoperta. I suoi occhi si aprirono alla felicità filistea: cercò scampo da tutto quel selvaggio sperimentare rifugiandosi nell'idillico, e contrappo­se all'irrequieto impulso creativo dell'artista un piacere tranquillo, il piace­re per il proprio angusto orizzonte, per la propria quiete, anzi per la pro­pria limitatezza. Il suo dito teso indicava, senza inutili pudori, tutti gli an­goli riposti e segreti della sua vita, le tante gioie ingenue e toccanti che cre­scevano, come umili fiori, nella più misera profondità di un'esistenza non coltivata e per così dire sul terreno paludoso della vita filistea.

Si trovarono singolari talenti descrittivi che con gentile pennello dipinse­ro la felicità, la quiete, la quotidianità, la villica sanità e tutta la conforte-volezza diffusa nelle camere dei bambini, degli studiosi e dei contadini. Con tali libri illustrati della realtà tra le mani, quegli uomini placidi cerca­rono di trovare una volta per tutte un accordo con gli inquietanti classici e con le esortazioni che da essi provenivano a continuare la ricerca; escogita­rono il concetto di età degli epigoni, soltanto per aver pace ed esser pronti a sfoderare subito, di fronte a ogni scomoda novità, il verdetto sfavorevole di «opera di epigono». Appunto questi amanti della quiete allo stesso sco­po, di garantirsi la propria pace, si impadronirono della storia, e cercarono di trasformare in discipline storiche tutte le scienze dalle quali ci si potesse­ro ancora aspettare turbamenti per la tranquillità, soprattutto la filosofia e la filologia classica. Con la coscienza storica si salvarono dall'entusiasmo — perchè la storia nemmeno questo doveva più produrre, come invece Goethe poteva ancora pensare: mentre proprio l'ottundimento è oggi lo scopo di questi non filosofici ammiratori del nil adrnirari, quando cercano di intendere tutto storicamente. Mentre si dava a credere di odiare il fanati­smo e l'intolleranza in ogni loro forma, in sostanza si odiava il genio domi­natore e la tirannide di reali esigenze culturali; e per questo vennero impe­gnate tutte le forze a paralizzare, ottundere o dissolvere dovunque ci si do­vessero aspettare movimenti freschi e potenti. Una filosofia che sotto fregi bizzarri nascondeva, come la veste di Coo, la professione di fede filistea del suo fondatore, inventò per di più una formula per la divinizzazione del­la quotidianità: parlò della razionalità di tutto ciò che è reale, entrando co­sì nelle grazie del filisteo colto, il quale ama anche i fregi bizzarri, ma so­prattutto concepisce come reale solo se stesso, e tratta la propria realtà co­me criterio di misura della ragione nel mondo. A questo punto egli conces­se a chiunque e a se stesso di indagare, di estetizzare, soprattutto di far mu­sica e poesia, e anche quadri, come pure intere filosofie: soltanto, per amor di Dio, che tutto da noi restasse com'era, che a nessun costo si scom­pigliasse qualcosa nel «razionale» e nel «reale», cioè nel filisteo. Costui per la verità ama molto abbandonarsi di tanto in tanto alle graziose e ardite trasgressioni dell'arte, e apprezza non poco il fascino di questi oggetti di distrazione e di intrattenimento; ma separa rigorosamente la «serietà della vita», ossia la professione, gli affari, nonché la moglie e i figli, dal diverti­mento: e di quest'ultimo fa parte a un dipresso tutto ciò che appartiene alla cultura. Perciò guai a quell'arte che cominci essa stessa a fare sul serio e

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ponga esigenze che gli tocchino il guadagno, gli affari e le abitudini, ossia la sua serietà di filisteo — da un'arte del genere egli distoglie gli occhi come se vedesse qualcosa di osceno, e con la faccia di un guardiano della castità avverte ogni virtù bisognosa di protezione di non guardare.

Quanto è eloquente nello sconsigliare, tanto è grato all'artista che lo sta a sentire e si lascia sconsigliare; gli fa capire che con lui si vorrà essere più permissivi e indulgenti e che da lui, fido compagno, non si esigeranno ca­polavori sublimi, ma soltanto due cose: o imitazione della realtà sino alla scimmiottatura, in idilli o in mansuete satire umoristiche, oppure libere co­pie delle opere più riconosciute e famose dei classici, però con pudiche con­cessioni al gusto dell'epoca. Se infatti egli apprezza soltanto l'imitazione da epigono o la iconica fedeltà nel ritrarre il presente, sa che quest'ultima glorifica lui stesso e accresce il piacere del «reale», e che la prima non gli reca pregiudizio, anzi giova alla sua reputazione di classico arbitro del gu­sto, e per il resto non gli procura nessun altro disturbo, dato che con i clas­sici si è già accordato una volta per tutte. Infine inventa ancora per le sue abitudini, i suoi modi di vedere, le sue antipatie e le sue preferenze, la for­mula universalmente efficace di «salute», ed elimina, accusandolo di esser malato e stravagante, ogni scomodo guastafeste. Così David Strauss, vero satisfait della nostra situazione culturale e tipico filisteo, parla con espres­sione caratteristica del «filosofare, invero sempre geniale, ma spesso mal­sano e sterile, di Arthur Schopenhauer». È infatti un dato fatale che «lo spirito» soglia discendere con particolare simpatia sui «malsani e sterili» e che persino il filisteo, se una volta tanto è onesto con se stesso, senta nei fi­losofemi che il suo simile mette al mondo e sul mercato, qualcosa come un filosofare molte volte insulso, eppure sempre sano e fecondo.

Ogni tanto infatti i filistei, purché si trovino tra loro, si abbandonino al vino e ricordino le grandi imprese guerresche, diventano sinceri, discorsivi e ingenui; allora vengono alla luce parecchie cose che altrimenti restano ti­morosamente nascoste, e può capitare che qualcuno spiattelli i segreti prin­cipali dell'intera confraternita. Un momento del genere lo ha avuto recen­temente un noto teorico di estetica della scuola razionalistica hegeliana. In verità l'occasione era abbastanza insolita: si celebrava, in una rumorosa cerchia di filistei, la memoria di un vero e schietto non filisteo, di uno, per di più, che nel senso più stretto del termine morì a causa dei filistei: la me­moria del magnifico Hòlderlin. Perciò il famoso teorico di estetica aveva diritto in quell'occasione di parlare delle anime tragiche che periscono nel­lo scontro con la «realtà», intendendo però la parola realtà nel senso sud­detto di ragione filistea. Ma la «realta» adesso è un'altra: ci si potrebbe chiedere se Hòlderlin si ritroverebbe nella grande epoca presente. «Io non so», disse Fr. Vischer, «se la sua anima sensibile avrebbe retto a tutta la grossolanità insita in ogni guerra, a tutta la depravazione che vediamo avanzare dopo la guerra nei campi più diversi. Forse egli sarebbe rispro­fondato nello sconforto. Egli era una delle anime disarmate, era il Werther della Grecia, un innamorato senza speranza; era una vita piena di delica­tezza e di nostalgia, ma nella sua volontà c'erano anche forza e contenuto, e grandezza, pienezza e vita nel suo stile, che talvolta ricorda addirittura Eschilo. Solo che il suo spirito aveva troppo poca durezza; gli mancava l'arma dell'umorismo; non poteva sopportare che non si fosse ancora bar­bari, quando si era filistei.» Quest'ultima dichiarazione ci interessa, non le dolciastre condoglianze dell'oratore. Già, si riconosce di essere filistei, ma barbari? A nessun costo. Il povero Hòlderlin purtroppo non ha saputo fa­re una distinzione così sottile. Certo, se con la parola barbarie si pensa al

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contrario della civiltà, e forse addirittura alla pirateria e ai cannibali, quel­la distinzione è fatta a buon diritto: ma evidentemente lo studioso di esteti­ca vuol dirci: si può essere filisteo e tuttavia uomo di cultura — qui sta l'u­morismo che mancava al povero Hòlderlin, e per la cui mancanza egli perì.

In quest'occasione sfuggì all'oratore anche un'altra ammissione: «Non è sempre forza di volontà, bensì debolezza, quella che trasporta noi oltre la brama di bellezza, così profondamente sentita dalle anime tragiche» — al-l'incirca così suonò la confessione, resa in nome dei «noi» radunati, ossia dei «trasportati oltre», dei «trasportati oltre» dalla debolezza! Acconten­tiamoci di queste ammissioni! Adesso infatti sappiamo due cose, dalla boc­ca di un iniziato: primo, che questi «noi» sono veramente trasportati via, anzi addirittura trasportati oltre il desiderio di bellezza, e secondo: tramite la debolezza! Proprio questa debolezza ebbe altre volte, in momenti meno indiscreti, un nome più bello: fu la famosa «salute» dei filistei colti. Ma dopo questa recentissima informazione, potrebbe esser consigliabile parlar di loro non più come dei «sani», bensì come dei gracili oppure, rinforzan­do il termine, come dei deboli. Se soltanto questi deboli non avessero il po­tere! Che cosa può importare loro di come li si chiama? Giacché essi sono i dominatori, e non esiste vero dominatore che non sappia sopportare un so­prannome. Anzi, una volta che si abbia il potere, si impara a ridere perfino di se stessi. Allora poco importa scoprire i propri punti deboli: infatti, che cosa mai non riescono a coprire la porpora, il mantello del trionfo? La for­za del filisteo colto viene alla luce quando egli confessa la sua debolezza: e quanto più, e più cinicamente, egli la ammette, tanto più chiaramente si ri­vela quanto egli si prenda sul serio e si senta superiore. Questa è l'epoca delle ciniche ammissioni dei filistei. Come Friedrich Vischer con una frase, così David Strauss ha fatto confessioni con un libro: e cinici sono quella frase e questo libro di confessioni.

3.

In due modi David Strauss fa confessioni su quella cultura filistea, con la parola e con l'azione, ossia con la parola dell'uomo di fede e con l'azio­ne dello scrittore. Il suo libro, intitolato La vecchia e la nuova fede, è, in­tanto per il suo contenuto, e poi come libro e prodotto letterario, una con­fessione ininterrotta; e già nel fatto che egli si permetta di fare pubbliche confessioni sulla propria fede, è insita una confessione. — Il diritto di scri­vere la propria biografia dopo i quarant'anni possono averlo tutti: infatti anche l'uomo più insignificante può aver vissuto e visto da vicino qualcosa che per il pensatore risulti prezioso e degno di nota. Ma rendere confessio­ne sulla propria fede va considerato come incomparabilmente più preten­zioso, giacché presuppone che colui che si confessa dia valore non soltanto a ciò che durante la sua esistenza ha vissuto o indagato o visto, ma addirit­tura a ciò che ha creduto. Ora, l'ultima cosa che il vero pensatore desideri conoscere è quel che tutte queste nature alla Strauss professino come loro fede, e quel che esse abbiano «pensato, quasi come in sogno» (p. 10), su cose di cui ha diritto di parlare solo colui che le conosce di prima mano. Chi può sentire il bisogno di conoscere la professione di fede di un Ranke o di un Mommsen, i quali peraltro sono studiosi e storici ben diversi da David Strauss, e che tuttavia, qualora volessero intrattenerci sulla loro fede e non sulle loro conoscenze scientifiche, passerebbero malamente il limite? Inve­ce Strauss fa proprio questo, raccontandoci la propria fede. Nessuno ha

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voglia di saperne qualcosa, tranne forse qualche ottuso avversario delle idee straussiane, che fiuti in esse principi di fede davvero satanici e desideri che Strauss, manifestando questi satanici secondi fini, comprometta le sue dotte affermazioni. Forse questi rudi individui hanno trovato in questo nuovo libro quel che cercavano; noialtri, che non avevamo alcun motivo di fiutare tali satanici secondi fini, non abbiamo trovato niente del genere e, se anzi le cose procedessero un po' più satanicamente, non saremmo affat­to scontenti. Infatti il modo in cui Strauss parla della sua nuova fede, non è davvero quello in cui ne parlerebbe uno spirito malvagio, ma soprattutto nessuno spirito, e tanto meno un vero genio. Invece così parlano soltanto quegli uomini che Strauss ci presenta come i suoi «noi» e che, quando ci raccontano la loro fede, ci annoiano ancor più di quando ci raccontano i loro sogni, siano poi costoro «dotti o artisti, funzionari o militari, esercen­ti o proprietari terrieri, e vivano nel paese a migliaia, e non come i peggio­ri». Se poi essi non vogliono essere, nelle città e nel paese, coloro che tac­ciono, ma vogliono far sentire la propria voce con le loro confessioni, neanche il frastuono del loro unisono potrà ingannare sulla povertà e ba­nalità della melodia che cantano. Come può disporci più favorevolmente il sentire che una professione di fede viene condivisa da molti, quando essa è tale che noi non lasceremmo finire di parlare chiunque di quei molti si ac­cingesse a raccontarcela, ma lo interromperemmo con uno sbadiglio? Se hai una fede simile, dovremmo avvertirlo, per l'amor di Dio non farne pa­rola. Forse in precedenza alcuni ingenui hanno cercato in David Strauss un pensatore: adesso hanno trovato il credente, e sono delusi. Se egli avesse taciuto sarebbe rimasto, almeno per costoro, il filosofo, mentre oggi non lo è per nessuno. Ma neppure desidera più il prestigio del pensatore; vuol essere soltanto un nuovo credente, ed è orgoglioso della sua «nuova fede». Professandola nei suoi scritti, egli si figura di scrivere il catechismo «delle idee moderne», e di costruire la larga «strada mondiale del futuro». In ef­fetti, avviliti e vergognosi i nostri filistei non lo sono più, anzi sono fidu­ciosi sino al cinismo. Ci fu un tempo, ora davvero molto lontano, in cui il filisteo veniva giusto tollerato come qualcosa che non parlava, e di cui non si parlava: ci fu un altro tempo in cui gli si carezzavano le rughe, lo si tro­vava buffo e si parlava di lui. Per questo a poco a poco egli divenne fatuo e prese a compiacersi di vero cuore delle sue rughe e delle sue qualità probe e bizzarre: ora parlava persino, un po' nello stile della musica in famiglia al­la Riehl. «Ma che mi tocca vedere? È parvenza o realtà? Come si fa lungo e largo il mio cane barbone!» Giacché ora egli già si voltola come un ippo­potamo sulla «strada mondiale del futuro», e quel ringhiare e quell'ab-baiare sono diventati orgogliosi accenti da fondatore di religioni. Gradisce forse, signor Maestro, fondare la religione del futuro? «Non mi sembra ancora giunto il momento» (p. 8). «Non mi sfiora neppure l'idea di voler distruggere qualche Chiesa.» — Ma perché no, signor Maestro? È solo questione di poterlo fare. Del resto, a esser sinceri, Lei stesso crede di po­terlo fare: guardi soltanto la Sua ultima pagina. Lì Ella sa che la Sua nuo­va strada «è l'unica strada mondiale del futuro, che è stata approntata in­teramente solo in alcuni tratti, e che soprattutto necessita di venir battuta più generalmente perché diventi anche comoda e piacevole». Dunque non neghi più: il fondatore di religioni è riconosciuto, la nuova strada comoda e piacevole verso il paradiso straussiano è costruita. Solo della carrozza in cui vuole condurci, Ella, uomo modesto, non è del tutto soddisfatto; alla fine Ella ci dice «che la carrozza, alla quale i miei cari lettori si sono dovu­ti affidare con me, non voglio affermare che risponda a tutti i requisiti»

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(p. 367): «ci si sente tutti pesti». Ah, Lei vuol udire qualcosa di amabile, elegante fondatore di religioni. Invece noi vogliamo dirLe qualcosa di sin­cero. Anche se il Suo lettore si prescriverà le 368 pagine del Suo catechismo religioso in modo da leggerne una pagina al giorno per un anno, dunque in dosi minime, noi crediamo comunque che finirà per sentirsi male: per la rabbia che non si veda un effetto. Piuttosto farne una bella bevuta, possi­bilmente tutto in una volta! come dice la ricetta per ogni libro di attualità. Così la bevanda non potrà nuocere, e il bevitore non si sentirà affatto male e arrabbiato, bensì allegro e di buon umore, come se nulla fosse accaduto, nessuna religione distrutta, nessuna strada mondiale costruita, nessuna confessione fatta — questo sì che è un effetto! Medico, medicina e malat­tia, tutto dimenticato! E l'allegra risata! La continua voglia di ridere! Lei, signor mio, è da invidiare, perché ha fondato la religione più piacevole, os­sia quella il cui fondatore viene continuamente onorato col ridere che si fa di lui.

4.

Il filisteo come fondatore della religione del futuro — ecco la nuova fede nella sua forma più suggestiva; il filisteo diventato fanatico — ecco il feno­meno inaudito che caratterizza in Germania la nostra epoca. Ma per il mo­mento manteniamo un po' di prudenza anche riguardo a questo fanatismo: a conservare questa prudenza ci invita lo stesso David Strauss con le se­guenti sagge espressioni, davanti alle quali in un primo momento ci vien fatto di pensare non a Strauss, bensì al fondatore del Cristianesimo (p. 80): «sappiamo che ci sono stati fanatici nobili, geniali, un fanatico può stimo­lare, elevare, può anche esercitare un'influenza storicamente assai duratu­ra; ma non vorremo sceglierlo come guida per la nostra vita. Ci condurrà su false strade, se non sottoporremo il suo influsso al controllo della ragio­ne». Noi sappiamo anche di più, che possono esistere anche fanatici niente affatto geniali, fanatici che non stimolano, non elevano eppure mirano a esercitare un'influenza storicamente assai duratura, come guide di vita, e a dominare il futuro: tanto più ci sentiamo indotti a sottoporre il loro fanati­smo al controllo della ragione. Lichtenberg dice addirittura: «esistono fa­natici senza capacità, e allora sono persone davvero pericolose». Intanto desideriamo, per questo controllo della ragione, solo una sincera risposta a tre domande. Prima: come immagina il suo cielo il nuovo credente? secon­da: sin dove arriva il coraggio ispiratogli dalla nuova fede? e terza: come scrive i suoi libri? Lo Strauss uomo di fede dovrà rispondere alla prima e alla seconda domanda, e lo Strauss scrittore alla terza.

Il cielo del nuovo credente dev'essere naturalmente un cielo in terra: poi­ché la «prospettiva» cristiana di una vita immortale in cielo è, per colui che si trova «anche con un solo piede» sulle posizioni straussiane, «irrimedia­bilmente perduta», insieme con tutte le altre consolazioni (p. 364). Signifi­ca pur qualcosa, il fatto che una religione dipinga il suo cielo in un modo o in un altro: e se dovesse esser vero che il Cristianesimo non conosce altra occupazione celeste se non di far musica e cantare, questa non sarebbe cer­to, per il filisteo straussiano, una prospettiva consolante. Ma nel libro di confessioni c'è però una pagina paradisiaca, la pagina 294: fatti svolgere prima di ogni altra cosa questa pergamena, felicissimo filisteo! Allora tut­to il cielo scenderà su di te. «Vogliamo ancora soltanto accennare a come agiamo noi, a come per lunghi anni abbiamo agito. Oltre la nostra profes­sione — perché apparteniamo alle professioni più diverse, non siamo affat-

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to soltanto studiosi o artisti, bensì funzionari e militari, esercenti e proprie­tari terrieri, e ancora, come ho già detto, non siamo pochi, ma molte mi­gliaia, e non i peggiori in tutti i paesi — oltre la nostra professione, dico, cerchiamo di mantenere la mente il più aperta possibile a tutti i superiori interessi dell'umanità: negli ultimi anni abbiamo preso viva parte alla gran­de guerra nazionale e all'istituzione dello Stato tedesco, e ci troviamo ele­vati nel più profondo dell'animo da questa svolta, tanto inattesa quanto magnifica, nei destini della nostra nazione così provata. Contribuiamo alla comprensione di queste cose con studi storici, che oggi sono resi accessibili anche a un lettore non colto mediante una serie di opere storiche scritte in modo avvincente e popolare; inoltre cerchiamo di ampliare le nostre cogni­zioni sulla natura, e neppure in questo campo mancano sussidi accessibili a tutti; e infine, negli scritti dei nostri grandi poeti, nelle esecuzioni delle opere dei nostri grandi musicisti troviamo uno stimolo per la mente e per l'animo, per la fantasia e per la gaiezza, che non lascia desiderare altro. Così viviamo, così camminiamo felici.»

Ecco il nostro uomo, esulta il filisteo che legge queste parole: perchè noi viviamo davvero così, così viviamo tutti i giorni. E che belle perifrasi usa per indicare le cose! Che cosa per esempio può intendere, a proposito degli studi storici con i quali contribuiamo alla comprensione della situazione politica, se non la lettura dei giornali, e, quando parla della viva partecipa­zione all'istituzione dello Stato tedesco, che altro può intendere se non le nostre visite quotidiane alle birrerie? e il citato «sussidio accessibile a tut­ti», grazie al quale ampliamo le nostre cognizioni sulla natura, non potreb­be essere una passeggiata al giardino zoologico? E per finire — teatri e concerti, dai quali portiamo a casa «stimoli per la fantasia e per la gaiez­za», che «non lasciano desiderare altro» — con quanta dignità e con quan­ta arguzia tocca questo delicato argomento! Ecco il nostro uomo; giacché il suo cielo è il nostro cielo!

Così esulta il filisteo: e se noi non siamo contenti quanto lui, dipende dal fatto che vorremmo saperne di più. Scaligero soleva dire: «Cosa ci importa se Montaigne beveva vino rosso o vino bianco?». Però quanto apprezze­remmo, in questo caso più importante, una esplicita dichiarazione! Quan­to ci piacerebbe anche sapere quante pipe fuma al giorno il filisteo in base alle norme della nuova fede, e se al momento del caffè gli è più simpatica la Spenersche Zeitung oppure la Nationalzeitungì Desiderio insoddisfatto della nostra brama di sapere! Solo in un punto veniamo informati più da vicino, e per fortuna questa informazione riguarda il cielo nel cielo, ossia quelle piccole, estetiche stanzette private consacrate ai grandi poeti e musi­cisti, nelle quali il filisteo si «edifica», nelle quali, secondo la sua ammis­sione, addirittura «vengon cancellate e lavate tutte le sue macchie» (p. 363); sicché dovremmo considerare quelle stanzette private come picco­li stabilimenti di bagni lustrali. «Ma questo dura soltanto fuggevoli istanti, accade e vale solo nel regno della fantasia; appena torniamo alla dura real­tà e all'angusta vita, da ogni parte ci assale l'antica miseria» — così sospira il nostro maestro. Profittiamo tuttavia dei fuggevoli istanti in cui possiamo sostare in quelle stanzette; il tempo basta appena per osservare da tutti i la­ti l'immagine ideale del filisteo, ossia il filisteo a cui sono state lavate tutte le macchie, e che adesso è in tutto e per tutto il tipo puro del filisteo. Sul serio, quel che qui si offre è istruttivo: che nessuno di coloro che son rima­sti vittime di questo libro di confessioni, si lasci cader di mano senza averli letti i due supplementi intitolati «I nostri grandi poeti» e «I nostri grandi musicisti». Qui si distende l'arcobaleno della nuova alleanza, e chi non se

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ne allieta, «per lui non c'è niente da fare», e, come Strauss dice in un'altra circostanza, ma potrebbe dire anche qui, «egli non è ancora maturo per il nostro punto di vista». Siamo appunto nel cielo del cielo. L'ispirato perie-geta si accinge a condurci in giro e si scusa se, a causa del troppo grande piacere per tutto quello splendore, forse parlerà un po' troppo. «Se per ca­so — ci dice — dovessi diventare più loquace di quanto l'occasione non ri­chieda, il lettore non me ne voglia; la piena del cuore straripa dalle labbra. Sin da ora sia certo di questo, che le cose che leggerà tra breve non sono vecchie annotazioni che io inserisco qui, ma sono state scritte per lo scopo presente e per questa sede» (p. 296). Per un momento questa dichiarazione ci lascia stupefatti. Che cosa può importarci che i bei capitoletti siano stati scritti di sana pianta! Già, se fosse solo questione di scrittura! In confiden­za, vorrei che fossero stati scritti un quarto di secolo fa, allora capirei per­ché i pensieri mi appaiono così sbiaditi e si portano addosso l'odore di mo­dernità ammuffite. Ma che qualcosa venga scritto nell'anno 1872, e nel­l'anno 1872 già sappia di muffa, mi appare sospetto. Supponiamo che qualcuno si addormenti su questi capitoli e sul loro odore — che cosa so­gnerebbe? Un amico me l'ha confidato, perché a lui è successo. Ha sogna­to un gabinetto di figure di cera: là c'erano i classici, graziosamente imitati con cera e perline. Muovevano braccia e occhi, mentre all'interno cigolava una vite. Vide poi qualcosa di sinistro, una figura informe ricoperta di na-strini e di carta ingiallita, e dalla sua bocca pendeva un foglietto con su scritto «Lessing»; l'amico vuole avvicinarsi ancora e scorge l'orrore degli orrori: è la Chimera omerica, davanti Strauss, dietro Gervinus e nel mezzo Chimera — in summa Lessing. Questa scoperta gli strappò un grido d'an­goscia, egli si destò e non lesse più. Perche mai, signor maestro, Ella ha scritto capitoletti così muffiti?

Qualcosa di nuovo però da essi lo impariamo, per esempio che grazie a Gervinus si sa come e perché Goethe non sia stato un talento drammatico; che Goethe nella seconda parte del Faust ha prodotto soltanto un'opera al-legorico-schematica; che il Wallenstein è un Macbeth che è allo stesso tem­po un Amleto; che il lettore straussiano pilucca dagli Anni di peregrinazio­ne le novelle, come i bambini maleducati piluccano mandorle e uva passa da un biscotto secco; che sul palcoscenico non si raggiunge un effetto pie­no senza l'elemento drastico ed emozionante, e che Schiller è venuto fuori da Kant come da uno stabilimento di bagni freddi. Tutto ciò è senz'altro nuovo e sorprendente, ma non ci piace, benché ci sorprenda; e tanto certo è che è nuovo, quanto certo è che non diventerà mai vecchio, dal momento che non è mai stato giovane, ma è uscito dal corpo della madre come il ghi­ribizzo di un vecchio zio. A quali pensieri possono mai giungere i beati di nuovo stile nel loro celeste regno dell'estetica! E perché non hanno almeno dimenticato qualcosa, quando fosse così antiestetico, così terrenamente ef­fimero e per di più portasse su di sé così vistosamente l'impronta della stu­pidità, come per esempio alcune teorie di Gervinus? Ma sembra quasi che la modesta grandezza di uno Strauss e l'immodesta minimezza di Gervinus sappiano andar d'accordo anche troppo bene: evviva allora a tutti quei beati, evviva anche a noi infelici, se questo incontestato giudice d'arte con­tinuerà a insegnare il suo entusiasmo imparaticcio e il suo galoppo da ca­vallo a noleggio, di cui ha parlato con la dovuta chiarezza l'onesto Grill-parzer, e se presto tutto il cielo risuonerà sotto gli zoccoli di quel galoppan­te entusiasmo! Allora almeno le cose procederanno con un po' più di viva­cità e di rumore di quanto non accada al giorno d'oggi, in cui l'entusiasmo strisciante nei suoi calzerotti di feltro del nostro celeste condottiero e la tie-

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pida eloquenza della sua bocca a lungo andare ci hanno stancato e nausea­to. Vorrei sapere come suonerebbe un alleluia sulla bocca di Strauss: credo che bisognerebbe tender l'orecchio molto attentamente, altrimenti si po­trebbe credere di udire delle scuse cortesi, o qualche galanterìa sussurrata. A questo proposito posso riferire un esempio istruttivo e ammonitore. Strauss si era molto offeso con uno dei suoi avversari, perché costui aveva parlato delle sue riverenze di fronte a Lessing — l'infelice aveva capito ma­le! Strauss invero afferma che dev'essere ottuso chi, alle sue semplici paro­le su Lessing al paragrafo 80, non intuisca che giungono calde dal cuore. Ora, io non dubito affatto di questo calore; anzi questo calore di Strauss per Lessing secondo me ha sempre avuto qualcosa di sospetto; lo stesso ca­lore sospetto per Lessing lo trovo, aumentato sino all'incandescenza, in Gervinus; anzi, in complesso, nessuno dei grandi scrittori tedeschi è così popolare presso i piccoli scrittori tedeschi come Lessing; e tuttavia costoro non vanno ringraziati per questo: infatti che cosa lodano propriamente in Lessing? In primo luogo la sua universalità: egli è critico e poeta, archeolo­go e filosofo, drammaturgo e teologo. In secondo luogo, «questa unità dello scrittore e dell'uomo, della mente e del cuore». Quest'ultima cosa di­stingue ogni grande scrittore, e talvolta persino uno piccolo; in fondo an­che una mente piccina si concilia spaventosamente bene con un cuore picci­no. E la prima cosa, quell'universalità, di per sé non è affatto un segno di­stintivo, e nel caso di Lessing era soprattutto una necessità. Piuttosto pro­prio questo è curioso in quegli entusiasti di Lessing, il fatto che non vedano la struggente necessità che lo portò attraverso la vita e sino a questa «uni­versalità», non sentano che un tale uomo si consumò troppo presto come una fiamma, non provino sdegno per il fatto che la più volgare grettezza e la meschinità dell'ambiente attorno a lui, e soprattutto dei suoi dotti con­temporanei, turbarono, tormentarono e soffocarono un essere così delica­tamente ardente, tanto che proprio quella decantata universalità dovrebbe suscitare una profonda compassione. «Compiangete — ci grida Goethe — quell'uomo straordinario, perché dovette vivere in un'epoca così miserabi­le, e dovette agire sempre polemicamente.» E voi, miei buoni filistei, come potreste pensare senza vergogna a questo Lessing, il quale perì proprio per la vostra ottusità, nella lotta con i vostri ridicoli gaglioffi e i vostri idoli, tra lo sconcio dei vostri teatri, dei vostri dotti, dei vostri teologi, senza po­ter osare nemmeno una volta quel volo eterno per il quale era venuto al mondo? E che cosa sentite al ricordo di Winckelmann il quale, per liberare il suo sguardo dalle vostre grottesche stupidità, andò a mendicare aiuto dai Gesuiti, e la cui ignominiosa conversione ha coperto di vergogna voi, non lui? Potreste persino fare il nome di Schiller senza arrossire? Guardate il suo ritratto! L'occhio scintillante che vola sprezzantemente al di sopra di voi, la guancia mortalmente arrossata, non vi dicono niente? Avevate un giocattolo così splendido, così divino, e si infranse per causa vostra. E se da questa vita tribolata, incalzata a morte, aveste tolto anche l'amicizia di Goethe, allora sarebbe dipeso da voi farla spegnere ancora più rapidamen­te! Non avete cooperato a nessuna opera vitale dei vostri grandi geni, e adesso volete farne un dogma, perché nessuno venga più aiutato? Ma per ciascuno di loro voi foste quella «opposizione della gente ottusa» che Goe­the nomina nel suo Epilogo alla Campana, per ciascuno voi foste gli stupi­di indolenti o i meschini invidiosi o i malvagi egoisti: nonostante voi essi crearono le loro opere, contro di voi essi volsero i loro attacchi, e grazie a voi si lasciarono cadere troppo presto, senza aver portato a termine il lavo­ro della loro giornata, spezzati o storditi dalle loro battaglie. E a voi oggi

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dovrebbe esser consentito, tamquam re bene gesta, di lodare uomini simili! e per di più con parole dalle quali è evidente a chi in fondo pensate con questa lode, e che perciò «urgono dal cuore così calde», che bisogna esser davvero ottusi per non accorgersi a chi realmente vadano le riverenze. Ve­ramente, noi abbiamo bisogno di un Lessing, gridava già Goethe, e guai a tutti i vanitosi maestri e a tutto il regno dei cieli estetico se la giovane tigre, con la sua forza inquieta che si fa ovunque visibile, nel gonfiore dei musco­li e nel lampo degli occhi, uscirà a caccia di preda!

5.

Quanto fu accorto il mio amico che, istruito da quel fantasma chimerico sul Lessing straussiano e su Strauss, non volle leggere oltre! Noi invece ab­biamo continuato a leggere e anche a chiedere al neocredente custode del­l'accesso al nuovo santuario musicale di farci entrare. II maestro apre, ci cammina accanto, spiega, fa nomi — alla fine ci fermiamo diffidenti e lo guardiamo: non ci sarà magari successo quel che è successo in sogno al po­vero amico? Ai musicisti di cui Strauss parla ci sembra che, sintanto che egli ne parla, vengano attribuiti nomi sbagliati, e crediamo che il discorso verta su altri, se non addirittura su fantasmi dispettosi. Quando per esem­pio pronuncia il nome di Haydn con quel calore che già ci sembrava so­spetto nella sua lode di Lessing, e si atteggia a epopte e sacerdote di un cul­to misterico haydniano, paragonando però Haydn a una «onesta zuppa» e Beethoven a un «confetto» (e questo riferendosi alla musica per quartetti) (p. 362), per noi una sola cosa è certa: il suo Beethoven-confetto non è il nostro Beethoven, e il suo Haydn-zuppa non è il nostro Haydn. Del resto il maestro trova le nostre orchestre troppo buone per l'esecuzione del suo Haydn, e sostiene che solo i più modesti dilettanti posson render giustizia a quella musica — una ulteriore prova che egli sta parlando di un altro arti­sta e di altre opere d'arte, magari della musica casalinga di Riehl.

Ma allora chi può essere quel Beethoven-confetto di Strauss? Avrebbe composto nove sinfonie, tra le quali la Pastorale sarebbe «la meno genia­le»; e alla terza, veniamo a sapere, gli verrebbe di continuo l'impulso di «romper la cavezza e cercare un'avventura», dal che potremmo quasi sup­porre una duplice creatura, mezza cavallo e mezza cavaliere. Riguardo a una certa Eroica, a quel centauro viene seriamente rimproverato di non es­ser riuscito ad esprimere «se si tratti di combattimenti in campo aperto o nelle profondità del cuore umano». Nella Pastorale ci sarebbe un «eccel­lente infuriar di tempesta», per la quale tuttavia sarebbe «fin troppo insi­gnificante» interrompere una danza campestre; ragion per cui, a causa del­l'«arbitrario legame con la banale occasione fornita», come suona la frase altrettanto elegante che corretta, questa sinfonia sarebbe «la meno genia­le» — sembra che al classico maestro sia venuta in mente persino una paro­la più dura, ma in questo caso egli preferisce esprimersi, come dice, «con la dovuta modestia». Ma no, in questo modo ha torto, il nostro maestro, su questo punto davvero è troppo modesto. Chi mai potrebbe illuminarci an­cora sul Beethoven-confetto se non Strauss stesso, l'unico che sembri co­noscerlo? Per giunta adesso arriva subito un giudizio gagliardo e pronun­ciato con la dovuta immodestia, e proprio sulla nona sinfonia: questa in­fatti sarebbe preferita soltanto da coloro per i quali «il barocco è genialità, e l'informe è sublimità» (p. 359). In verità, per un critico severo come Ger-vinus questa sinfonia era stata la benvenuta, perché confermava una sua

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dottrina: ma lui, Strauss, era ben lontano dal cercar meriti in «prodotti» così «problematici» del suo Beethoven. «È una vera disperazione, esclama il nostro maestro sospirando graziosamente, che con Beethoven ci si debba guastare, per colpa di queste limitazioni, il godimento e l'ammirazione che tanto volentieri gli tributiamo.» Il nostro maestro infatti è un prediletto delle Grazie; e queste gli hanno raccontato di aver camminato con Beetho­ven per un solo tratto, e che egli poi le aveva perse nuovamente di vista. «Questo è un difetto, egli esclama; ma dovremmo forse credere che esso appaia anche come un pregio?» «Chi fa rotolare l'idea musicale a fatica e col fiato grosso, sembrerà smuovere l'idea più pesante ed essere il più for­te» (pp. 355, 356). Questa è una confessione, e non soltanto su Beethoven, è una confessione del «classico prosatore» su se stesso: lui, il celebre auto­re, le Grazie non se lo lasciano sfuggire: dal gioco di scherzi leggeri — ossia gli scherzi straussiani — sino alle vette della serietà — ossia la serietà straussiana — esse restano fedelmente al suo fianco. Egli, il classico artista della penna, spinge il suo carico con facilità e senza sforzo, mentre Beetho­ven lo fa rotolare col fiato grosso. Egli sembra soltanto giocherellare col suo carico: questo è un pregio; dovremmo credere che possa apparire an­che come un difetto? — Ma al massimo solo per coloro che intendono il barocco come genialità e l'informe come sublimità — non è vero, giocoso beniamino delle Grazie?

Non invidiamo nessuno per le edificazioni che si procura nella quiete della sua cameretta o in un nuovo regno dei cieli appositamente allestito; ma di tutte le edificazioni possibili, quella di Strauss è tra le più prodigiose: egli infatti si edifica davanti a un fuocherello votivo, nel quale getta disin­voltamente le opere più sublimi della nazione tedesca, per incensare col lo­ro fumo i suoi idoli. Se per un attimo immaginassimo che per un caso qual­siasi l'Eroica, la Pastorale e la Nona fossero cadute in possesso del nostro sacerdote delle Grazie, e che fosse dipeso da lui conservar pura l'immagine del maestro eliminando «prodotti» tanto «problematici» — chi può dubi­tare che egli non le avrebbe bruciate? E così procedono effettivamente gli Strauss dei nostri giorni: di un artista vogliono sapere solo quel tanto che si adatti al loro servizio di camera, e conoscono soltanto l'antitesi fra incen­sare e bruciare. Potrebbero anche esser liberi di farlo: quel che stupisce è solo il fatto che la pubblica opinione estetica sia così spenta, così incerta e seducibile che accetta senza protestare una siffatta messa in mostra del più misero filisteismo, e che non abbia alcuna sensibilità per la comicità di una scena in cui un maestrucolo antiestetico siede a giudice di Beethoven. E per quanto concerne Mozart, dovrebbe davvero valere ciò che Aristotele dice di Platone: «Anche solo lodarlo, non è concesso alla gente trista». Ma qui si è perduto ogni pudore, nel pubblico come nel maestro: non soltanto gli si consente di farsi pubblicamente il segno della croce davanti ai più grandi e puri prodotti del genio germanico, come se avesse visto qualcosa di osce­no e di empio, ma ci si compiace anche delle sue franche confessioni e am­missioni di colpa, soprattutto dal momento che riconosce colpe commesse non da lui ma, a quanto pare, da quei grandi spiriti. Ah, purché il nostro maestro abbia davvero sempre ragione! pensano però talvolta i suoi ado­ranti lettori in un accesso di dubbio; ma egli se ne sta lì, sorridente e con­vinto, a perorare, dannare e benedire, facendo tanto di cappello a se stes­so, e in ogni momento sarebbe in grado di dire quel che la duchessa Dela-forte disse a Madame de Staèl: «Debbo ammetterlo, cara amica, non trovo nessuno che abbia sempre ragione, tranne me».

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6. Un cadavere è un pensiero bello per il verme, e il verme è un pensiero

terribile per ogni vivente. I vermi sognano il loro regno dei cieli in un corpo grasso, i professori di filosofia nel frugare tra le viscere di Schopenhauer, e finché ci saranno roditori, ci sarà anche un cielo dei roditori. Con ciò si è risposto alla nostra prima domanda: come immagina il suo cielo il nuovo credente? Il filisteo straussiano abita nelle opere dei nostri grandi poeti e musicisti come un verme che vive distruggendo, ammira divorando, adora digerendo.

Ora però la nostra seconda domanda è: sin dove arriva il coraggio che la nuova religione infonde ai suoi credenti? Anche questa avrebbe già trovato risposta, se coraggio e immodestia fossero una sola cosa: perché in tal caso a Strauss non mancherebbe nulla di un vero e proprio coraggio da Mam­malucco, e la debita modestia di cui Strauss parla in un passo citato poco fa a proposito di Beethoven, è una locuzione stilistica, non morale. Strauss partecipa abbastanza dell'impudenza alla quale si sente autorizzato ogni eroe vittorioso; tutti i fiori sono cresciuti solo per lui, il vincitore, ed egli loda il sole che illumina al momento giusto proprio le sue finestre. Egli non risparmia lodi neanche al vecchio venerabile universo, come se questo do­vesse ricever la sua consacrazione proprio da queste lodi, e da ora in poi potesse ruotare solo attorno alla monade centrale Strauss. L'universo, egli ci insegna, è sì una macchina dalle ferree ruote dentate, con pesanti martel­li e pistoni, ma «in essa si muovono non soltanto ruote spietate, vi circola anche olio lenitivo» (p. 365). L'universo non sarà propriamente grato al furore immaginifico del maestro per non aver saputo trovare in sua lode una similitudine migliore, anche posto che tolleri di venir lodato da Strauss. Come si chiama l'olio che gocciola giù dai martelli e dai pistoni di una macchina? E di quanto conforto sarebbe per un operaio il sapere che quest'olio si versa su di lui, mentre la macchina afferra le sue membra? Supponiamo che l'immagine sia infelice: ecco però che attira la nostra at­tenzione un altro procedimento, attraverso cui Strauss cerca di accertare che cosa egli provi realmente nei confronti dell'universo, mentre gli sfiora le labbra la domanda di Gretchen: «Mi ama — non mi ama — mi ama?». Ora, anche se Strauss non sfoglia fiori o non conta i bottoni della giacca, quel che fa non è meno ingenuo, anche se forse richiede un po' più di co­raggio. Strauss vuole appurare se il suo sentimento per il «tutto» sia para­lizzato e atrofizzato oppure no, e si punge: infatti sa che si può pungere un membro con l'ago senza provar dolore, se quello è atrofizzato o paralizza­to. In realtà egli non si punge nel vero senso della parola, ma sceglie un procedimento ancor più brutale, che descrive così: «Noi sfogliamo Scho­penhauer, che colpisce in faccia in ogni occasione questa nostra idea» (p. 143). Ora, poiché un'idea, sia pur la più bella idea straussiana dell'uni­verso, non ha una faccia, ma l'ha solo colui che ha l'idea, il procedimento consiste nelle seguenti singole azioni: Strauss colpisce Schopenhauer — ve­ramente addirittura lo sfoglia: al che Schopenhauer colpisce Strauss in fac­cia. Adesso Strauss «reagisce in modo religioso», ossia colpisce ancora Schopenhauer, inveisce, parla di assurdità, di bestemmie, di empietà, sen­tenzia persino che Schopenhauer fosse un po' tocco. Risultato della rissa: «Noi chiediamo per il nostro universo la stessa pietà che il devoto di vec­chio stile chiedeva per il suo dio» — oppure, più succintamente, «Mi ama!». Si rende la vita grama, il nostro prediletto dalle Grazie, ma è corag-

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gioso come un mammalucco e non teme né il diavolo né Schopenhauer. Quanto «olio lenitivo» consumerebbe, se questi procedimenti dovessero ri­petersi spesso!

D'altra parte noi comprendiamo quanto grato debba esser Strauss allo Schopenhauer che solletica, punge e colpisce; perciò non ci stupisce ulte­riormente la seguente dimostrazione di benevolenza nei suoi confronti: «Basta solo sfogliare gli scritti di Schopenhauer, benché del resto si fareb­be bene a studiarli, e non soltanto a sfogliarli, eccetera» (p. 141). A chi ri­volge queste parole il capo dei filistei? Lui, del quale si può dimostrare che non ha mai studiato Schopenhauer, lui, del quale Schopenhauer dovrebbe dire al contrario: «È un autore che non merita di essere sfogliato, e tanto meno studiato». Evidentemente Schopenhauer gli è andato di traverso: schiarendosi la gola, egli cerca di sbarazzarsene. Ma per colmare la misura degli ingenui panegirici, Strauss si permette ancora di raccomandare il vec­chio Kant: definisce la sua Storia e teoria generale del cielo dell'anno 1755 «uno scritto che mi è sempre apparso non meno significativo della sua suc­cessiva critica della ragione. Se in questa è ammirevole la profondità dello sguardo, in quella lo è la vastità della visione; se in questa troviamo un vec­chio, al quale preme soprattutto la sicurezza di un sia pur limitato patrimo­nio di conoscenza, in quella ci si fa incontro l'uomo con tutto il coraggio dello scopritore e del conquistatore spirituale». Questo giudizio di Strauss su Kant mi è sempre apparso non più modesto di quello su Schopenhauer: se a proposito di quest'ultimo troviamo il capo, al quale preme soprattutto la sicurezza nell'espressione di un sia pur limitato giudizio, là ci si fa incon­tro il prosatore famoso, che con tutto il coraggio dell'ignoranza riversa le sue essenze laudative persino su Kant. Proprio il fatto davvero incredibile che Strauss non abbia saputo ricavar nulla dalla critica kantiana della ra­gione per il suo testamento delle idee moderne, e che parli sempre e soltan­to per compiacere il più grossolano realismo, è uno dei vistosi tratti carat­teristici di questo nuovo vangelo, che del resto si definisce solo come il fati­coso risultato di un'ininterrotta ricerca sulla storia e sulla natura, e per ciò stesso nega l'elemento filosofico. Per il capo dei filistei e per i suoi «noi» la filosofia kantiana non esiste. Egli non ha la benché minima idea della fon­damentale antinomia dell'idealismo e del senso quanto mai relativo di ogni scienza e ragione. Ovvero: proprio la ragione dovrebbe dirgli quanto poco si possa appurare con la ragione sull'«in sé» delle cose. È vero peraltro che a persone di una certa età è impossibile capire Kant, soprattutto se in giovi­nezza si è capito o, come Strauss, ci si illude di aver capito «lo spirito gi­gantesco» di Hegel, e se insieme ci si è dovuti occupare di Schleiermacher, «il quale forse di acume ne aveva sin troppo», come dice Strauss. A Strauss suonerà strano se gli dirò che ancor oggi egli si trova, rispetto a Hegel e a Schleiermacher, in «assoluta dipendenza», e che la sua dottrina dell'universo, il suo modo di considerar le cose sub specie biennii e il suo curvar la schiena di fronte alla situazione tedesca, ma soprattutto il suo sfacciato ottimismo da filisteo si possono spiegare in base a determinate precoci esperienze e abitudini giovanili e a fenomeni morbosi. Chi in­fatti si è ammalato una volta di hegelismo e di schleiermacherismo, non guarirà mai del tutto.

Nel libro di confessioni c'è un passo in cui quell'incurabile ottimismo ci volteggia incontro con un piacere davvero degno di un giorno di festa (pp. 142, 143). «Se il mondo è una cosa, dice Strauss, che sarebbe meglio non esistesse, ma allora anche il pensiero del filosofo, che forma un pezzo di questo mondo, è un pensiero che sarebbe meglio non pensasse. Il filosofo

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pessimista non si accorge di dichiarare innanzitutto cattivo anche il suo pensiero che dichiara il mondo cattivo; ma se un pensiero che dichiara il mondo cattivo è un pensiero cattivo, allora invece il mondo è buono. È possibile che l'ottimismo soglia rendersi le cose troppo facili, mentre le di­mostrazioni che Schopenhauer fornisce sul ruolo enorme che il male e il dolore esercitano nel mondo sono assolutamente opportune; ma ogni vera filosofia è necessariamente ottimistica, altrimenti negherebbe a se stessa il diritto di esistere.» Se questa confutazione di Schopenhauer non è appunto quel che Strauss in un altro luogo chiama una «confutazione fatta tra l'al­to giubilo dei mondi superiori», allora non capisco affatto questa frase teatrale di cui egli si serve contro un avversario. Qui l'ottimismo si è delibe­ratamente reso le cose facili. Ma in questo stava appunto la bravura, nel fare come se la confutazione di Schopenhauer fosse un niente, e nello spin­ger da parte il fardello con movenze così leggere, che le tre Grazie a ogni istante si compiacevano del giocoso ottimista. Proprio questo dev'esser provato coi fatti, che con un pessimista non è affatto necessario fare sul se­rio: i più inconsistenti sofismi sono appunto quel che ci vuole per rivelare come di fronte a una filosofia così «malsana e sterile» come quella di Scho­penhauer non occorra sprecare ragioni, ma tutt'al più parole e scherzi. Da passi come questo si comprende la solenne dichiarazione di Schopenhauer secondo cui l'ottimismo, quando non è il parlare sconsiderato di individui sotto la cui piatta fronte non albergano che parole, gli appare un modo di pensare non soltanto assurdo, ma anche davvero scellerato, un amaro scherno sui dolori senza nome dell'umanità. Quando il filisteo ne fa un si­stema, come Strauss, fa diventare anche tale sistema un modo di pensare scellerato, ossia un'ottusa dottrina della buona pace dell'«io» o dei «noi», e suscita indignazione.

Chi potrebbe per esempio leggere senza indignazione la seguente spiega­zione psicologica, che evidentemente può esser cresciuta solo sul tronco di quella scellerata dottrina della buona pace: «Mai — ha dichiarato Beetho­ven — egli sarebbe stato in grado di comporre un testo come Figaro o Don Giovanni. La vita non gli aveva sorriso tanto, che egli potesse guardarla con sì grande serenità, e potesse prendere così alla leggera le debolezze del­l'uomo» (p. 360). Ma per portar l'esempio più forte di quella scellerata grossolanità di pensiero, basti qui accennare al fatto che Strauss non sa spiegarsi tutto il terribile e serio impulso di negazione e la tendenza alla santificazione ascetica dei primi secoli del cristianesimo, se non come deri­vati di una precedente sazietà di godimenti sessuali di ogni genere, e della nausea e del malessere che ne conseguirono:

I persiani lo chiamano bidmag bude», i Tedeschi dicono: mal di testa dopo una sbornia.

Così cita lo stesso Strauss, e non si vergogna. Ma noi ci voltiamo un mo­mento dall'altra parte, per farci passare la nausea.

7.

In effetti, il nostro capo dei filistei a parole è valoroso, anzi temerario, dovunque possa credere di deliziare con tale valore i suoi nobili «noi». Dunque l'ascesi e il sacrificio di sé degli antichi eremiti e santi vanno consi­derati come una forma di nausea, Gesù può essere descritto come un fana­tico che oggi sfuggirebbe a stento al manicomio, la storia della resurrezio­ne di Gesù può esser definita una «ciarlataneria storica» — accettiamo per

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una volta tutto questo, per studiarvi la singolare specie di coraggio di cui è capace Strauss, il nostro «filisteo classico».

Ascoltiamo innanzitutto la sua confessione: «È davvero un compito spiacevole e ingrato, dire al mondo proprio quel che esso non vuol sentire. Esso non ama risparmiare, come i grandi signori, riceve e spende, finché ha qualcosa da spendere: ma se qualcuno somma le partite e gli presenta il bilancio, lo considera un guastafeste. E proprio a questo mi hanno spinto da sempre il mio temperamento e il mio spirito». Definiamo pure corag­giosi un temperamento e uno spirito siffatti; rimane tuttavia dubbio se questo coraggio sia naturale e originario, o non piuttosto un coraggio im­paraticcio e artificiale; forse Strauss si è solo abituato per tempo a fare il guastafeste di professione, e ha finito per acquisire in tal modo un corag­gio di professione. Ad esso si apparenta ottimamente la naturale viltà che è propria del filisteo: essa si evidenzia soprattutto nella incoerenza di quelle proposizioni che costa coraggio enunciare; suona come tuono, ma l'atmo­sfera non ne risulta purificata. Egli non arriva a un'azione aggressiva, ma solo a parole aggressive, scegliendole però tra le più offensive, e consuma in espressioni aspre e rumorose tutta l'energia e la forza che gli si sono ac­cumulate dentro; quando il suono della parola si è spento, egli è più vile di colui che non ha mai parlato. Anzi, persino il simulacro delle azioni, l'eti­ca, mostra che egli è un eroe delle parole, e che evita ogni occasione in cui sia necessario passare dalle parole alla più terribile serietà. Annuncia con mirabile sincerità di non essere più cristiano, ma non vuole turbare conten­tezza di sorta; gli sembra contraddittorio fondare un'associazione per ro­vesciare un'associazione — cosa che invece non è affatto così contradditto­ria. Con un certo rozzo compiacimento si avvolge nel manto cespuglioso dei nostri genealogisti della scimmia, ed esalta Darwin come uno dei massi­mi benefattori dell'umanità — ma noi vediamo con vergogna che la sua etica si costruisce del tutto svincolata dalla domanda: «Come concepiamo il mondo?». Qui c'era un'occasione di mostrare naturale coraggio; perché qui egli avrebbe dovuto girar le spalle ai suoi «noi» e avrebbe potuto de­durre arditamente, dal bellum omnium contro omnes e dal diritto del più forte, precetti morali di vita, che però dovrebbero originarsi soltanto in uno spirito intimamente impavido, come nello spirito di Hobbes, e in un amore di verità di ben altra portata di quello che esplode sempre e soltanto in robuste invettive contro i preti, i miracoli e la «ciarlataneria storica» del­la resurrezione. Infatti con un'etica darwiniana vera e seriamente attuata si susciterebbe l'ostilità del filisteo, che invece è sempre favorevole a siffatte invettive.

«Ogni agire morale» — dice Strauss — «è un determinarsi dell'individuo secondo l'idea della specie.» Tradotto in parole chiare e comprensibili, ciò significa soltanto: vivi da uomo e non da scimmia o da foca. Quest'impe­rativo purtroppo è assolutamente inutilizzabile e fiacco, perché sotto il concetto di uomo si trova aggiogata la più grande molteplicità, per esem­pio il Patagone e il maestro Strauss, e perché nessuno oserà dire con lo stesso diritto: vìvi da Patagone!, e: vivi da maestro Strauss! Ma se qualcu­no addirittura esigesse da se stesso: vivi da genio, ossia appunto come espressione ideale della specie uomo, e costui fosse per caso o Patagone o maestro Strauss, quanto non avremmo allora da soffrire per l'invadenza di pazzi originali smaniosi di genialità, a proposito dei quali già Lichtenberg lamentava che in Germania spuntassero come funghi, e che con grida sel­vagge ci chiederebbero di ascoltare le professioni della loro più recente fe­de? Strauss non ha ancora nemmeno imparato che un concetto non potrà

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mai rendere gli uomini migliori e più morali, e che predicare una morale è facile, altrettanto quanto è difficile fondare una morale; il suo compito sa­rebbe dovuto essere piuttosto quello di spiegare e di dedurre seriamente, dalle sue premesse darwiniane, i fenomeni della bontà umana, della carità, dell'amore e dell'abnegazione che esistono effettivamente: invece ha prefe­rito, con un salto nell'imperativo, sottrarsi al compito della spiegazione. In questo salto gli accade addirittura di capriolare disinvoltamente anche so­pra la proposizione fondamentale di Darwin. «Non dimenticare», dice Strauss, «in nessun momento, che sei uomo e non un semplice essere natu­rale, in nessun momento che tutti gli altri sono anch'essi uomini, cioè, no­nostante ogni diversità individuale, la stessa cosa di te, con le stesse tue ne­cessità e aspirazioni — questa è l'essenza di ogni morale» (p. 238). Ma da dove risuona questo imperativo? Come può l'uomo averlo dentro di sé dal momento che, secondo Darwin, egli è appunto un essere assolutamente na­turale, e si è sviluppato sino al livello dell'uomo secondo leggi affatto di­verse, proprio perché in ogni momento ha dimenticato che gli altri esseri si­mili avevano gli stessi diritti, proprio perché tra loro si sentiva il più forte, e a poco a poco ha cagionato l'estinzione degli altri esemplari di natura più debole? Mentre Strauss è costretto tuttavia ad ammettere che mai sono esi­stiti due esseri totalmente uguali, e che dalla legge della diversità degli indi­vidui dipende l'intera evoluzione dell'uomo, non gli costa però nessuna fa­tica annunciare anche il contrario: «Comportati come se non ci fossero delle diversità individuali!». Dov'è andata a finire la dottrina morale di Strauss-Darwin, dove, soprattutto, il coraggio?

Subito riceviamo una nuova dimostrazione dei limiti di fronte ai quali quel coraggio si trasforma nel suo contrario. Infatti Strauss prosegue: «Non dimenticare in nessun momento che tu e tutto ciò che percepisci in te e attorno a te, non è un frammento sconnesso, un caos selvaggio di atomi e accidentalità, ma che tutto scaturisce secondo leggi eterne dall'unica sor­gente originaria di ogni vita, di ogni ragione e di ogni bene — questa è l'es­senza della religione». Ma da quell'«unica sorgente originaria» sgorga an­che ogni morte, ogni irrazionalità, ogni male, e per Strauss il suo nome è l'universo. Come potrebbe esso, dato il suo carattere così contraddittorio e negatore di se stesso, esser degno di una venerazione religiosa e poter esse­re chiamato col nome di «Dio», come invece fa Strauss a p. 365? «Il nostro Dio non ci prende sulle sue braccia dall'esterno (qui ci si aspetta, per con­verso, un prendere sulle braccia dall'interno davvero molto strano!), ma apre per noi sorgenti di conforto nel nostro intimo. Egli ci mostra che il ca­so sarebbe un dominatore davvero irrazionale del mondo, ma che la neces­sità, vale a dire la concatenazione delle cause nel mondo, è la ragione stes­sa» (un'astuzia che passa inosservata soltanto ai «noi», i quali son stati cresciuti in questa hegeliana adorazione del reale come razionale, cioè nella divinizzazione del successo). «Egli ci insegna a comprendere che desiderare un'eccezione all'adempimento di un'unica legge naturale, significherebbe desiderare la disintegrazione del tutto.» Al contrario, signor maestro: un naturalista onesto crede nell'assoluta conformità del mondo a leggi, senza peraltro minimamente pronunciarsi sul valore etico o intellettuale di queste leggi: in dichiarazioni del genere egli riconoscerebbe un comportamento al­tamente antropomorfico di una ragione che oltrepassa i limiti del consenti­to. Ma proprio al punto in cui l'onesto naturalista si rassegna, Strauss «reagisce», per farci belli delle sue penne, «in modo religioso», e agisce in modo disonesto verso le scienze naturali e la scienza; egli ammette senz'al­tro che ogni cosa accaduta abbia il massimo valore intellettuale, sia dun-

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que assolutamente razionale e ordinata finalisticamente, e poi che conten­ga una rivelazione dell'eterna bontà stessa. Ha bisogno quindi di un'intera cosmodicea, e adesso si trova in svantaggio rispetto a chi si interessa sol­tanto a una teodicea, e che per esempio può concepire l'intera esistenza dell'uomo come un atto punitivo o come uno stato di purificazione. A que­sto punto e in questo imbarazzo Strauss avanza addirittura un'ipotesi me­tafisica, la più arida e paralitica che ci sia, e in fondo soltanto un'involon­taria parodia di alcune parole di Lessing. «Quell'altra frase di Lessing (si dice a p. 219): se Dio gli ponesse davanti per scegliere, nella sua destra tut­ta la verità, e nella sua sinistra solo l'ansia sempre viva di essa, benché sot­to la condizione di errare continuamente, egli prenderebbe umilmente la si­nistra di Dio e ne implorerebbe per sé il contenuto — questa frase di Les­sing è considerata da sempre una delle più splendide che egli ci abbia la­sciato. Si è trovata in essa la geniale espressione del suo instancabile desi­derio di ricerca e di attività. A me questa frase ha fatto sempre un'impres­sione tutta particolare, per il fatto che dietro il suo significato soggettivo ne sentivo risuonare un altro oggettivo di immensa portata. Infatti non sta forse qui la migliore risposta al grossolano discorso di Schopenhauer sul Dio malconsigliato, che non avrebbe saputo far di meglio che venire a fini­re in questo mondo miserabile? E se il creatore stesso fosse stato anch'egli dell'opinione di Lessing, di preferire la lotta al tranquillo possesso?» Dun­que davvero un Dio che si riserva il continuo errare, ma con l'aspirazione alla verità, e forse persino prende umilmente la mano sinistra di Strauss, per dirgli: prendi tu tutta la verità. Se mai un Dio e un uomo furono mal-consigliati, questo furono il Dio straussiano, che nutre la passione di errare e di sbagliare, e l'uomo straussiano, che per questa passione deve pagare — qui si sente davvero risuonare «un significato di immensa portata», qui scorre l'olio lenitivo universale di Strauss, qui si intuisce la razionalità di tutto il divenire e di tutte le leggi naturali! Davvero? Allora non sarebbe il nostro mondo piuttosto, come disse una volta Lichtenberg, l'opera di un essere subordinato, che ancora non sapeva bene il fatto suo, dunque un esperimento? un abbozzo al quale si sta ancora lavorando? Anche Strauss dovrebbe allora ammettere a se stesso che il nostro mondo appunto non è il luogo della ragione, bensì dell'errore, e che ogni conformità a legge non comporta nulla di consolante, perché tutte le leggi sono date da un Dio che sbaglia, e che sbaglia per piacere. È davvero uno spettacolo esilarante ve­dere Strauss che come architetto metafisico costruisce sulle nubi. Ma per chi viene inscenato questo spettacolo? Per i nobili e comodi «noi», perché non si guasti il loro buonumore: forse si sono impauriti in mezzo al rigido e spietato ingranaggio della macchina del mondo, e chiedono tremanti aiu­to al loro condottiero. Per questo Strauss fa scorrere «olio lenitivo», per questo si porta dietro legato a una corda un Dio che sbaglia per passione, per questo interpreta il ruolo assolutamente stupefacente di architetto me­tafisico. Tutto questo fa, perché quelli hanno paura e lui stesso ha paura — e proprio qui è il limite del suo coraggio, persino di fronte ai suoi «noi». Infatti non osa dir loro sinceramente: vi ho liberati da un Dio che aiuta e che ha misericordia, P«universo» è soltanto un inflessibile ingranaggio, state attenti che le sue ruote non vi stritolino! Non lo osa: quindi ora tocca alla strega, alla metafisica. Ma al filisteo persino una metafisica straussia-na è più gradita di quella cristiana, e l'idea di un Dio che sbaglia è più sim­patica di quella di un Dio che fa miracoli. Infatti egli stesso, il filisteo, sba­glia, però non ha mai ancora fatto un miracolo.

Appunto per tale motivo al filisteo è inviso il genio: perché proprio que-

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sto gode a buon diritto della fama di compier miracoli; ragion per cui è as­sai istruttivo capire perché Strauss in un unico punto si erga a coraggioso difensore del genio e della natura aristocratica dello spirito in generale. Perché, dunque? Per paura, e per paura dei socialdemocratici. Egli si ri­chiama ai Bismarck, ai Moltke, «la cui grandezza può tanto poco negarsi, in quanto si manifesta nell'ambito dei fatti tangibili, esteriori. Qui anche i più caparbi e scontrosi di quei compagni dovranno accomodarsi a guarda­re un po' in alto, per vedere almeno sino al ginocchio quelle sublimi figu­re». Vuol forse, signor maestro, educare i socialdemocratici a prendere cal­ci? La buona volontà di darne c'è dappertutto, e Lei può farsi garante sin da ora che che coloro che saran presi a calci, in questa procedura potranno vedere quelle sublimi figure «sino al ginocchio».«Anche nel campo dell'ar­te e della scienza, prosegue Strauss, non mancheranno mai re che costrui­scono, e che daranno da fare a una massa di carrettieri.» Bene — ma se un giorno i carrettieri si metteranno a costruire? Accade, signor metafisico, Lei lo sa — allora per i re ci sarà da ridere.

In effetti, questo connubio di arroganza e di debolezza, di parole teme­rarie e di codardo conformismo, questo sottile soppesare come e con quali parole si possa impressionare il filisteo, e con quali carezzarlo, questa mancanza di carattere e di forza nonostante l'apparenza della forza e del carattere, questo difetto di saggezza nonostante tutta l'affettazione della superiorità e della maturità d'esperienza — è tutto questo che odio in que­sto libro. Se penso che dei giovani potrebbero sopportare, anzi apprezzare un libro di questa fatta, dovrei con tristezza rinunciare alle mie speranze sul loro avvenire. Questa professione di un filisteismo misero, senza spe­ranza e davvero spregevole, dovrebbe esser l'espressione delle molte mi­gliaia di «noi» di cui parla Strauss, e questi «noi» dovrebbero a loro volta essere i padri della prossima generazione! Sono premesse tremende per chiunque volesse aiutare la generazione futura sulla strada di ciò che il pre­sente non ha — una vera cultura tedesca. A costui il terreno appare coper­to di cenere, e oscurate tutte le stelle; ogni albero morto, ogni campo deva­stato gli grida: sterile! perduto! Qui non ci sarà un'altra primavera! Egli dovrà sentirsi come si sentì il giovane Goethe quando scrutò nel triste cre­puscolo ateo del Système de la nature: il libro gli apparve così grigio, così cimmerio, così sepolcrale, che ebbe pena a sopportarne la presenza, e rab­brividiva davanti ad esso come davanti a uno spettro.

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Siamo sufficientemente edotti sul cielo e sul coraggio del nuovo credente per porci ora anche l'ultima domanda: come scrive i suoi libri? e di quale specie sono i testi della sua religione?

Per chi sappia rispondere a questa domanda scrupolosamente e senza pregiudizi, il fatto che il manuale oracolare di Strauss sia stato richiesto in sei edizioni diventa un problema quanto mai preoccupante, soprattutto quando apprende addirittura che a questo manuale oracolare è stato dato il benvenuto anche negli ambienti colti e persino nelle università. Gli stu­denti lo avrebbero salutato come un canone per spiriti forti, e i professori non vi si sarebbero opposti: gli uni e gli altri hanno davvero voluto trovare in esso un libro di religione per ì dotti. Strauss stesso fa capire che il libro di confessioni vuol fornire informazioni non per gli studiosi e le persone colte soltanto; ma atteniamoci al fatto che esso si rivolge innanzitutto a questi, e in particolare ai dotti, per porre loro davanti il modello di una vi-

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ta quale essi stessi vivono. Questa infatti è l'abilità: il maestro fa mostra di voler tratteggiare l'ideale di una nuova concezione del mondo, ed ecco che da ogni bocca gli torna indietro la sua lode, perché ciascuno può pensare di esser proprio lui a concepire il mondo e la vita in quel modo, e che proprio in lui Strauss abbia potuto veder già realizzato quanto si aspettava solo dal futuro. Di qui si spiega in parte anche lo straordinario successo di quel li­bro: così viviamo, com'è scritto nel libro, così procediamo felici! gli grida il dotto di rimando, e si rallegra che altri se ne rallegrino. Gli è abbastanza indifferente pensare per caso diversamente dal maestro su singole cose, per esempio su Darwin o sulla pena di morte, perché sente con tanta certezza di respirare nell'insieme la sua propria aria, e di udire l'eco della propria voce e delle proprie necessità. Per quanto dolorosamente colpito da questa unanimità, ogni vero amico della cultura tedesca deve tuttavia spiegarsi un fatto del genere con inesorabile severità, e non rifuggire neanche dal rende­re pubblica la sua spiegazione.

Noi tutti conosciamo il modo di occuparsi delle scienze caratteristico della nostra epoca, lo conosciamo perché lo viviamo: e proprio per questo quasi nessuno si domanda che cosa mai può venire alla cultura da una sif­fatta pratica scientifica, anche premesso che esista dappertutto la migliore capacità e il più sincero desiderio di operare per la cultura. Nella natura dell'uomo di scienza (prescindendo affatto dalla sua figura attuale) è insito un vero paradosso: egli si comporta come il più orgoglioso scioperato della felicità: come se l'esistenza non fosse una faccenda disperata e inquietante, bensì un possesso solido, garantito per l'eternità. Gli sembra concesso dila­pidare una vita su questioni, la cui soluzione in fondo dovrebbe essere im­portante solo per chi si fosse assicurata un'eternità. Tutt'attorno a lui, l'e­rede di poche ore, lo guardano fissamente gli abissi più terribili, ogni passo dovrebbe ricordargli: a che scopo? verso dove? da dove? Ma la sua anima arde davanti al compito di contare gli stami di un fiore o di spaccare le pie­tre di un sentiero, e in questo lavoro egli mette l'intero, pieno peso della sua partecipazione, del suo piacere, della sua forza e del suo desiderio. Questo paradosso, cioè l'uomo di scienza, recentemente in Germania è sta­to assalito dalla furia, come se la scienza fosse una fabbrica, e ogni minuto perso comportasse un'ammenda. Adesso egli lavora così duramente come il quarto stato, la classe degli schiavi, lo studio per lui non è più un'occu­pazione bensì una necessità, non guarda né a destra né a manca, e cammi­na in mezzo a tutte le faccende, e così pure attraverso tutte le cose gravi che la vita porta in grembo, con quella mezza attenzione oppure con quel ripu­gnante bisogno di riposo che sono propri dell'operaio stremato.

Così egli si pone anche nei confronti della cultura. Si comporta come se per lui la vita fosse soltanto otium, ma sine dignitate: e neppure in sogno depone il suo giogo, come uno schiavo che persino in libertà sogna la sua miseria, la sua rabbia e le percosse ricevute. I nostri dotti si distinguono appena, e comunque non a loro vantaggio, dagli agricoltori che vogliono accrescere una piccola proprietà ereditata, e si affaticano solerti dal matti­no sino a tarda notte a lavorare il campo, a spinger l'aratro e ad incitare i buoi. Ora Pascal ritiene in genere che gli uomini si occupino con tanta dili­genza dei loro affari e delle loro scienze, solo per sfuggire in tal modo alle questioni più importanti che ogni solitudine, ogni vero ozio porrebbe loro con urgenza, le questioni appunto del perché, del da dove, del verso dove. Ai nostri dotti non viene neanche in mente, cosa strana, la questione più immediata: a che cosa serva il loro lavoro, la loro fretta, la loro dolorosa frenesia. Non forse a guadagnarsi il pane o a procacciarsi cariche onorifi-

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che? No, no davvero. Eppure vi affannate come chi vive nell'indigenza e ha bisogno di pane, anzi strappate via le vivande dal tavolo con tanta avi­dità, senza scegliere, come se steste per morire di fame. Ma se voi, come uomini di scienza, vi comportate con la scienza al modo in cui gli operai si comportano con i compiti che l'indigenza e le necessità della vita impongo­no loro, che cosa accadrà a una cultura che proprio di fronte a una scienti­ficità così agitata, senza fiato, che corre, anzi si dibatte qua e là, è condan­nata ad attendere l'ora della sua nascita e della sua liberazione? Già, per essa nessuno ha tempo — eppure, a che serve innanzitutto la scienza, se non ha tempo per la cultura? Dunque rispondeteci almeno su questo pun­to: da dove, verso dove, a che scopo tutta la scienza, se non deve condurre alla cultura? Allora forse condurrà alla barbarie! E in questa direzione già vedremmo spaventosamente addentrata la classe dei dotti, se potessimo pensare che libri tanto superficiali come quello di Strauss soddisfino il suo attuale livello di cultura. Giacché proprio in esso troviamo quel rivoltante bisogno di riposo e quel compromesso occasionale, che ascolta solo a me­tà, con la filosofia e la cultura, e in generale con ogni serietà dell'esistenza. Ci vengono in mente le riunioni di società delle classi colte, che testimonia­no anch'esse, quando il discorso specialistico si spegne, soltanto stanchez­za, voglia di distrarsi a ogni costo, memoria frammentaria, sconnessa espe­rienza di vita. Quando sentiamo Strauss parlare dei problemi della vita, siano essi problemi di matrimonio, o guerra, o pena di morte, egli ci spa­venta per la mancanza di qualsiasi esperienza reale, di qualsiasi indagine nell'intimo dell'uomo: ogni suo giudizio è così librescamente, anzi giorna­listicamente uniforme; le reminiscenze letterarie occupano il posto di idee e conoscenze reali, un'affettata moderazione e saccenteria nell'espressione deve risarcirci della mancanza di saggezza e di maturità del pensiero. Quanto esattamente tutto ciò corrisponde allo spirito delle decantate sedi supreme della scienza tedesca nelle grandi città! Con quanta simpatia que­sto spirito deve parlare a quello spirito! Perché proprio in quei luoghi la cultura è venuta maggiormente a mancare, proprio lì vien reso impossibile persino il germogliare di una nuova cultura; tanto è il rumore con cui ci si equipaggia per le scienze che vengono lì coltivate, e tanto massicciamente si prendono d'assalto le discipline più popolari a spese di quelle più impor­tanti. Con quale lanterna si dovrebbero cercare qui uomini che fossero ca­paci di scendere nel profondo di se stessi, e avessero tanto coraggio e tanta forza da evocare dèmoni che sono fuggiti dalla nostra epoca? A osservare dall'esterno, in quei luoghi certo si trova tutto il fasto della cultura; con il loro sfoggio imponente essi somigliano agli arsenali, con i loro enormi can­noni e i loro strumenti di guerra: vediamo preparativi e solerte attività, co­me se si dovesse dar l'assalto al cielo ed estrarre la verità dal pozzo più pro­fondo, eppure a volte in guerra le macchine più grandi sono quelle che si usano peggio. E così la vera coltura nella sua battaglia lascia da parte quei luoghi, e sente col migliore istinto che lì per essa non c'è niente da sperare e c'è molto da temere. Infatti l'unica forma di cultura di cui ami occuparsi l'occhio acceso e l'ottuso organo del pensiero della classe operaia dei dotti, è appunto quella cultura filistea di cui Strauss ha annunciato il vangelo.

Se consideriamo per un istante i principali motivi di quella simpatia che collega la classe operaia dei dotti e la cultura filistea, troviamo anche la strada che ci conduce allo scrittore Strauss, riconosciuto come classico, e con ciò al nostro ultimo tema principale.

Quella cultura, innanzitutto, ha impressa sul volto la soddisfazione, e vuole che nulla si cambi nello stato attuale della culturalità tedesca; soprat-

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tutto è seriamente convinta dell'unicità di tutte le istituzioni educative tede­sche, in particolare dei ginnasi e delle università, non cessa di raccoman­darli all'estero e non dubita un istante che grazie a questi siamo diventati il popolo più colto e competente del mondo. La cultura filistea crede in sé, e perciò crede anche nei metodi e nei mezzi che ha a disposizione. In secondo luogo, però, essa affida ai dotti il giudizio supremo su tutte le questioni di cultura e di gusto, e considera se stessa come un sempre crescente compen­dio di dotte opinioni su arte, letteratura e filosofia; la sua cura è costringe­re il dotto ad enunciare le sue opinioni, che poi essa somministra mescola­te, diluite o sistematizzate al popolo tedesco come bevanda salutare. Quel che cresce al di fuori di questi circoli viene ascoltato con scettica superficia­lità oppure non ascoltato, notato o non notato, sinché finalmente una vo­ce, non importa di chi, purché costui porti rigorosamente su di sé i caratte­ri specifici del dotto, non si farà sentire da quei templi in cui dovrebbe al­bergare la tradizionale infallibilità del gusto: e da quel momento l'opinione pubblica avrà un'opinione in più, e ripeterà con eco centuplicata la voce di quel singolo. In realtà però l'infallibilità del gusto che albergherebbe in questi luoghi e in quei singoli è assai dubbia, anzi tanto dubbia che si può essere convinti del cattivo gusto, dell'assenza di pensiero e della grossolani­tà estetica di un dotto, sino a che costui non abbia dimostrato il contrario. E soltanto pochi potranno dimostrare il contrario. Quanti infatti, dopo aver preso parte alla corsa affannata e precipitosa della scienza attuale, po­tranno in genere conservare lo sguardo coraggioso e calmo del combattente della cultura, se mai lo hanno posseduto, quello sguardo che condanna questa cosa stessa come elemento apportatore di barbarie? Perciò in futuro questi pochi dovranno vivere in una contraddizione: infatti che cosa po­trebbero fare contro una fede uniforme di innumerevoli, che tutti quanti hanno fatto dell'opinione pubblica la loro patrona, e si sostengono e si ap­poggiano a vicenda in questa fede? A che serve che uno solo si dichiari contro Strauss, dal momento che i molti si sono pronunciati a suo favore, e che la massa da loro guidata ha imparato a chiedere sei volte di seguito la soporifera pozione filistea del maestro?

Se con questo abbiamo ammesso senz'altro che il libro di confessioni straussiano ha vinto presso l'opinione pubblica, e come vincitore è stato accolto, il suo autore potrebbe farci notare che i vari giudizi sul suo libro comparsi nei giornali non sono affatto unanimi e tanto meno incondizio­natamente favorevoli, tanto che egli in una postfazione ha dovuto difen­dersi dal tono a volte eccessivamente ostile e dal piglio sin troppo sfacciato e provocatorio di alcuni di quei campioni giornalistici. Come può esistere un'opinione pubblica sul mio libro, egli ci griderà, se ogni giornalista può tuttavia considerarmi come un bandito e maltrattarmi a suo piacimento? Questa contraddizione può facilmente essere eliminata, non appena nel li­bro straussiano si distinguano due aspetti, uno teologico e uno letterario: soltanto con il secondo quel libro tocca la cultura tedesca. Per la sua colo­ritura teologica esso sta al di fuori della nostra cultura tedesca e desta le antipatie dei vari partiti teologici, anzi in fondo di ogni Tedesco, in quanto costui è un settario teologico per natura, e inventa la sua stramba fede pri­vata solo per poter dissentire da ogni altra fede. Ma mettetevi un po' a sen­tire tutti questi settari teologici parlare di Strauss, non appena si debba parlare dello Strauss scrittore; immediatamente si spegne il chiasso delle dissonanze teologiche, e in perfetto unisono risuona, come dalla bocca di un'unica comunità: egli resta comunque uno scrittore classico! Ognuno, anche l'ortodosso più accanito, dice in faccia allo scrittore le cose più lu-

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singhiere, fosse pure una sola parola sulla sua dialettica quasi lessinghiana, oppure sulla finezza, la bellezza e la validità delle sue concezioni estetiche. Come libro, a quanto pare, il prodotto straussiano corrisponde addirittura all'ideale di un libro. Gli avversari teologici, benché abbiano parlato più forte di tutti, in questo caso sono solo un piccolo frammento del grande pubblico: e persino nei loro confronti Strauss avrà ragione, quando dice: «Di fronte alle migliaia di miei lettori, quel paio di dozzine dei miei pubbli­ci censori sono una sparuta minoranza, e difficilmente potranno dimostra­re di essere assolutamente i fedeli portavoce dei primi. Se, in una faccenda come questa, hanno preso la parola quasi sempre quelli che non erano d'accordo, e quelli che eran d'accordo si sono contentati di approvare in silenzio, questo è nella natura delle circostanze, che noi tutti ben conoscia­mo». Dunque, a prescindere dallo scandalo per le sue dichiarazioni teolo­giche che Strauss può aver suscitato qua e là, sullo Strauss scrittore regna unanimità, anche fra gli avversari fanatici per i quali la sua voce suona co­me la voce della bestia dall'abisso. Pertanto il trattamento che Strauss ha subito da parte dei salariati letterari dei partiti teologici, nulla prova con­tro il nostro assunto che in questo libro la cultura filistea ha celebrato un trionfo.

Bisogna ammettere che il filisteo colto è in media un po' meno franco di Strauss, o per lo meno che nelle pubbliche manifestazioni è più riservato: tanto più edificante però gli appare questa franchezza in un altro: a casa e tra i suoi simili applaude anzi rumorosamente, solo che non ama dichiara­re per iscritto quanto tutto ciò che Strauss dice gli piaccia. Infatti un po' vile il nostro filisteo colto lo è, già lo sappiamo, anche nelle simpatie più forti: e proprio il fatto che Strauss sia un po' meno vile fa di lui un capo, pur se d'altra parte anche per il suo coraggio esiste un limite molto preciso. Se egli superasse questo limite, cosa che per esempio Schopenhauer fa qua­si ad ogni frase, non marcerebbe più come un capo davanti ai filistei, e si correrebbe via da lui con la stessa prontezza con cui adesso si corre dietro a lui. Chi volesse definire questa moderatezza, se non saggia, almeno accor­ta, e questa mediocritas del coraggio una virtù aristotelica, sarebbe certa­mente in errore: perché quel coraggio non è il punto mediano fra due difet­ti, bensì tra una virtù e un difetto — e in questo punto mediano, tra virtù e difetto, stanno tutte le qualità del filisteo.

9.

«Ma egli resta pur sempre uno scrittore classico!» Ora vedremo. Forse adesso sarebbe consentito parlare subito dello Strauss stilista e artista del linguaggio, ma prima vorremmo riflettere se egli come scrittore sia capace di costruire la sua casa, e se davvero si intenda di architettura del libro. Questo deciderà se egli è un costruttore di libri accurato, avveduto ed esperto; e se dovessimo rispondere di no, gli resterebbe sempre, come ulti­mo refugium della sua fama, la pretesa di essere un «prosatore classico». Quest'ultima capacità senza la prima non basterebbe certo ad innalzarlo al rango degli scrittori classici, ma tutt'al più a quello degli improvvisatori classici o dei virtuosi dello stile, i quali, nonostante tutta l'abilità dell'e­spressione, mostrano nel complesso e nell'impostazione vera e propria del­l'edificio la mano maldestra e l'occhio timido del pasticcione. Chiediamo dunque se Strauss abbia la forza artistica di porre un tutto, totum ponere.

Di solito già dal primo abbozzo scritto si può capire se l'autore ha con­cepito una visione d'insieme e se ha trovato l'andamento generale e le giù-

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ste misure in conformità con questa visione. Una volta assolto questo im­portantissimo compito, e innalzato l'edificio stesso in felici proporzioni, resta però sempre parecchio da fare: quanti piccoli difetti da correggere, quante lacune da colmare, qua e là ci si è dovuti contentare di un tramezzo provvisorio o di un controsoffitto, ci sono polvere e calcinacci dappertut­to, e dovunque tu guardi, vedi i segni del travaglio e del lavoro; nell'insie­me la casa è ancora inabitabile e sgradevole; le pareti sono nude, e dalle fi­nestre aperte sibila il vento. Ma che Strauss abbia fatto il lavoro, grande e faticoso, che ancora resta da fare, non ci interessa affatto, sinché vogliamo sapere se egli ha impostato l'edificio stesso in buone proporzioni e come un tutto. Il contrario di questo è, come sappiamo, mettere assieme un libro da vari frammenti, come sono soliti fare i dotti. Essi confidano nel fatto che questi frammenti abbiano una connessione fra loro, confondendo qui tra la connessione logica e quella artistica. Logico, comunque, il rapporto fra le quattro domande fondamentali, che definiscono le parti del libro straus-siano, non lo è: «Siamo ancora cristiani? Abbiamo ancora una religione? Come concepiamo il mondo? Come ordiniamo la nostra vita?», e non lo è in quanto la terza domanda non ha niente a che fare con la seconda, né la quarta con la terza, e tutte e tre non hanno niente a che fare con la prima. Per esempio, il naturalista che pone la terza questione mostra il suo imma­colato senso della verità proprio nel passare senza far parola oltre la secon­da; e che i temi della quarta parte: matrimonio, repubblica, pena di morte, vengano soltanto confusi e oscurati col mescolarvi le teorie darwiniane del­la terza parte, sembra capirlo anche Strauss, dal momento che in effetti su quelle teorie non torna più. Ma la domanda: siamo ancora cristiani? altera subito la libertà dell'esame filosofico, e lo tinge sgradevolmente di teolo­gia; oltretutto a questo proposito egli ha completamente dimenticato che la maggior parte dell'umanità è tuttora buddista, non cristiana. Come si può, con l'espressione «antica fede», pensare subito e senz'altro al cristianesi­mo? Se qui si vede che Strauss non ha mai cessato di essere un teologo cri­stiano, e che pertanto non ha mai imparato a diventare un filosofo, egli poi ci stupisce di nuovo per il fatto che non riesce a distinguere tra fede e sape­re, e nomina continuamente d'un solo fiato la sua cosiddetta «nuova fede» e la scienza moderna. Oppure «fede moderna» vorrebbe essere soltanto un'ironica concessione all'uso linguistico? Sembra quasi che sia così, dal momento che egli qua e là lascia che nuova fede e scienza moderna si rap­presentino tranquillamente a vicenda, per esempio a p. 11, dove domanda da quale parte, da quella della vecchia fede oppure da quella della scienza moderna, «siano maggiori le oscurità e le insufficienze inevitabili nelle cose umane». Inoltre egli vuole, secondo lo schema dell'introduzione, fornire le prove sulle quali poggia la moderna concezione del mondo: ma tutte que­ste prove le prende a prestito dalla scienza, e anche qui si comporta assolu­tamente come un sciente, non come un credente.

Dunque in fondo la nuova religione non è una nuova fede, ma coincide con la scienza, e pertanto non è affatto una religione. Ora, se Strauss affer­ma tuttavia di avere una religione, i motivi di questo fatto esulano dalla scienza moderna. Soltanto una minima parte del libro straussiano, cioè po­che pagine sparse, riguarda ciò che Strauss a ragione potrebbe definire una fede: ossia quel sentimento del tutto, per il quale Strauss chiede la stessa pietà che il devoto di vecchio stile chiede per il suo dio. In queste pagine per lo meno le cose procedono in modo assolutamente non scientifico; ma se soltanto procedessero con un po' più di vigore, di naturalezza, di durez­za, e soprattutto con un po' più di fede! Quel che più colpisce, sono le prò-

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cedure artificiose mediante le quali il nostro autore perviene al sentimento di avere ancora in genere una fede e una religione: grazie a punzecchiature e a percosse, come abbiamo avuto modo di vedere. Ci passa davanti misera e gracile, questa fede stimolata: rabbrividiamo a vederla.

Se Strauss nello schema dell'introduzione ha promesso di istituire un confronto per stabilire se questa nuova fede renda anche gli stessi servigi che la fede di vecchio stile rendeva ai vecchi credenti, alla fine si accorge egli stesso di aver promesso troppo. Infatti quest'ultima domanda sugli stessi servigi, su quale sia meglio e quale sia peggio, viene da lui liquidata in via del tutto secondaria e con fretta timorosa in un paio di pagine (p. 366 ss.), e una volta addirittura con questo espediente: «Per chi qui non sa aiutarsi da solo, non c'è niente da fare, egli non è ancora maturo per il nostro punto di vista» (p. 366). Con quale impetuosa convinzione credeva invece l'antico stoico al tutto e alla razionalità del tutto! E in quale luce, osservata così, appare l'originalità che Strauss pretenderebbe per la propria fede? Ma, come abbiamo detto, nuova o vecchia, originale o imi­tata, ciò sarebbe indifferente, se soltanto essa avesse più vigore, fosse più sana e naturale. Strauss stesso pianta in asso ogni volta che può questa fe­de d'emergenza che si è distillato, per risarcire noi e se stesso con il suo sa­pere, e per offrire ai suoi «noi» con coscienza più tranquilla le sue recenti conoscenze di scienze naturali. Tanto è timido quando parla di fede, tanto gli si arrotonda e gli si riempie la bocca quando nomina il più alto benefat­tore della nuovissima umanità, Darwin: allora egli esige fede non solo per il nuovo messia, ma anche per sé, il nuovo apostolo, per esempio quando, nel mezzo del più intricato tema di scienza naturale, annuncia con orgoglio davvero antico: «mi si dirà che qui parlo di cose che non capisco. Bene: ma verranno altri che le capiranno, e che capiranno anche me». Per cui sem­bra quasi che i famosi «noi» siano tenuti non solo a credere nel tutto, ma anche a credere nello Strauss naturalista; in questo caso desidereremmo soltanto che, per far nascere in se stessi il sentimento di questa nuova fede, non ci fosse bisogno di procedure così penose e crudeli come riguardo alla prima. Oppure forse basta addirittura che qui venga pizzicottato e punzec­chiato l'oggetto della fede e non il credente, per portare i credenti a quella «reazione religiosa» che è il contrassegno della «nuova fede»? Quale meri­to acquisteremmo allora riguardo alla religiosità di quei «noi»!

Altrimenti infatti c'è quasi da temere che gli uomini moderni andranno avanti senza preoccuparsi particolarmente di quel supplemento religioso della fede che è l'apostolo: così come sinora sono andati avanti senza il principio della razionalità del tutto. Tutta la moderna scienza della natura e della storia non ha niente a che fare con la fede di Strauss nel tutto; e che il filisteo moderno non abbia bisogno di questa fede, lo dimostra proprio il quadro della sua vita che Strauss tratteggia nella parte «come ordiniamo la nostra vita?». Dunque egli ha ragione di dubitare che la «carrozza» alla quale i suoi «pregiati lettori si son dovuti affidare, risponda a tutte le esi­genze». Essa non vi risponde di certo: poiché l'uomo moderno avanza più velocemente se non si siede in questa carrozza di Strauss — o meglio, è avanzato molto più velocemente, assai prima che esistesse questa carrozza di Strauss. Se fosse vero che la famosa «non trascurabile minoranza», di cui e nel cui nome Strauss parla, «tiene in gran conto la coerenza», essa dovrebbe essere tanto poco soddisfatta dello Strauss fabbricante di carroz­ze, quanto noi lo siamo dello Strauss logico.

Ma lasciamo pure da parte il logico: forse tutto il libro, dal punto di vi­sta artistico, ha una forma ben ideata e corrisponde alle leggi della bellez-

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za, anche se non a uno schema di pensiero ben elaborato. E solo a questo punto arriviamo alla questione se Strauss sia un buono scrittore, dopo aver constatato che egli non si è comportato come un dotto scientifico, che sap­pia ordinare e sistematizzare rigorosamente.

Forse egli si è posto come compito solo questo, non tanto di allontanare dalla «vecchia fede», quanto di attrarre, dipingendo un quadro grazioso e ricco di colori di una vita ambientata nella nuova concezione del mondo. Proprio se pensava ai dotti e alle persone colte come ai suoi lettori più vici­ni, egli doveva pur sapere per esperienza che con l'artiglieria pesante delle dimostrazioni scientifiche questi li si può abbattere, mai però costringere alla resa, ma che tanto più rapidamente proprio costoro soccomberanno di fronte ad arti di seduzione vestite succintamente. Ma «vestito succintamen­te», e «con intenzione», Strauss definisce il suo libro stesso; «vestito suc­cintamente» lo sentono e lo descrivono i suoi pubblici panegiristi, uno dei quali per esempio, uno preso a caso, parafrasa queste sensazioni nel modo che segue: «Il discorso procede con elegante equilibrio, avvalendosi quasi per gioco dell'arte dell'argomentazione, là dove si volge criticamente con­tro l'antico, e là dove allestisce seducentemente e presenta, al gusto più semplice come al più esigente, il nuovo che esso offre. Ben concepita è la sistemazione di una materia così molteplice ed eterogenea, dove bisognava toccare di tutto e non dilungarsi su nulla; soprattutto i passaggi che condu­cono da una materia all'altra sono articolati con molta arte, ove non si pre­ferisca invece ammirare ancor più l'abilità con cui vengon messe da parte oppure taciute le cose fastidiose». I sensi di tali panegiristi sono, come ap­pare anche da qui, non molto affinati riguardo a ciò di cui uno come auto­re è capace, ma tanto più affinati per ciò che uno vuole. Ma quel che Strauss vuole, ce lo rivela con la massima chiarezza la sua enfatica e non del tutto innocente raccomandazione delle Grazie di Voltaire, al cui servi­zio egli potè apprendere appunto quelle arti «in vesti succinte» di cui parla il suo panegirista — nel caso cioè in cui la virtù si possa insegnare, e un do­cente universitario possa mai diventare un ballerino.

Chi non ci fa sopra i suoi pensieri, quando legge per esempio le seguenti parole di Strauss su Voltaire (p. 219, Voltaire): «Certo, Voltaire come filo­sofo non è originale, è soprattutto un elaboratore di studi inglesi: in questo però si dimostra sempre libero padrone della materia, che con incompara­bile abilità sa mostrare da tutti i lati e porre in ogni luce possibile, riuscen­do così a soddisfare, senza essere rigorosamente metodico, anche le esigen­ze di approfondimento». Tutti i tratti negativi corrispondono: nessuno so­sterrà che Strauss come filosofo sia originale, oppure che sia rigorosamen­te metodico, ma il problema sarebbe se consideriamo anche lui come «libe­ro padrone della materia» e gli concediamo l'«incomparabile abilità». La confessione che lo scritto è stato «vestito succintamente con intenzione», lascia indovinare che a un'incomparabile abilità esso almeno mirava.

Non costruire un tempio, né un edificio di abitazione, bensì una casa di campagna circondata da tutte le arti del giardinaggio: questo era il sogno del nostro architetto. Anzi sembra quasi che persino quel misterioso senti­mento del tutto fosse calcolato principalmente come effetto estetico, per così dire come un panorama su un elemento irrazionale, per esempio sul mare, visto dalla più graziosa e razionale terrazza. Il percorso attraverso i primi capitoli, ossia attraverso le catacombe teologiche con la loro oscurità e la loro ornamentazione bizzarra e barocca, era stato a sua volta soltanto un mezzo estetico per far risaltare come contrasto il nitore, la luminosità e la razionalità della parte intitolata «Come concepiamo il mondo?»: perché

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subito dopo quel percorso nel buio e lo sguardo nella vastità irrazionale, entriamo in una sala illuminata dall'alto: essa ci accoglie fredda e chiara, con carte astronomiche e figure matematiche alle pareti, piena di attrezzi scientifici, con scheletri negli armadi, scimmie impagliate e preparati ana­tomici. Ma di qui passiamo, ora davvero felici, nel bel mezzo delle confor-tevolezze dei nostri abitanti della casa di campagna; li troviamo con le loro donne e i loro figli, tra i loro giornali e i loro discorsi politici quotidiani, per un po' li ascoltiamo parlare di matrimonio e di suffragio universale, di pena di morte e di scioperi operai, e non ci sembra possibile recitare con maggiore rapidità il rosario delle pubbliche opinioni. Alla fine dobbiamo ancora venir convinti del gusto classico di chi abita qui: una breve sosta nella biblioteca e nella stanza della musica ci fornisce l'attesa delucidazio­ne, che sugli scaffali ci sono i libri migliori e sui leggìi i pezzi musicali più famosi; ci viene suonato persino qualcosa, e se per caso fosse musica di Haydn, Haydn comunque non ha colpa se essa risuona come una musica casalinga di Riehl. Il padrone di casa intanto ha avuto modo di dichiararsi completamente d'accordo con Lessing, e anche con Goethe, però solo fino alla seconda parte del Faust. Da ultimo il nostro proprietario della casa di campagna loda se stesso e dice che per colui al quale non piacesse la sua ca­sa, non ci sarebbe niente da fare, costui non sarebbe maturo per il suo pun­to di vista; dopo di che ci offre anche la sua carrozza, però con la garbata riserva di non volere affatto sostenere che essa risponda a tutte le esigenze; inoltre le pietre sulle sue strade sono state posate di fresco, e noi verremo malamente sballottati. A questo punto il nostro epicureo dio dei giardini si congeda con l'incomparabile abilità che ha saputo lodare in Voltaire.

Chi potrebbe ancora dubitare di questa incomparabile abilità? Il libero padrone della materia è riconosciuto, l'artista del giardinaggio succinta­mente vestito è rivelato; e sempre udiamo la voce del classico: come scritto­re non voglio essere un filisteo, non voglio, non voglio! Ma solo Voltaire, il Voltaire tedesco! e tutt'al più, ancora, il Lessing francese!

Sveliamo un segreto: il nostro maestro non sempre sa chi preferisce esse­re, Voltaire oppure Lessing, ma a nessun costo vuol essere un filisteo, e possibilmente vorrebbe essere tutti e due, Lessing e Voltaire — perché si compia ciò che è scritto: «Non aveva nessun carattere, ma quando ne vole­va uno, doveva innanzitutto sempre supporne uno».

10.

Se abbiamo capito correttamente lo Strauss uomo di fede, costui è un vero filisteo, dall'anima piccina e inaridita, dai bisogni dotti e insipidi; ep­pure nessuno più dello scrittore David Strauss si indignerebbe di esser defi­nito un filisteo. Gli andrebbe bene esser detto spavaldo, temerario, cattivo, audace; ma la sua massima felicità sarebbe di venir paragonato a Lessing o a Voltaire, perché essi sicuramente non erano filistei. Nella sua smania di questa felicità, spesso egli è incerto se dover emulare il coraggioso impeto dialettico di Lessing, oppure se gli si confaccia meglio atteggiarsi a vecchio faunesco e libero pensatore alla maniera di Voltaire. Sempre, quando si siede a scrivere, prende un'espressione come se volesse farsi fare un ritrat­to, un'espressione ora lessinghiana ora voltairiana. A leggere il suo elogio dell'esposizione voltairiana, pare che egli voglia far energicamente la mo­rale all'epoca presente, la quale non conosce affatto quel che essa possiede nel Voltaire moderno (p. 217, Voltaire): «anche i pregi», egli dice, «son dappertutto gli stessi: semplice naturalezza, trasparente chiarezza, vivace

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versatilità, piacevole grazia. All'occorrenza non mancano calore ed ener­gia; l'avversione per la ridondanza e l'affettazione veniva dal più profondo dell'animo di Voltaire; come del resto, quando la spavalderia o le passioni abbassavano la sua espressione sino alla volgarità, la colpa non era dello stilista, ma dell'uomo che era in lui». Strauss sembra dunque conoscer molto bene l'importanza della semplicità dello stile: essa è sempre stata il segno distintivo del genio, che solo ha il privilegio di esprimersi con sempli­cità, naturalezza e candore. Che un autore scelga uno stile semplice non è dunque indice di volgarissima ambizione: sebbene infatti molti si accorga­no sotto che luce un autore simile vorrebbe esser considerato, alcuni sono però anche così compiacenti da considerarlo proprio sotto quella luce. Ma l'autore geniale si rivela non soltanto nella semplicità e nella chiarezza del­l'espressione: la sua forza esuberante gioca con la sua materia, anche se questa è pericolosa e difficile. Nessuno cammina con passo sicuro su una strada sconosciuta e interrotta da mille precipizi: ma il genio corre agil­mente e con balzi temerari o leggiadri per un tale sentiero, e irride l'attenta e peritosa cautela dei passi.

Che i problemi a cui Strauss passa accanto di corsa siano seri e spavento­si, e in quanto tali siano stati dibattuti dai savi per migliaia di anni, Strauss lo sa, e tuttavia definisce il suo libro come un libro dalle vesti succinte. Di tutti questi terrori, della tetra serietà della meditazione in cui di solito si ca­de nell'interrogarsi sul valore dell'esistenza e sui doveri dell'uomo, non si ha più alcun sentore, quando il maestro ci viene facendo i suoi giochi di prestigio, «in vesti succinte e con intenzione», in vesti persino più succinte del suo Rousseau, di cui sa raccontarci che si scopriva di sotto e si drappeg­giava di sopra, mentre Goethe si sarebbe drappeggiato di sotto e scoperto di sopra. I geni davvero ingenui, pare, non si drappeggiano affatto, e forse l'espressione «succintamente vestito» è solo un eufemismo per nudo. Della dea Verità, i pochi che l'hanno vista affermano che essa era nuda: e forse agli occhi di coloro che non l'hanno vista, ma che credono a quei pochi, la nudità o una veste succinta sono già una prova, o quanto meno un indi-cium della verità. Già il sospetto torna qui a vantaggio dell'ambizione del­l'autore: qualcuno vede qualcosa di nudo: e se fosse la verità?, si chiede, e assume un'espressione più solenne del solito. Ma così l'autore ha già gua­dagnato molto, se induce i suoi lettori a guardarlo più solennemente di un qualunque altro autore dall'abbigliamento più consistente. È la via per di­ventare un «classico»: e Strauss ci racconta anche «che gli è stato fatto l'o­nore non richiesto di considerarlo una specie di prosatore classico», e che dunque è giunto alla mèta della sua via. Il genio Strauss si aggira per le strade nelle vesti succinte delle dee come «classico», e il filisteo Strauss de­ve senz'altro, per servirci di un'originale espressione di questo genio, «es­ser mandato in pensione», oppure «buttato fuori per non più ritornare».

Ma ahimè, il filisteo torna, a dispetto di tutti i decreti di pensionamento e di tutte le espulsioni, e torna spesso! Ahimè, il viso artificiosamente cor­rugato alla Voltaire o alla Lessing, torna talvolta con un guizzo alle sue vecchie, oneste forme originali! Ahimè, la maschera del genio cade troppo spesso, e mai il volto del maestro fu più crucciato, mai le sue movenze fu­rono più rigide di quando appunto aveva tentato di imitare nei suoi salti il balzo del genio, e di guardare con lo sguardo infuocato del genio! Proprio per il fatto di vestirsi così succintamente nelle nostre fredde regioni, egli si espone al pericolo di raffreddarsi più spesso e più gravemente di un altro; può esser davvero penoso che anche gli altri si accorgano di tutto questo, ma se egli vuole veramente trovar guarigione, occorre anche che gli si fac-

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eia pubblicamente questa diagnosi. C'era uno Strauss, uno studioso di va­glia, rigoroso e severamente vestito, che ci era altrettanto simpatico quanto chiunque in Germania serva la verità con serietà ed energia, e sappia domi­nare entro i suoi confini; colui che oggi è celebre presso l'opinione pubbli­ca come David Strauss, è diventato un altro: può darsi che siano stati i teo­logi a trasformarlo in quest'altro; oggi comunque quel suo giocare con la maschera del genio ci risulta tanto odioso o ridicolo, quanto una volta la sua serietà ci induceva alla serietà e alla simpatia. Quando egli ci dichiara, come recentemente ha fatto: «Sarebbe anche ingratitudine verso il mio Ge­nio se non volessi rallegrarmi che, oltre al dono della critica implacabil­mente distruttiva, mi sia stata data anche la gioia innocente della creazione artistica», forse potrà stupirlo che, nonostante questa testimonianza su se stesso, esistano persone che affermano il contrario; in primo luogo, che egli non ha mai posseduto il dono della creazione artistica, e in secondo luogo che quella «gioia» da lui detta innocente, innocente non lo è affatto, dal momento che ha gradualmente scalzato e alla fine distrutto una natura di studioso e di critico solida nelle sue basi e profondamente impiantata, ossia il vero genio di Strauss. In un accesso di sconfinata sincerità Strauss aggiunge peraltro di aver sempre «avuto dentro di sé un Merck che gli gri­dava: questa robaccia non devi più farla, questa sanno farla anche gli al­tri!». Era la voce del vero genio straussiano: questa stessa voce gli dice an­che quanto o quanto poco valga il suo nuovissimo testamento del filisteo moderno, innocentemente avvolto in vesti succinte. Questo Io san fare an­che gli altri! E molti saprebbero magari farlo meglio! E coloro che Io sa­prebbero fare meglio di tutti, spiriti più dotati e ricchi di Strauss, farebbe­ro pur sempre — robaccia.

Credo si sia ben compreso quale stima io faccia dello scrittore Strauss: quella di un attore che recita la parte del genio ingenuo e del classico. Se Lichtenberg dice: «Lo stile semplice è da raccomandarsi già solo per il fat­to che nessun uomo onesto nelPesprimersi si atteggia e arzigogola», non per questo lo stile semplice è già una prova di onestà letteraria. Vorrei che lo scrittore Strauss fosse più sincero, così scriverebbe meglio e sarebbe me­no famoso. Oppure — se proprio vuol essere attore — vorrei che fosse un buon attore e imitasse meglio il genio ingenuo e il classico, nello scrivere in modo classico e geniale. Resta infatti da dire che Strauss è un cattivo attore e addirittura uno stilista che non vale nulla.

11.

Il difetto di essere un pessimo scrittore diventa comunque meno grave per il fatto che in Germania è molto difficile diventare uno scrittore medio e passabile, ed è straordinariamente improbabile diventare un buono scrit­tore. Manca qui un terreno naturale, la valutazione artistica, la cura e il perfezionamento del discorso parlato. Poiché in tutte le pubbliche manife­stazioni quest'ultimo, come già risulta da espressioni quali «conversazione da salotto», «predica», «discorso parlamentare», non è ancora giunto a uno stile nazionale, anzi neppure al bisogno di uno stile in genere, e dato che in Germania tutti quelli che parlano non sono andati oltre il più inge­nuo sperimentalismo linguistico, lo scrittore non dispone di nessuna norma unitaria, e in certo qual modo ha il diritto di vedersela da solo con la lin­gua; cosa che, tra le sue conseguenze, porterà necessariamente a quella di­lapidazione senza limiti della lingua tedesca del «giorno d'oggi», già de­scritta con tanta energia da Schopenhauer. «Se va avanti così — egli dice

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una volta — nell'anno 1900 i classici tedeschi non saranno più intesi retta­mente, perché non si conoscerà più altra lingua se non il gergo volgare del nobile "giorno d'oggi" — il cui carattere fondamentale è l'impotenza.» In effetti già adesso giudici della lingua e i grammatici tedeschi ci dicono sulle riviste più nuove che i nostri classici non possono più essere considerati i modelli del nostro stile, perché hanno una grande quantità di vocaboli, espressioni e costruzioni sintattiche, che noi abbiamo perduto: per cui con­verrebbe raccogliere le destrezze linguistiche nell'uso di parole e di frasi dalle celebrità letterarie di oggi e proporle per l'imitazione, cosa che per esempio è anche davvero accaduta con il succinto e vergognoso dizionariet­to di Sanders. In esso quel ripugnante mostro di stile che è Gutzkow com­pare come classico: e comunque dovremo, a quanto pare, abituarci a una nuovissima e sorprendente schiera di «classici», fra cui è primo, o almeno uno dei primi David Strauss, quello stesso che non possiamo definire di­versamente da come l'abbiamo definito, ossia uno stilista che non vale niente.

Ora, è quanto mai indicativo di quella pseudocultura del filisteo colto il modo in cui egli approda al concetto di classico e di scrittore esemplare — egli che mostra la sua forza soltanto nel rifiutare uno stile di cultura artisti­camente rigoroso, e con questo ostinato rifiuto giunge a un'omogeneità espressiva che a sua volta appare quasi unità di stile. Com'è possibile che, in questo sterminato sperimentalismo linguistico consentito a chiunque, singoli autori trovino un tono universalmente gradito? Cosa c'è in questo tono di così universalmente gradito? Prima di ogni altra cosa, una qualità negativa: la mancanza di tutto ciò che è sconveniente, — ma sconveniente è tutto ciò che è veramente produttivo. — Infatti, in tutto quello che il Te­desco oggi legge ogni giorno, occupano indubbiamente un posto preponde­rante i giornali, oltre alle riviste loro affini: il cui tedesco, nell'incessante stillicidio di espressioni uguali e di parole uguali, gli si imprime nell'orec­chio, e dato che egli per lo più si dedica a queste letture in ore in cui il suo spirito stanco non è comunque disposto a resistere, pian piano il suo orec­chio si abitua a questo tedesco di tutti i giorni, e all'occorrenza ne sente do­lorosamente la mancanza. I fabbricanti di quei giornali sono però, per la natura stessa del loro lavoro, i più fortemente abituati alla vischiosità di questo linguaggio giornalistico: hanno perso nel senso più vero della paro­la ogni gusto, e la loro lingua al massimo sente con una sorta di godimento ciò che è in tutto e per tutto corrotto e arbitrario. Di qui si spiega il tutti unisono con cui si fa subito coro, nonostante quel diffuso rilassamento e quello stato morboso, a ogni strafalcione linguistico appena inventato: con tali sfacciate corruzioni ci si vendica stessa della lingua per L'incredibile noia che via via essa suscita nei suoi salariati. Ricordo di aver letto un ap­pello di Berthold Auerbach «al popolo tedesco», in cui ogni espressione era bizzarra e falsa, la negazione stessa della lingua tedesca, e che nell'in­sieme somigliava a un freddo mosaico di parole con sintassi internazionale; per non parlare dello spudorato ciarpame linguistico con cui Eduard De-vrient celebrò la memoria di Mendelssohn. Dunque il difetto linguistico — questo è lo strano — non viene considerato scandaloso dal nostro filisteo, bensì come un piacevole ristoro nel deserto senz'erba e senza alberi del te­desco della quotidianità. Ma indecoroso resta per lui ciò che è veramente produttivo. Al più moderno scrittore esemplare la sua sintassi totalmente distorta, eccentrica o sfilacciata, i suoi ridicoli neologismi vengono non soltanto perdonati, ma ascritti a merito, a nota piccante: ma guai allo stili­sta dotato di personalità, il quale si tiene lontano con serietà e costanza

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tanto dall'espressione quotidiana quanto dalle «mostruosità inventate la notte prima dagli odierni scribacchini», come dice Schopenhauer. Quando ciò che è piatto, abusato, fiacco, volgare viene assunto a regola, e ciò che è brutto e corrotto viene accettato come affascinante eccezione, allora quel che è forte, non comune e bello cade in discredito: sicché in Germania tor­na a ripetersi di continuo la storia di quel viaggiatore di bella corporatura il quale arriva nel paese dei gobbi, e lì viene dappertutto schernito nel modo più vituperevole per la sua presunta deformità e per la sua mancanza di tondeggiamenti, sinché alla fine un sacerdote prende le sue difese e così parla a quella gente: compatite piuttosto il povero straniero, e con animo grato sacrificate agli dèi che vi hanno adornato di questa imponente mon­tagna di carne.

Se oggi qualcuno volesse fare una grammatica positiva dell'odierno te­desco universale e si mettesse a cercare le regole che, come imperativi non scritti, non pronunciati eppure seguiti, esercitano il loro dominio sulle scri­vanie di tutti, troverebbero strane idee sullo stile e sulla retorica, prese for­se ancora da qualche reminiscenza scolastica e dall'antica costrizione agli esercizi stilistici latini, forse dalla lettura di scrittori francesi, e sulla cui in­credibile rozzezza ogni Francese normalmente educato ha diritto di scher­zare. Su queste strane idee, sotto il cui dominio vive e scrive praticamente ogni Tedesco, non ha, a quanto pare, ancora riflettuto nessuno degli scru­polosi Tedeschi.

Tra queste regole troviamo l'esigenza che di tanto in tanto compaia un'immagine, o una similitudine, ma la similitudine dev'esser nuova: nuo­vo e moderno però, per il gracile cervello dello scrittore, sono identici, e al­lora egli si affanna ad attingere i suoi paragoni dalla ferrovia, dal telegra­fo, dalla macchina a vapore, dalla borsa, e sente con orgoglio che queste immagini devono essere nuove, perché sono moderne. Nel libro di confes­sioni straussiano troviamo anche lealmente pagato il tributo alla similitudi­ne moderna: egli ci congeda con l'immagine, lunga una pagina e mezza, di una moderna rettifica stradale, e qualche pagina prima paragona il mondo a una macchina, ai suoi ingranaggi, ai suoi pistoni, ai suoi magli e al suo «olio lenitivo». (P. 362): «Un pranzo che comincia con lo champagne». (P. 325): «Kant come stabilimento di bagni freddi». (P. 265): «La costitu­zione federale svizzera sta a quella inglese come un mulino ad acqua sta a una macchina a vapore, come un valzer o una canzone a una fuga o a una sinfonia». (P. 258): «In ogni ricorso in appello occorre rispettare la via ge­rarchica. Ma l'istanza intermedia fra l'individuo e l'umanità è la nazione». (P. 141): «Quando vogliamo sapere se in un organismo che ci sembra mor­to ci sia ancora vita, di solito proviamo ad appurarlo con uno stimolo for­te, anche doloroso, magari con una punzecchiatura». (P. 138): «La zona religiosa nell'anima umana somiglia alla zona dei pellirosse d'America». (P. 137): «Virtuosi della devozione nei conventi». (P. 90): «Scrivere a tutte cifre sotto il conto il risultato di quanto è sinora accaduto». (P. 176): «La teoria darwiniana è come una ferrovia appena segnata con i paletti... dove le bandierine sventolano allegramente». In questo modo, cioè altamente moderno, Strauss è venuto a patti con l'esigenza filistea che ogni tanto compaia una similitudine nuova.

Assai diffusa è anche una seconda esigenza retorica, secondo cui ciò che è didattico deve dipanarsi in lunghe frasi e in ampie astrazioni, mentre ciò che deve convincere vuole frasette brevi e chiaroscuri espressivi saltellanti l'uno dietro l'altro. Una frase esemplare per ciò che è didattico ed erudito, tirata in lungo sino a una totale disgregazione alla Schleiermacher e ar-

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rancante con vera agilità da tartaruga, la troviamo in Strauss a pagina 132: «Che nei livelli primitivi della religione, invece che un solo "da dove" ne compaiano molti, e invece che un solo dio una pluralità di dèi, secondo questa derivazione della religione si origina dal fatto che le diverse forze della natura o i rapporti di vita, che suscitano nell'uomo il senso di assolu­ta dipendenza, inizialmente operano su di lui in tutta la loro eterogeneità, ed egli non ha ancora acquisito la consapevolezza di come, riguardo all'as­soluta dipendenza, tra essi non possa esservi alcuna differenza, e di conse­guenza che anche il "da dove" di questa dipendenza o l'essere a cui essa in ultima analisi risale, possa soltanto essere una sola cosa». Un esempio op­posto delle frasette brevi e della affettata vivacità, che hanno così eccitato alcuni lettori, tanto che essi ormai nominano Strauss solo accanto a Les-sing, si trova a pagina 8: «Quel che mi propongo di esporre qui di seguito, sono consapevole che innumerevoli lo sanno altrettanto bene, e parecchi addirittura meglio. Alcuni anzi ne hanno già parlato. Dovrei tacere per questo? Non credo. Tutti infatti ci completiamo a vicenda. Se un altro sa meglio molte cose, forse io ne so meglio qualcuna; e qualcosa la so diversa­mente, la vedo diversamente dagli altri. Dunque, parlando francamente, fuori le carte, perché si veda se sono buone». Fra questa disinvolta marcia forzata e quella funebre lentezza, lo stile di Strauss normalmente si tiene nel mezzo, ma tra due vizi non sempre dimora la virtù, bensì troppo spesso soltanto la debolezza, il paralizzante deliquio, l'impotenza. In effetti, sono rimasto molto deluso quando, cercando nel libro straussiano tratti ed espressioni più fini e intelligenti, ed essendomi fatto a questo scopo una ru­brica, per potere almeno lodare ogni tanto qualcosa dello scrittore Strauss, non ho trovato nell'uomo di fede niente che fosse degno di lode. Cercai e cercai, e la mia rubrica restò vuota. Invece se ne riempì un'altra, intitolata: errori di grammatica, immagini confuse, abbreviazioni oscure, mancanze di gusto e artificiosità, e si riempì a tal punto che potrò azzardarmi a far conoscere solo una modesta scelta dello stragrande campionario da me rac­colto. Forse riuscirò a mettere insieme sotto questa rubrica proprio ciò che nei Tedeschi di oggi suscita la credenza nello Strauss stilista grande e affa­scinante: sono curiosità di espressione che, nell'inaridente squallore e nella polverosità dell'intero libro, ci sorprendono, se non gradevolmente, alme­no come stimolazioni dolorose: da quei passi almeno ci accorgiamo, per servirci di similitudini straussiane, che non siamo ancora morti e che rea­giamo a tali punzecchiature. Infatti tutto il resto mostra quella mancanza di ogni elemento urtante, vale a dire produttivo, che oggi viene considerata una qualità positiva dello scrittore classico. L'estrema frugalità e asciuttez­za, una frugalità davvero affamata, risveglia oggi nella massa colta l'inna­turale sentimento che proprio questa sia il segno della salute, sicché qui va­le appunto quel che dice l'autore del Dialogus de oratoribus: «illam ipsam quam iactant sanitatem non fìrrhitate sed ieiunio consequuntur». Per que­sto odiano con istintiva unanimità ogni firmitas, in quanto essa testimonia di una salute tutta diversa dalla loro, e cercano di render sospetta la firmi­tas, la severa stringatezza, la forza focosa dei movimenti, la pienezza e la delicatezza del gioco dei muscoli. Si sono messi d'accordo per sconvolgere natura e nome delle cose, e per parlare in avvenire di salute là dove noi ve­diamo debolezza, di malattia e di esaltazione là dove a noi viene incontro la vera salute. Così anche David Strauss è considerato «classico».

Se almeno questa sobrietà fosse una sobrietà rigorosamente logica: ma a questi «deboli» è venuta meno proprio la semplicità e la concisione del pensiero, e nelle loro mani anche la lingua è divenuta sfilacciata e illogica.

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Si provi soltanto a tradurre questo stile di Strauss in latino: cosa che riesce persino per Kant, e che con Schopenhauer è comoda e stimolante. Il moti­vo per cui con il tedesco straussiano la cosa non vuole assolutamente fun­zionare, probabilmente non consiste nel fatto che il suo tedesco sia più te­desco del loro, ma nel fatto che in lui questa lingua è confusa e illogica, e in quelli invece è piena di semplicità e di grandezza. Chi invece sa quanta pena si dessero gli antichi per imparare a parlare e a scrivere, e quanta non se ne diano i moderni, costui proverà un vero sollievo, come una volta ha detto Schopenhauer, nello sbarazzarsi di un libro tedesco che è stato co­stretto a leggere, per poter tornare alle altre lingue, sia antiche che moder­ne; «infatti in queste» — egli dice — «ho davanti a me una lingua fissata secondo regole, con grammatica e ortografia completamente stabilite e fe­delmente osservate, e posso dedicarmi tutto al pensiero, mentre nel tedesco vengo disturbato ogni momento dalla saccenteria dello scrittore che vuole imporre i suoi grilli grammaticali e ortografici e le sue grossolane trovate: e qui mi ripugna la stoltezza che sfacciatamente si pavoneggia. È davvero una pena veder bistrattata da ignoranti e da somari una lingua bella, anti­ca, che possiede scritti classici.»

Questo vi grida il sacro sdegno di Schopenhauer, e non potrete dire di non essere stati avvertiti. Ma chi non vuol saperne di avvertimenti e non vuole assolutamente farsi turbare la fede nello Strauss classico, a costui va suggerita come ultima ricetta quella di imitarlo. Provateci comunque a vo­stro rischio: lo dovrete scontare sia col vostro stile sia, alla fine, colla vo­stra stessa testa, perché si compia anche per voi il detto della saggezza in­diana: «Rosicchiare un corno di vacca è inutile e accorcia la vita: ci si con­sumano i denti e non se ne ottiene alcun succo».

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Infine vogliamo presentare al nostro prosatore classico la raccolta di campioni stilistici che gli avevamo promesso; forse Schopenhauer la intito­lerebbe genericamente: «Nuovi documenti del gergo canagliesco di oggi»; questo infatti dobbiamo dire a consolazione di David Strauss, se può esser­gli di consolazione il fatto che oggi tutti scrivono come lui, anzi in parte in modo ancor più miserabile, e che tra i ciechi ogni monocolo è re. In effetti gli concediamo troppo, concedendogli un occhio solo, ma lo facciamo per­chè Strauss non scrive come i più scellerati fra tutti i corruttori del tedesco, gli hegeliani e i loro storpi discendenti. Strauss almeno vuole uscir fuori da questa palude, e in parte ne è fuori, però è ancora ben lontano dalla terra­ferma; in lui ancora si vede che un tempo, in gioventù, ha balbettato hege­lianamente; in quel tempo qualcosa in lui si è slogato, qualche muscolo si è stirato; in quel tempo il suo orecchio si è ottuso, come l'orecchio di un fan­ciullo cresciuto in mezzo ai tamburi, per non più comprendere quelle leggi del suono, artisticamente delicate e forti, sotto il cui regime vive lo scritto­re formato con buoni modelli e con severa disciplina. In tal modo egli ha perso, come stilista, il suo patrimonio più prezioso, ed è condannato a re­stare per tutta la vita sulle sabbie mobili, sterili e pericolose, dello stile giornalistico — se non vuole immergersi ancora nel fango hegeliano. Tut­tavia per qualche ora del presente è riuscito a diventar celebre, e forse an­cora per qualche ora del futuro si saprà che egli era una celebrità; ma poi verrà la notte, e con essa la dimenticanza: e già in questo istante, in cui scriviamo sul libro nero i suoi peccati di stile, inizia il tramonto della sua fama. Infatti chi ha peccato contro la lingua tedesca, ha profanato il miste-

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ro di tutta la nostra natura tedesca: essa sola ha salvato, come per un meta­fisico incanto, se stessa, e con sé lo spirito tedesco, attraverso tutta la me­scolanza e il cambiamento delle nazionalità e dei costumi. Essa soltanto garantisce questo spirito anche per il futuro, qualora però non perisca tra le mani scellerate del presente. «Ma Di melioraì Via i pachidermi, via! Questa è la lingua tedesca, nella quale si sono espressi uomini, anzi nella quale grandi poeti hanno cantato e grandi pensatori hanno scritto. Via quelle zampe!»

Prendiamo come esempio una frase subito dalla prima pagina del libro di Strauss: «Già nel crescere della sua potenza... il cattolicesimo romano ha ravvisato un invito a riunire dittatorialmente tutto il suo potere spiritua­le e temporale nelle mani del papa dichiarato infallibile». Sotto questo ciondolante paramento sono nascoste varie proposizioni che non stanno assolutamente insieme e che non sono possibili allo stesso tempo; qualcuno può in una qualche maniera ravvisare l'invito a raccogliere il suo potere oppure a porlo nelle mani di un dittatore, ma non può riunirlo dittatorial­mente nelle mani di un altro. Se al cattolicesimo si dice che esso riunisce dittatorialmente il suo potere, allora esso stesso viene paragonato a un dit­tatore: evidentemente però qui è il papa infallibile a venir paragonato al dittatore, e soltanto per oscurità di pensiero e per mancanza di senso lin­guistico l'avverbio è collocato al posto sbagliato. Ma per afferrare l'insen­satezza dell'altra espressione, consiglio di pronunciarsela così semplificata: il signore riunisce le redini nelle mani del suo cocchiere. — (P. 4): «Alla base del contrasto fra il vecchio regime concistoriale e gli sforzi volti a ot­tenere una costituzione sinodale esiste tuttavia, dietro la via gerarchica da una parte e quella democratica dall'altra, una divergenza dogmatico-reli­giosa». Non è possibile esprimersi più maldestramente: prima abbiamo un contrasto tra un regime e determinati sforzi, poi alla base di questo contra­sto c'è una divergenza dogmatico-religiosa, e questa divergenza che è alla base si trova dietro una via gerarchica da una parte e una democratica dal­l'altra. Indovinello: quale cosa si trova tra due cose alla base di una terza cosa? — (P. 18): «e i giorni, benché inequivocabilmente incorniciati dal narratore tra sera e mattina» ecc. La supplico di tradurlo in latino, perché capisca quale impudente abuso Lei fa della lingua. Giorni che vengono in­corniciati! da un narratore! inequivocabilmente! e incorniciati fra qualco­sa! — (P. 19): «Di narrazioni errate e contraddittorie, di opinioni e giudizi falsi non si può parlare nella Bibbia». Espressione quanto mai sciatta! Lei scambia «nella Bibbia» con «per la Bibbia»: la prima avrebbe dovuto esser collocata prima di «non si può parlare», la seconda dopo. Penso che Ella volesse dire: di narrazioni errate e contraddittorie, di opinioni e giudizi fal­si nella Bibbia non si può parlare; perché no? perché essa è appunto la Bib­bia — dunque: «non si può parlare per la Bibbia». Per non metter di segui­to l'uno dietro l'altro «nella Bibbia» e «per la Bibbia», Ella si è indotto a scrivere in gergo canagliesco e a scambiare le preposizioni. Lo stesso mi­sfatto Ella commette a pagina 20: «Compilazioni entro le quali sono elabo­rati assieme frammenti più antichi». Ella intende dire «entro le quali sono inseriti frammenti più antichi, oppure nelle quali sono elaborati assieme frammenti più antichi». Nella stessa pagina Ella parla con espressione stu­dentesca di una «poesia didascalica che viene posta nella spiacevole situa­zione di essere dapprima in vari modi fraintesa, e poi avversata e contesta­ta», e a pagina 24 addirittura di «sottigliezze con le quali si cercò di mitiga­re la sua durezza»^ Mi trovo nella spiacevole situazione di non conoscere qualcosa di duro, la cui durezza venga mitigata da qualcosa di sottile; però

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Strauss (p. 367) parla addirittura di una «asperità mitigata da scosse». — (P. 35): «a un Voltaire di là stava di fronte di qua un Samuel Hermann in modo del tutto tipico per ambedue le nazioni». Un uomo può esser tipico sempre e soltanto per una nazione, ma non può star di fronte a un altro in modo tipico per ambedue le nazioni. Una vergognosa violenza esercitata sulla lingua per risparmiare o per scroccare una frase. (P. 46): «Ora però erano passati solo pochi anni dalla morte di Schleiermacher, che...». Per la marmaglia degli scribacchini la collocazione delle parole non crea certo problemi; che qui le parole «dopo la morte di Schleiermacher» siano collo­cate nel posto sbagliato, ossia dopo «an» mentre dovevano trovarsi prima di «an», per le sue orecchie educate al rullo dei tamburi è altrettanto indif­ferente che dire in seguito «che», mentre doveva dirsi «sinché». — (P. 13): «anche di tutte le diverse sfumature in cui cangia il cristianesimo odierno, può trattarsi per noi solo della più esterna, della più illuminata, se possiamo ancora aderire ad essa». Alla domanda: di che si tratta? si può rispondere una prima volta: «di questo e quest'altro», oppure una seconda volta con una frase con «se noi» ecc.; mescolare insieme le due costruzioni denuncia la sciatteria dell'individuo. Egli voleva piuttosto dire: «Solo ri­spetto alla più esterna può trattarsi per noi del fatto se ancora aderiamo ad essa»: ma, a quanto pare, le preposizioni della lingua tedesca stanno lì solo per essere usate ciascuna in modo che l'uso che se ne fa riesca sorprenden­te. A pagina 358, per esempio, il «classico», per farci una di queste sorpre­se, scambia le espressioni: «un libro discute intorno a qualcosa» e «si tratta di qualcosa», e allora ci tocca ascoltare una frase come questa: «qui rimar­rà indeterminato se si tratti intorno a un eroismo esteriore o interiore, in­torno a battaglie in campo aperto oppure nelle profondità del cuore uma­no». — (P. 343): «per la nostra epoca dai nervi sovreccitati, che mette in luce questa sua malattia soprattutto nelle sue preferenze musicali». Vergo­gnosa confusione fra zu Tage liegen e an den Tag legen. Siffatti riformato­ri della lingua dovrebbero esser puniti come scolaretti, senza distinzione di persona. — (P. 70): «vediamo qui uno dei passaggi di pensiero, attraverso cui i discepoli sì sono ingegnati di innalzarsi alla produzione dell'idea della resurrezione del loro maestro ucciso». Che immagine! Una vera fantasia da spazzacamino! Ci si ingegna di innalzarsi attraverso un passaggio a una produzione! Quando, a pagina 72, questo grande eroe a parole, Strauss, definisce la storia della risurrezione di Gesù come «ciarlataneria storica», vogliamo chiedergli soltanto, dal punto di vista del grammatico, chi real­mente egli accusi di avere sulla coscienza questa «ciarlataneria storica», os­sia un inganno perpetrato allo scopo di imbrogliare altre persone e di otte­nere un vantaggio per sé. Chi imbroglia, chi inganna? Infatti non riuscia­mo a immaginarci una «ciarlataneria» senza un soggetto che con essa cer­chi di perseguire un proprio vantaggio. Dal momento che Strauss non può dare alcuna risposta alla nostra domanda, — nel caso in cui esiti a prosti­tuire il suo dio, il dio che erra per nobile passione, indicandolo come que­sto imbroglione — per ora limitiamoci a considerare quest'espressione tan­to insensata quanto priva di gusto. — Nella stessa pagina si dice: «isuoi in­segnamenti sarebbero stati trascinati via e dispersi come fogli al vento, se questi fogli non fossero stati tenuti assieme dall'illusione della sua resurre­zione, come da una solida e compatta rilegatura, e in tal modo conserva­ti». Chi parla di fogli al vento, fuorvia la fantasia del lettore, in quanto poi intende con essi dei fogli di carta che possono esser tenuti assieme da un la­voro di rilegatura. Lo scrittore scrupoloso nulla eviterà di più, che lasciare

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il lettore nel dubbio o fuorviarlo con un'immagine: infatti l'immagine ser­ve a render qualcosa più chiaro; ma se l'immagine stessa è espressa poco chiaramente e induce in errore, rende la cosa più oscura di quanto non fos­se senza l'immagine. Ma accurato il nostro «classico» non è davvero: parla arditamente della «mano delle nostri fonti» (p. 76), della «mancanza di ogni maniglia nelle fonti» (p. 77) e della «mano di una necessità» (p. 215). — (P. 73): «La credenza nella sua resurrezione va messa in conto a Gesù stesso». Chi ama esprimersi in maniera così meschinamente mercantile su questioni così poco meschine, fa capire di aver letto per tutta la vita libri davvero cattivi. Di cattive letture lo stile di Strauss testimonia a ogni passo. Forse egli ha letto troppo gli scritti dei suoi avversari teologici. Ma dove si impara a importunare il vecchio dio degli ebrei e dei cristiani con immagini così piccolo-borghesi, come per esempio Strauss fa a pagina 105, dove a quel «vecchio dio degli ebrei e dei cristiani vien tolta la sedia di sotto», e dove «per il vecchio dio personale si approssima la crisi degli alloggi», op­pure a pagina 115, dove quello stesso dio viene trasferito in una «stanzetta riservata, nella quale peraltro egli deve essere ancora alloggiato e occupato decorosamente»! — (P. 111): «con la preghiera esaudibile è venuto a ca­dere un altro attributo essenziale del dio personale». Scribacchini, pensate bene prima di mettervi a scribacchiare! Mi vien quasi da credere che l'in­chiostro stesso debba arrossire, quando con esso vien pasticciato qualcosa a proposito di una preghiera che sarebbe un «attributo», e per di più un «attributo venuto a cadere». — Ma che cosa non troviamo a pagina 134! «Molti degli attributi desiderativi che l'uomo del tempo antico conferiva ai suoi dèi — cito come esempio soltanto la capacità di muoversi rapidissima­mente attraverso lo spazio — egli oggi li ha avocati a sé, in seguito al domi­nio razionale sulla natura». Chi ci dipanerà questo gomitolo? Bene, l'uo­mo del tempo antico conferisce attributi agli dèi; «attributi desiderativi» però fa davvero pensare! Strauss intende dire pressappoco che l'uomo ha supposto che gli dèi possiedano realmente tutto ciò che egli desidera avere, ma che non ha, e così un dio ha attributi che corrispondono ai desideri de­gli uomini, quindi «attributi desiderativi». Ma adesso l'uomo, a quanto Strauss ci insegna, assume su di sé alcuni di questi «attributi desiderativi» — un processo oscuro, altrettanto oscuro di quello descritto a pagina 135: «deve accostarsi il desiderio di imprimere a questa dipendenza, per la via più breve, una svolta vantaggiosa per l'uomo». Dipendenza — svolta — via più breve, un desiderio che si accosta — guai a colui che volesse real­mente vedere un processo simile! È una scena da libro illustrato per ciechi. Bisogna andare a tentoni. — Un nuovo esempio (p. 222): «La direzione sorgente di questo movimento, e che con il suo stesso sorgere oltrepassa la singola decadenza»; un esempio ancora più forte (pagina 120): «L'ultima svolta kantiana, come abbiamo constatato, si vide costretta, per giungere alla mèta, a prendere una strada lontana di un bel tratto oltre il campo di una vita futura». Chi non è un mulo, non riesce a trovare una strada in queste nebbie. Svolte che si vedono costrette! Direzioni che oltrepassano la decadenza! Svolte che per la via più breve sono vantaggiose, svolte che prendono una strada lontana di un bel tratto oltre un campo! Oltre quale campo? Oltre il campo della vita futura! Al diavolo la topografia: luce! lu­ce! Dov'è il filo di Arianna in questo labirinto? No, nessuno può permet­tersi di scrivere così, fosse pure il prosatore più celebre, ma tanto meno una persona dalla «disposizione religiosa e morale perfettamente matura» (p. 50). Una persona anziana, voglio dire, dovrebbe pur sapere che la lin­gua è un'eredità trasmessa dagli antenati e da lasciare ai discendenti, della

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quale bisogna avere profondo rispetto come di qualcosa di sacro e inesti­mabile e inviolabile. Se le vostre orecchie sono diventate ottuse, allora do­mandate, consultate vocabolari, servitevi di buone grammatiche, ma non osate continuare a peccare così alla luce del giorno! Strauss dice per esem­pio (p. 136): «un 'illusione, togliere la quale da sé e dall'umanità deve esse­re cura di chiunque sia pervenuto alla ragione». Questa costruzione è sba­gliata, e se l'orecchio sviluppato dello scribacchino non se ne accorge, allo­ra voglio gridarglielo io: o «si toglie qualcosa a qualcuno», o «si libera qualcuno da qualcosa»; quindi Strauss avrebbe dovuto dire: «un'illusione, togliere la quale a sé e all'umanità», oppure «liberare dalla quale sé e l'u­manità». Quel che ha scritto, invece, è gergo canagliesco. Come dovremo sentirci poi, quando un simile pachiderma stilistico si voltola in neologismi oppure in vecchie parole trasformate, quando parla dello «spirito livellato­re della socialdemocrazia» (p. 279), come se fosse Sebastian Frank, oppure quando imita un'espressione di Hans Sachs (p. 259): «ipopoli sono i voluti da Dio, ossia le forme secondo natura nelle quali l'umanità approda all'e­sistenza, dalle quali nessun uomo dotato di ragione può prescindere, alle quali nessun valoroso può sottrarsi». — (P. 252): «La specie umana si cer­ne in razze secondo una legge»; (pagina 282): «Paventare resistenza». Strauss non capisce perché uno straccetto così antiquato colpisca tanto in mezzo alla moderna meschinità del suo linguaggio. Infatti chiunque si ac­corge che tali espressioni e tali straccetti sono rubati. Ma qua e là il nostro sartorello è anche creativo, e si confeziona una parola nuova: a pagina 221 parla di una «vita che si svolge, si sviluppa e aspira verso l'alto»: ma aus-ringen si dice o della lavandaia che strizza il bucato, o dell'eroe che ha ter­minato la sua battaglia e muore; ausringen nel senso di «svilupparsi» è te­desco alla Strauss, come pure (pagina 223): «tutti i gradi e gli stadi di invi­luppo e sviluppo» è tedesco da bambini in fasce! — (P. 252): «in sequen­za» invece che «in seguito». (P. 137): «nellapratica quotidiana del cristia­no medievale l'elemento religioso veniva in discorso assai più spesso e più ininterrottamente». «Assai più ininterrottamente», un comparativo esem­plare, se cioè Strauss è un prosatore esemplare: a dire il vero egli usa anche l'impossibile «più perfetto» (pagine 223 e 224). Ma «venire in discorso»! Questo da dove mai proviene, o spericolato artista della lingua? perché qui non so proprio come cavarmela, non mi viene in mente nessuna analogia, e i fratelli Grimm, interpellati su questa specie di «discorso», sono rimasti muti come tombe. Ella invece vuol dire soltanto: «l'elemento religioso si esprime più spesso», ossia ancora una volta Ella confonde, con un'igno­ranza che fa rizzare i capelli, le preposizioni; confondere aussprechen con ansprechen porta su di sé l'impronta della trivialità, anche se non dovesse tornarLe gradito che io lo esprima pubblicamente. — (P. 220): «perché dietro il suo significato soggettivo io sentivo risuonarne un altro oggettivo di infinita portata». Come s'è detto, il Suo udito versa in condizioni catti­ve, oppure strane: Ella ode «risuonare significati», e li ode risuonare addi­rittura «dietro» altri significati, e questi significati uditi sarebbero «di infi­nita portata»! O è un'assurdità, o è un'immagine tecnica da cannoniere. — (P. 183): «con questo i contorni esterni della teoria sono già dati; anche delle molle che regolano il movimento all'interno di essa, alcune sono già sistemate». Questa è di nuovo o un'insensatezza, oppure un'immagine tec­nica, a noi inaccessibile, di chi faccia il tappezziere. Ma che valore avrebbe un materasso fatto di contorni e di molle sistemate? E che molle sono que­ste, che regolano il movimento all'interno del materasso? Noi dubitiamo della teoria straussiana, quando egli ce la presenta in questa forma, e do-

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vremmo dire di essa quel che Strauss stesso dice in modo così bello (p. 17S): «per la vera vitalità, le mancano ancora elementi intermedi essenziali». Dunque avanti con questi elementi intermedi! Contorni e molle ci sono, pelle e muscoli sono preparati; ma fino a che si hanno solo questi, manca ancora molto per la vera vitalità, oppure, per esprimerci «inautorevolmen-te» con Strauss: «nel caso in cui si facciano urtare immediatamente l'una contro l'altra due masse di valore così diverso, senza considerare i gradi e gli stadi intermedi». — (5): «Ma si può essere senza collocazione eppure non giacere per terra». La comprendiamo bene, maestro dalle vesti succin­te! Infatti chi non sta in piedi e neppure è sdraiato, costui vola, si libra for­se, caprioleggia oppure svolazza. Ma se Le stava a cuore esprimere qualco­sa di diverso che non la Sua sventatezza, come il contesto lascia quasi im­maginare, allora al Suo posto io avrei scelto un'altra immagine; questa poi esprime anche qualcos'altro. — ( 5): «/ rami del vecchio albero, divenuti notoriamente secchi»; che stile divenuto notoriamente secco! — ( 6): «an­che a un papa infallibile, come quella necessità esigeva, costui non potreb­be negare Usuo riconoscimento». A nessun costo si deve confondere il da­tivo con l'accusativo: per i bambini è uno strafalcione, per i prosatori esemplari è un delitto. — A pagina 8 troviamo «nuova formazione di una nuova organizzazione degli elementi ideali nella vita dei popoli». Suppo­niamo che questa tautologica assurdità sia scivolata di nascosto dal cala­maio sul foglio: la si deve per questo far stampare? È anche lecito non ac­corgersi di una cosa del genere durante la correzione delle bozze? Durante la correzione di sei edizioni! Per inciso, a pagina 9: quando si citano parole di Schiller, lo si faccia con un po' più di precisione e non così approssima­tivamente! La cosa esige il dovuto rispetto. Dunque bisogna dire: «senza temere lo sfavore di alcuno». — ( 16): «perché allora essa subito diventa un chiavistello, un muro ostacolante, contro cui si volgono, con appassio­nata avversione, tutto l'impeto della ragione progressiva, tutti gli arieti del­la critica». Qui dobbiamo immaginarci qualcosa che prima diventi chiavi­stello, poi muro, contro il quale alla fine si volgano «arieti con appassiona­ta avversione», oppure addirittura un «impeto» con appassionata avver­sione. Signore, parli dunque come un uomo di questo mondo! Gli arieti vengono rivolti da qualcuno e non si rivolgono da soli, e solo colui che li ri­volge, e non l'ariete stesso, può sentire appassionata avversione, benché di rado qualcuno potrà provare un'avversione simile proprio contro un mu­ro, come Ella vuol farci credere. — ( 266): «motivo per cui anche simili modi di dire hanno costituito in ogni tempo l'arengo preferito delle banali­tà democratiche». Pensato in modo oscuro! I modi di dire non possono co­stituire alcun arengo! ma solo torneare essi stessi in quell'arengo. Strauss forse voleva dire: «motivo per cui anche simili punti di vista hanno costi­tuito in ogni tempo l'arengo preferito dei modi di dire e delle banalità de­mocratiche». — ( 320): «l'interiorità di un animo poetico dalle corde ric­che e delicate per il quale, nonostante la sua attività a vasto raggio nei cam­pì della poesia e delle scienze naturali, della vita associata e degli affari di Stato, restò sempre come costante bisogno il ritorno al soave focolare di un nobile amore». Io mi sforzo di immaginare un animo provvisto di corde come un'arpa, e che poi abbia un attività a vasto raggio, vale a dire un ani­mo galoppante, che abbia la buona andatura di un morello, e che alla fine torni al quieto focolare. Non ho forse ragione di trovare davvero originale quest'arpa d'animo che galoppa e fa ritorno al focolare, ma che si occupa anche di politica, per quanto poco originale sia, logoro, anzi illecito, «l'a­nimo poetico dalle corde delicate»? Da questi arguti neologismi del volgare

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o dell'assurdo si riconosce il «prosatore classico». — (P. 74): «se volessi­mo aprire gli occhi, e confessare onestamente a noi stessi ciò che abbiamo trovato con questo aprire gli occhi». In questa frase splendida e solenne­mente vuota nulla impressiona più dell'accostamento di «trovato» con la parola «onestamente»: chi trova qualcosa e non lo fa sapere, chi non con­fessa il «trovato» è disonesto. Strauss fa il contrario e ritiene necessario lo­dare e professare questo pubblicamente. Ma chi mai l'ha biasimato? chie­deva uno Spartano. — (P. 43): «egli tirò più energicamente ifili soltanto in un articolo di fede, che peraltro è anche il punto centrale della dogmati­ca cristiana». Resta oscuro che cosa egli abbia realmente fatto: quand'è che si tirano i fili? Questi fili sarebbero forse briglie, e l'energico tiratore di fili sarebbe forse un cocchiere? Riesco a capire l'immagine solo con questa correzione. — (P. 226): «Nelle giacche di pelliccia c'è un più giusto presa­gio». Senza dubbio! «l'uomo preistorico disceso dalla scimmia primigenia era ancora ben lungi» (p. 226) dal sapere che un giorno sarebbe approdato alla teoria straussiana. Ma adesso lo sappiamo, «si andrà, e si dovrà anda­re, là dove le bandierine garriscono allegre nel vento. Sì, allegre, e nel sen­so della gioia spirituale più nobile e pura» (p. 176). Strauss è così candida­mente felice della sua teoria, che persino le «bandierine» diventano allegre e, in modo singolare, allegre «nel senso della gioia spirituale più nobile e pura». E adesso la faccenda si fa ancora più allegra! Tutto ad un tratto ve­diamo «tre maestri, ciascuno dei quali si pone sulle spalle di quello davanti a lui» (p. 361), un vero e proprio numero da cavallerizzi offertoci da Haydn, Mozart e Beethoven; vediamo Beethoven «rompere la cavezza» (p. 356) come un cavallo; ci si para davanti «una strada ferrata di fresco» (p. 367) (mentre sinora sapevamo soltanto di cavalli ferrati di fresco), e co­sì pure «una florida serra calda per l'omicidio a scopo di rapina» (p. 287); a dispetto di questi vistosi miracoli, «il miracolo» viene «decretato decadu­to» (p. 176). Improvvisamente appaiono le comete (p. 164); però Strauss ci tranquillizza: «nel mobile popolo delle comete non può parlarsi di abi­tanti»: parole davvero consolanti, perché altrimenti, nel caso di un popolo mobile, neanche rispetto agli abitanti ci sarebbe da giurare. Ecco intanto un nuovo spettacolo: Strauss in persona «si arrampica» lungo un «senti­mento nazionale sino al sentimento dell'umanità» (p. 258), mentre un al­tro «scivola quaggiù verso una democrazia sempre più rozza» (p. 264). Quaggiù! non laggiù! comanda il nostro maestro di lingua, il quale (p. 269) dice con errore davvero vigoroso che «nella costruzione organica appartiene qua dentro una valente nobiltà». In una sfera più elevata si muovono, inafferabilmente alti sopra di noi, fenomeni preoccupanti, per esempio «la rinuncia a estrarre spiritualisticamente l'uomo dalla natura» (p. 201), oppure (p. 210) «la confutazione della riservatezza»; uno spetta­colo pericoloso si trova a pagina 224, dove «la lotta per l'esistenza nel re­gno animale viene sufficientemente scatenata». — A pagina 359, in modo addirittura prodigioso «una voce umana accorre in aiuto della musica stru­mentale», ma viene aperta una porta, attraverso la quale il miracolo (p. 177) «viene buttato fuori per non più ritornare». — A pagina 123 «l'e­videnza vede perire nella morte tutto l'uomo, così come egli era»; mai an­cora, sino al dominatore della lingua Strauss, P«evidenza» aveva «visto»: adesso lo abbiamo sperimentato nel suo diorama linguistico, e lo vogliamo lodare. Anche questo abbiamo appreso per la prima volta da lui, ossia quel che significhi: «il nostro sentimento del Tutto reagisce, quando viene feri­to, in modo religioso», e ci ricordiamo della relativa procedura. Sappiamo già quale fascino vi sia nel «contemplare almeno sino al ginocchio figure sublimi», per cui ci riteniamo fortunati di aver potuto, sia pure con questa

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limitazione del panorama, vedere quel «prosatore classico». Detto sincera­mente: quelle che abbiamo visto erano gambe d'argilla, e quel che sembra­va un sano incarnato era soltanto una passata d'intonaco. Certamente la cultura filistea in Germania sarà sdegnata nel sentir parlare di idoli dipinti, là dove essa vede un dio vivente. Ma chi ardisce sconvolgere le sue immagi­ni, difficilmente avrà timore di dirle in faccia, a dispetto di ogni indigna­zione, che essa stessa ha disimparato a distinguere tra vivo e morto, tra ve­ro e falso, tra originale e imitato, tra dio e idoli, e che ha perduto il sano, virile istinto del reale e del giusto. Essa stessa merita il tramonto: e già ora declinano le insegne del suo potere, già ora la porpora le cade di dosso; ma se la porpora cade, anche il duca deve cadere. —

Con questo ho concluso la mia professione di fede. È la professione di fede di un individuo; e che cosa potrebbe un individuo contro tutto il mon­do, anche se la sua voce fosse udita dappertutto? Il suo giudizio sarebbe soltanto, per adornarvi alla fin fine di una genuina e preziosa piuma di struzzo, «tanto fornito di verità soggettiva, quanto privo di ogni forza pro­batoria oggettiva» — non è vero, miei cari? Perciò state di buon animo. Almeno per il momento bisognerà contentarsi del vostro «tanto fornito — quanto privo». Per il momento! Sino a quando, cioè, verrà considerato inattuale quello che è attuale fu sempre, e che adesso è attuale più che mai e necessario — dire la verità.