Friedrich Nietzsche - Verità e menzogna e altri scritti giovanili

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VERITÀ E MENZOGNA E ALTRI SCRITTI GIOVANILI 1870/1873

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VERITÀ E MENZOGNA E ALTRI SCRITTI GIOVANILI

1870/1873

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Traduzioni condotte sugli originali tedeschi in Nietzsche Werke, Kritische Gesamtausgabe Dritte Abteilung, Herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, Zweiter Band, Berlin, Walter De Gruyter & Co,-1973. Traduzioni di Sergio Givone

Due conferenze pubbliche sulla tragedia greca (Prima conferenza: il dramma musicale greco; Seconda conferenza: Socrate e la tragedia) Titolo originale: Zwei òffentliche Vortràge ùber die griechische Tragòdie (Erster Vortrag: Das griechische Musikdrama. Zweiter Vortrag: Socrates und die Tragòdie) La visione dionisiaca del mondo Titolo originale: Die dionysische Weltanschauung Cinque prefazioni per cinque libri non scritti Titolo originale: Fùnf Vorreden zufunf ungeschriebene Bùchern Su verità e menzogna in senso extramorale Titolo originale: Ober Wahrheit und Liige im aussermoralischen Sinne

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Introduzione

i.

Le due conferenze (i cui testi, come anche gli altri di questa raccolta rela­tiva agli anni 1870-73, saranno pubblicati soltanto postumi)1 che Nietzsche tiene a Basilea il 18 gennaio 1870 e il primo febbraio dello stesso anno, ri­spettivamente sul Dramma musicale greco e su Socrate e la tragedia, meri­tano attenzione per almeno tre buoni motivi. Anzitutto, in esse Nietzsche anticipa i risultati di quel suo «vagabondare nei campi della filologia»1 che renderà noti nella Nascita della tragedia due anni dopo, e li anticipa in for­ma più radicale e scabra, libero com'è ancora dalla seduzione wagneriana. In secondo luogo, egli denuncia la sostanziale insufficienza della stessa fi­lologia e affida un'estrema e marginale possibilità di accostamento della tragedia greca alla «fantasia» piuttosto che «all'erudizione, al sapere sac­cente e presuntuoso», fino al punto di scrivere, in una lettera a Rohde di quegli stessi giorni: «L'esistenza filologica con aspirazioni critiche ma mil­le miglia lontana dalla grecità, mi diventa sempre più impossibile»3. Terzo motivo: nonostante il giovane filologo creda che solo infuturo gli sarà da­to di esprimere il suo pensiero «in modo serio e franco», là dove invece per il momento non può che constatare nei suoi uditori «paure e fraintendi­menti»4, è proprio qui, in particolare nella seconda di queste conferenze, ch'egli porta in primo piano la domanda decisiva, quella che attraversa tutta la sua riflessione sul mondo greco e, a partire dal 1872, ne determina il senso: la domanda, cioè, non tanto sui modi del venire alla luce del tragi-

1 Ora nel voi. m, tomo 2: Nachgelassene Schrtften 1870-1873, della Kritische Gesamtausga-be, cui si affianca, a partire dal 1977, il Briefwechsel (in 18 voli.) a cura di G. Colli e M. Mon­tinari, Berlino, 1967 ss. A questo volume, che contiene tra l'altro anche «Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen», si riferiscono le citazioni con la sigla KG, salvo indicazio­ne contraria. La traduzione è la nostra. Cfr. anche «La filosofia nell'età tragica dei Greci», in questo voi.

2 Cfr. la lettera a Friedrich Ritschl del 2 agosto 1869. 3 «Das griechische Musikdrama», in KG, in, 2, cit., p. 6. La lettera a Rohde è del gennaio

1870. In essa si possono trovare espressioni che anticipano già le risposte di Nietzsche alle cri­tiche che Wilamowitz di lì a tre anni avrebbe sollevato contro la Nascita della tragedia, dando luogo alla celebre polemica cui avrebbe partecipato, oltre allo stesso Rohde, anche, Wagner. Nietzsche insomma appare fin d'ora consapevole dell'irriducibilità delle sue ricerche all'ambi­to strettamente filologico. Non altrettanto, invece, Nietzsche sembra rendersi conto di come queste sue ricerche s'innestino nel solco della filosofia classica tedesca. Una ricostruzione in questo senso è stata tentata, tra gli altri, da Otto Kein (Das Apollinische und Dionysische bei Nietzsche und Schelling, Berlino, 1935). Kein ricorda come la problematica fatta valere da Nietzsche nella Nascita della tragedia e quindi nelle opere giovanili scaturisca dalle radici stes­se dell'idealismo: infatti, scrive Kein, non solo l'opposizione di dionisiaco e apollineo si trova già in Friedrich Schlegel, in Hegel e soprattutto in Schelling con accenti che richiamano deci­samente quelli nietzschiani, ma soprattutto è la stessa opposizione a costituire un motivo di continuità tra l'ultimo Schelling e Schopenhauer, come avrebbe notato Eduard von Hart­mann, precisamente l'autore che introdusse Nietzsche alla filosofia di Schopenhauer (cfr. op. cit., p. 12 ss.). Cfr. anche «La filosofia nell'età tragica dei Greci», in questo voi.

4 Cfr. la lettera a Rohde del 15 febbraio 1870.

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co (cui pure allude il titolo della contrastata opera del 1872), bensì sulle ra­gioni del suo tramontare.

In questione, per Nietzsche, prima ancora che la nascita, è la morte della tragedia. Lo si vede bene negli altri scritti dello stesso periodo (anch 'essi tutti pubblicati postumi, salvo appunto la Nascita della tragedia^, a comin­ciare da quello su La visione dionisiaca del mondo, di poco successivo alle due conferenze: infatti qui Nietzsche per un verso sottolinea l'intima con­traddittorietà del tragico, fino a farne un evento che si sottrae alla storia e si consegna al mito, e per l'altro proprio nel tragico scopre la misura della storia — la storia dell'occidente — cioè la decadenza come progressivo al­lontanamento da esso. Del resto, anche quando Nietzsche sembra divaga­re, come nelle Cinque prefazioni per cinque libri non scritti, è ancora il tra­gico a fare da sfondo: sia come utopia in cui la tragedia sia ancora in qual­che modo sperimentabile e riproducibile (è ciò che Wagner aspetta di sen­tirsi dire da Nietzsche), sia come irrecuperabile perdita, scarto, dismisura (è ciò che Nietzsche è impedito a dire da Wagner). In ogni caso Nietzsche tenterà una ricostruzione storica e sistematica del tragico in un 'opera {La filosofia dell'epoca tragica dei greci: il lettore può trovare quest'opera in un altro volume della stessa collezione) significativamente rimasta incom­piuta; ma sarà soltanto per via traversa, con Verità e menzogna in senso extramorale, l'ultimo degli inediti giovanili, ch'egli darà una risposta tanto sottile quanto ambigua al suo problema.

Il tragico, così come si configura nella tragedia greca, è dunque la stella polare del pensiero di Nietzsche fino alla svolta che è già in atto nelle Con­siderazioni inattuali del 1874: sia che faccia suo il punto di vista di Scho­penhauer, sia che si occupi dei presocratici (interpretando i presocratici at­traverso Schopenhauer, come quando identifica l'unità dell'essere con la «volontà»), èli, è al tragico che Nietzsche rimane ancorato. Cosa significa, allora, che nello sviluppo del suo pensiero, Nietzsche si stacchi faticosa­mente ma progressivamente da questo suo potente magnete, però per pro­clamare poi in Ecce homo d'essere lui, Nietzsche, «il primo filosofo tragi­co»5? Solo apparentemente qui si ha a che fare con qualcosa che va al di là dell'orizzonte degli scritti dedicati alla tragedia greca del periodo 1870-73. Al contrario, è proprio in questa prospettiva, dove in un certo senso il fu­turo si riflette sul passato e lo attraversa, che s'illumina magnificamente l'oscuro prodursi d'un pensiero destinato a rimanere fedele a se stesso ben oltre le note vicende della sconfessione di Wagner e di Schopenhauer.

A questo proposito, l'interpretazione con cui non si può non fare i conti è la seguente. Nietzsche incontrerebbe, nel cuore della tragedia greca, una contraddizione, della quale il tragico consisterebbe e nello stesso tempo morrebbe: la contraddizione propria d'una volontà che si afferma negan­dosi. Di qui la reazione socratica al tragico, come tentativo di sanare con la logica la contraddizione (in nome del tragico stesso, si badi, com 'è eviden­te secondo Nietzsche in Euripide), ma di qui anche l'inevitabile passaggio a un mondo che si colloca definitivamente al di là del tragico ossia il mondo che Nietzsche stesso definisce della ratio. Senonché tutto ciò è dato unica­mente sulla base della filosofia schopenhaueriana. Quindi, quel che Nietz­sche dice di sé in Ecce homo, quando ormai il fantasma di Schopenhauer si

5 «Ecce homo», in KG vi, 3, p. 310; tr. it. in F. W. Nietzsche, Opere 1882/1895, Roma, Newton Compton, 1993.

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è dissolto, sposterebbe in maniera decisiva il punto di vista e svuoterebbe di significato quelle ricerche giovanili, rendendo abbastanza improduttivo e anzi equivoco il confronto con le opere della maturità.

Però non si può fare a meno di notare una sostanziale coerenza, pur nel­l'evidente mutamento e ampliamento prospettico, tra La visione dionisiaca del mondo, che inaugura nel 1870 quella che è la nietzschiana filosofia del tragico, e Ecce homo, che la conclude nel 1888. «Prostrazione gioiosa nella polvere, calma felice nell'infelicità! Suprema espropriazione dell'uomo nella sua suprema espressione! Glorificazione e trasfigurazione di tutte le vie dell'orrore e della paura esistenziali come vie che salvano dall'esisten­za! Trionfo della volontà nella sua negazione!»6 È ciò che Nietzsche scrive nel '70, con un tono che è proprio del suo primo nichilismo ascetico. È in­vece con un tono dove il nichilismo è ormai approdato a un esito di segno contrario, che Nietzsche si esprime nell'88: «/... / "per essere noi stessi /. . . /, l'eterna gioia del divenire, quella gioia che racchiude in sé anche la gioia dell'annientare...". In questo senso ho il diritto di ritenere me stesso il pri­mo filosofo tragico /.. . /»7. Tuttavia, anche se si tratta di atteggiamenti profondamente diversi, e tali da misurare l'ampiezza della svolta compiuta da Nietzsche nell'arco di quei suoi anni tormentati, il tragico continua ad apparire un perfetto segno di contraddizione: contraddizione della volontà che si afferma negandosi nell'individuo, contraddizione del divenire che si afferma negandosi nell'essere. Fa da filo conduttore l'immagine eraclitea del divino fanciullo per cui creazione e distruzione non sono che un gioco innocente che sempre ricomincia: Nietzsche l'aveva messa al centro della sua ricostruzione del «pensiero tragico» nel '7&, e se ne appropria definiti­vamente ora, nell'88, presentando se stesso come profeta del tragico in un senso di cui quell'immagine sembra confermare la continuità di esordio ed esito.

Questo non significa che negli scritti giovanili e più precisamente nell'in­terpretazione ch'egli vi delinea della tragedia greca, Nietzsche sia già vicino all'approdo conclusivo. Si può però dire che ciò a cui quegli scritti tentano di dare una risposta resta per Nietzsche la questione decisiva. Il tragico, appunto: non importa, in fondo, che Nietzsche a partire da quella sua vio­lenta e trasgressiva irruzione nel mondo greco ne denunci l'avvenuto oltre-passamento, mentre al culmine di quella che è in un certo senso la sua pro­fetica esperienza della modernità ne annunci la comparsa. Il tragico resta per Nietzsche quel luogo in cui ciò che è perfettamente contraddittorio si rende finalmente pensabile o almeno formulabile: tant'è vero che Erlósung e Versohnung sono le nozioni che l'accompagnano — bifronti angeli del tragico — e lo spingono al limite estremo della pensabilità: in questione in­fatti è quel bisogno di redenzione che costituisce il retaggio della tradizione ebraico-cristiana e quel bisogno di conciliazione che ne rappresenta il ri­svolto metafisico, ma come interrogarsi nei termini d'una redenzione dal­l'idea stessa di redenzione e per di più fuori del cristianesimo?

Il tragico è questo nodo, questo viluppo di temi irrisolti. Ma lasciamo stare, per ora. Certo in un quadro come questo si capisce bene come ciò che è del tutto assente negli scritti giovanili — il cristianesimo, appunto — acquisti sempre maggior peso, nello sviluppo del pensiero nietzschiano, fi-

6 «Die dionysische Weltanschauung», in KG, ni, 2, p. 62 (tr. it. «La visione dionisiaca del mondo», in questo voi. p. 69).

7 «Ecce homo», in KG vi, 3, p. 310; tr. it. cit. p. 862. 8 «Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen», in KG, in, 2, p. 316 ss.; tr. it.

«La filosofia nell'età tragica dei Greci», in questo voi., p. 189.

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no a diventare il solo interlocutore, anzi, l'avversario; ma si capisce anche come la lotta di Nietzsche, fissata com 'è a categorie che ricevono forza dal loro stesso svuotamento (il tragico, ancora il tragico...), non possa evadere dall'orizzonte cristiano. Il paradosso di questi scritti, dì cui è un'assenza a indicarne la direzione e che sono tanto più significativi quanto più provvi­sori, sta tutto qui.

II.

In ogni caso gli scritti giovanili di Nietzsche, ad eccezione della Nascita della tragedia (che in un certo senso è opera meno ricca di implicazioni del­le altre cui si è fatto cenno), non hanno mai avuto molta fortuna, e questo, sostanzialmente, per due ragioni; anzitutto, in quanto condizionati da quel wagnerismo e da quello schopenhauerismo che Nietzsche stesso avrebbe poi decisamente ripudiato, e poi per il loro carattere semplicemente prepa­ratorio o tutt'al più anticipatorio. Gli autori che, a partire da Lowith (con il suo Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkunft des Gleichen, che è del 1935) e da Heidegger (le sue lezioni universitarie su Nietzsche risalgono al 1936, mentre i due volumi del Nietzsche sono stati pubblicati nel 1961 J]0

hanno profondamente rinnovato la storiografia nietzschiana, sembrano per lo più adottare una prospettiva che riduce notevolmente la portata di questi scritti. C'è accordo, infatti, nel sostenere che solo liberandosi da Schopenhauer e da Wagner Nietzsche finalmente giunge a sviluppare e a portare a compimento quei presentimenti ancora distorti e sfigurati dalla sua disperata fedeltà ai maestri. Addirittura Lowith afferma che in Nietz­sche il pensiero si dà come «destino» e perciò solo a partire dal suo compi­mento (qual è espresso dall'idea dell'«eterno ritorno dell'uguale» e quale Nietzsche vive in prima persona) si lascia interpretare: ultimo discepolo di Dioniso, dice Lowith, Nietzsche ripropone la domanda sul senso dell'esi­stenza dell'uomo nel tutto e rimane preso dentro l'inevitabile morsa che fa del profeta di un «Neuland der Seele» un uomo «im Wahnsinn gekreu-zigt»11, quasiché il movimento sia non tanto dall'uomo al superuomo, ma, viceversa, dal superuomo della metafisica all'uomo della lacerazione ap­punto dionisiaca. Anche Heidegger (il quale, com'è noto, vede in Nietz­sche l'esecutore della metafisica ma anche la sua vittima, e questo perché la «volontà di potenza» identifica l'essere con il divenire — il divenire appun­to è l'essere che è voluto da una volontà — e dunque metafisicamente iden­tifica l'essere, ne fa qualcosa che è come un ente)12, gioca tutte le sue carte sull'ultimo Nietzsche e quindi inevitabilmente trascura quegli scritti che, come soprattutto i molti sulla tragedia, a loro modo si sottraggono all'esi­to cui Nietzsche perviene con le opere degli anni più tardi.

Ma l'interprete che più recisamente ha negato qualsiasi valore agli scritti giovanili di Nietzsche è senz'altro Sestov 13. Il quale, sulla base di quel che

9 L'opera di Lowith è stata pubblicata a Berlino e ha inaugurato, come si sa, quella Nietz­sche-Renaissance che non solo ha fatto giustizia dei noti abusi e stravolgimenti storiografici di stampo nazista, ma che costituisce oggi più che mai uno dei motivi più interessanti dell'attua­le dibattito filosofico.

10 Heidegger ha tenuto le sue lezioni su Nietzsche a Friburgo, in Brisgovia, a partire dal se­mestre invernale 1936 e fino al 1940. Il Nietzsche, che riprende i temi di quelle lezioni, è stato pubblicato a Pfullingen.

" Op. cit., p. 10. 12 È questa la tesi presente anche nel saggio, contenuto in Holzwege (1950), Nietzsches

Wort «Goti ist tot». 11 Cfr. L. Sestov, La filosofia della tragedia in Dostoevskij e in Nietzsche, trad. it. di E. Lo

Gatto, Napoli, 1950.

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Nietzsche stesso afferma, non esita a fare di Nietzsche il discepolo e l'erede di Dostoevskij, cioè il continuatore di quella «filosofia della tragedia» che consiste essenzialmente, nel riconoscimento del carattere residuale del tragi­co rispetto a qualsiasi ricomposizione armonica del mondo e della sua as­soluta irriducibilità ad un'eventuale teodicea. Da questo punto di vista gli scritti giovanili di Nietzsche non rappresentano neppure una pallida prefi­gurazione di sviluppi futuri; anzi, ne costituiscono l'antitesi, fiacca ed elu­siva, dal momento che in essi «si insegna a riconciliarsi con gli orrori della vita»1*. Non stupisce quindi che Sestov arrivi a definire tutte le opere pre­cedenti Umano, troppo umano come «romanticismo della più pura acqua, cioè un più o meno specioso gioco con immagini poetiche e concetti filoso­fici già pronti»15. (Paradossalmente, però, è proprio Sestov a offrire alcuni degli spunti più efficaci per una rivalutazione di quelle opere: infatti, die­tro Sestov, non è più possibile interpretare la relazione posta dall'ultimo Nietzsche tra volontà di potenza ed eterno ritorno in termini di semplice rovesciamento del tragico, dal momento che interno al tragico, e dunque in qualche modo legato alla sua prima formulazione, rimane il rovesciamento stesso o meglio quella «redenzione» in cui la volontà si appropria, volen­dolo come suo, del tempo e quindi tutto ciò — Nietzsche ne parla come dell'«orrore dell'esistenza» — che in esso si consuma.)

Un certo mutamento di prospettiva s'incontra, a questo proposito, in Deleuze16. È vero che secondo Deleuze il tragico in Nietzsche, così come viene alla luce negli scritti che mettono capo alla Nascita della tragedia, è ancora pensato attraverso le stesse categorie — quella di «giustificazione», per esempio — di cui viene proposto un superamento. Tuttavia Deleuze ve­de già in quegli scritti un 'implicita critica della dialettica, per un verso, e del cristianesimo, per l'altro, la quale applicata al problema del tragico si­gnifica disvelamento nella tragicità di quella «forma estetica della gioia» che è al di là sia della dialettica e del suo modo di intendere il negativo sia del cristianesimo e della metafisica cui esso resterebbe legato11. È questa la scoperta che fa del filologo già il precursore d'un pensiero in cui il tragico si manifesta sempre come altro da sé: come gioia, appunto, come riconci­liazione, o, meglio, come fonte di piacere. Il tragico, dunque, è questo non essere mai identico con sé, è questa negazione stessa dell'identità: il tragico è differenza. Anzi, meglio, la «differenza» è ciò che scaturisce dal tragico. Da questo punto di vista, secondo Deleuze, quell'affermazione della diffe­renza in cui il pensiero di Nietzsche culmina e si riassume, ne è anche il filo rosso: giacché sempre si tratta di sostituire il no dialettico con il sì al molte­plice, al disperso, all'irriducibile, alla totalità, e a questo compito Nietz­sche si dedica ininterrottamente a partire dalla sua interpretazione della tragedia greca. Non importa che questa interpretazione si svolga, come di­ce Deleuze, ancora all'ombra del cristianesimo (Nietzsche è ben lontano dall'ammetterlo; ma con lucida consapevolezza più tardi accomunerà il cristianesimo e Schopenhauer) e di Schopenhauer, fondata com 'è sulle no­zioni di «compassione» e di «ascesi»18: di fatto Nietzsche si è già posto nel­la prospettiva in cui non è tanto il male uno scandalo per la vita che alla vi­ta chiede di essere giustificato, bensì la vita una giustificazione per il male e

14 Op.cit.,p. 146. 15 Op. cit., p. 143. " Cfr. G. Deleuze, Nietzsche, Parigi, 1962. 17 Op. cit.,p. 19. 18 Op. cit.,j>. 13.

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per il dolore. Il patire, insomma, e quindi anche la compassione e l'ascesi, nascono dal tragico e sono già un suo frutto gioioso, dionisiaco, affermati­vo nella diversità. Del resto, le sofferenze di Dioniso sono appunto il solo soggetto della tragedia, e lo sono nel senso del loro essere altre, diverse, ro­vesciate nel piacere della differenza. Ebbene: «La tragedia è questa riconci­liazione»19.

A questo punto, però, sembra che la differenza non possa non diventare indifferenza, riconfermando sul piano della conciliata totalità dell'essere quella stessa identità che, sul piano della frantumazione e della lacerazione e insomma della sofferenza di Dioniso, aveva negato. Quale differenza, in­fatti, se tutto ciò che è scarto, negazione, alterità è già da sempre riconci­liato, giustificato, riscattato? Dove e come riconoscere, ancora, l'elemento discriminante, quello per cui lo scarto è scarto, la negazione è negazione, l'alterità è alterità, ossia {'«orrore» in quanto tale? E non è questa, precisa­mente, la condizione del tragico? Si riesce forse meglio a tener conto di queste difficoltà, quando si osservi che in Nietzsche il tragico è momento destinato a tramontare per dar luogo altrove e altrimenti alla soluzione del­le contraddizioni che gli sono proprie, oppure quando si rilevi nel pensiero nietzschiano la sostanziale continuità del tragico ma sotto il segno d'un 'al­trettanto sostanziale contraddittorietà. Si tratta, rispettivamente, delle tesi sostenute in proposito da Gianni Vattimo20 e da Ferruccio Masini21.

Secondo Vattimo l'interpretazione che Nietzsche dà della tragedia greca fa del tragico la dimensione in cui le convenzioni e cioè sia i canoni logico-linguistici sia i ruoli sociali sono bensì sospesi, ma presupposti, tanto da ri­sultarne confermati. Questa concezione del tragico o meglio della «civiltà tragica», dice Vattimo, lascia lo stesso Nietzsche insoddisfatto. «L'età tra­gica sembra essere un momento di passaggio, difficile da isolare, che non può non dar luogo alla formazione di una cultura non tragica22.» Secondo Masini, invece, il tragico come «nota dominante», «cellula germinale», «base ermeneutica» che Nietzsche ricava negli anni giovanili dalla sua rico­struzione del mondo greco, accompagna tutto lo sviluppo del pensiero nietzschiano: «Nel tragico sarebbe da vedersi dunque una preformazione di quella "magia degli estremi" a cui si riconduce il movimento trascenden-te-rovesciante della filosofia nietzschiana»23. È il tragico, insomma, il «fuoco centrale» da cui Nietzsche irradia quelle forze centrifughe, dislo­canti, trasgressive in cui si risolve il suo pensiero: l'eccesso (sia nel senso della hybris dionisiaca sia nel senso dell'Ubermuth di Zarathustra), la di­struzione d'ogni ordinamento morale o cosmologico, il nichilismo come consumazione di Dio e nello stesso tempo come sovrabbondanza ludica del divino24.

Eppure queste osservazioni di Vattimo e di Masini (le quali, com 'è appe­na il caso di dire, s'inseriscono in un quadro interpretativo ben più vasto e complesso di quel che si possa mostrare qui) non sono contrastanti, ma mettono l'accento sulla prof onda ambiguità del pensiero nietzschiano circa il tragico. È vero infatti che Nietzsche si lascia presto alle spalle il labirinto del tragico (di cui gli scritti postumi sul mondo greco indicano i percorsi,

" Ibidem. 20 Cfr. G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Mi­

lano, 1974, 19782. 21 Cfr. F. Masini, Lo scriba del caos. Interpretazione di Nietzsche, Bologna, 1978. 22 G. Vattimo, op. cit., p. 48. 23 F. Masini, op. cit., p. 93. 24 Op. cit., pp. 103-4.

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mentre la Nascita della tragedia non rappresenta che un'illusoria via d'uscita), alla ricerca d'una soluzione non meramente estetica del proble­ma della maschera, della decadenza, e così via. È anche vero, però, che questo oltrepassamentò del tragico va nella direzione del tragico stesso, co­me Nietzsche ammetterà senza nessuna esitazione. Il tragico, e Nietzsche lo vede bene, è in se stesso contraddittorio: sospendendo i vincoli che costi­tuiscono la trama del mondo, esso in realtà li rafforza, così come negando la volontà, di fatto l'afferma. Ma non basta a Nietzsche, per uscire da que­sto vicolo cieco, liberarsi della tutela di Schopenhauer e di Wagner. Anche quando la maschera gli apparirà non solo come il luogo d'un equilibrio che si dà unicamente sul piano della rappresentazione, e quando la decadenza avrà per lui piuttosto il significato d'una emancipazione dalla metafisica che quello d'una progressiva dissoluzione razionalistica, sarà ancora alla luce del tragico ch 'egli spingerà il suo pensiero al ritrovamento delle stesse figure che gli si erano svelate nella tragedia: Dioniso che soffre e soffrendo danza, in particolare.

Dioniso che danza sull'abisso del male (o meglio, sull'abisso dell'orribile e dello spaventoso) e che dunque del male fa non tanto l'oggetto d'un ri­sentimento verso la vita bensì il principio stesso d'una sua estatica accetta­zione, come si sa, è la risposta di Nietzsche al cristianesimo. Risposta, que­sta, che non solo, come lo stesso Nietzsche afferma, denuncia la sua appar­tenenza al tragico e dunque il suo originario legame con il tragico così co-m'è stato pensato a partire dal mondo greco, ma che, nel contesto della po­lemica anticristiana in cui si inserisce, svela del tragico tutta l'ambiguità.

Che la danza di Dioniso sia un fatto esprimibile soltanto attraverso il tragico, e che il tragico a sua volta mostri la sua parentela con ciò che Nietzsche aveva scoperto nella natura stessa della tragedia, è abbastanza evidente: questa danza è tragica perché in essa l'abisso dell'orribile e dello spaventoso accoglie gioiosamente l'esistenza e la sprigiona liberata, tanto che il male si rovescia in benedizione, esultanza, sentimento panico. Affin­ché ciò potesse finalmente presentarsi al pensiero, è stato necessario secon­do Nietzsche non soltanto distruggere i valori (operazione, questa, di per sé ancora legata alla morale cristiana), ma superare le categorie entro cui i valori si producono e su cui il cristianesimo si fonda: cioè, le categorie di giustificazione, pietà, riscatto. Ma il redimere l'uomo da queste categorie, non è ancora un far valere — e nella forma più estrema — il bisogno di re­denzione? In altri termini: la lotta che Nietzsche ingaggia contro il cristia­nesimo, non resta all'interno d'un orizzonte cristiano?

L'ambiguità del tragico, dunque, va oltre le contraddizioni di cui esso consiste. In definitiva queste contraddizioni — la volontà che si afferma negandosi, soprattutto — sono proprie del modo di concepire il tragico sulla base della tragedia greca, come negli scritti giovanili, oppure tendono sempre più a diventare tratti d'un pensiero che vive di esse come dei princi­pi dell'infinito trasgredire, rovesciare, scomporre. Al contrario l'ambiguità del tragico è propria dell'intero arco del pensiero nietzschiano e ne rappre­senta forse la pietra d'inciampo: l'attesta, negli scritti che immediatamente precedono e immediatamente seguono la Nascita della tragedia (appunto gli scritti qui presentati) ciò che in questi scritti manca e tuttavia è tra le ri­ghe ossia la presa di posizione nei confronti del cristianesimo, mentre è precisamente questa presa di posizione a riflettersi retroattivamente su di essi e a chiarirne il significato. In questo senso, quindi, si ha a che fare con testi che non possono non essere letti se non in proiezione futura.

Ma proprio questa particolare situazione ermeneutica li espone a una

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sorta di radiografia rivelatrice: in essi infatti è riconoscibile al suo stato na­scente ciò su cui Nietzsche non potrà infine pronunciarsi se non con la con­traddittoria o meglio ambigua espressione del «Dioniso crocifisso»25.

Se le cose stanno così, una lettura degli scritti giovanili di Nietzsche po­trà andare al di là dei confini che finora gli interpreti hanno assegnato ad essi. Non c'è niente di nuovo da scoprire, naturalmente; ma, forse, non è del tutto campata in aria l'ipotesi interpretativa che se ne può ricavare. È in questo quadro che s'inserisce la breve ricapitolazione tematica che se­gue.

III.

«Ciò che noi oggi chiamiamo l'opera., la parodia dell'antico dramma musicale, è venuto fuori da una diretta scimmiottatura dell'antichità: sen­za la forza inconscia di un impulso naturale, costruita sulla base di una teoria astratta, essa ha assunto la parte dell'homunculus prodotto artifi­cialmente, quasi fosse il cattivo coboldo del nostro sviluppo musicale26.» Quest'affermazione, che si trova all'inizio della prima delle due citate con­ferenze sulla tragedia greca, assume particolare rilievo se si pensa a quel eh 'essa implica: anzitutto, che l'opera in quanto parodia della tragedia ne è anche l'esito, quale si dà nell'orizzonte della modernità, tanto che la mo­dernità non può non essere commisurata a ciò di cui è parodia; in secondo luogo che la possibilità di ritrovare e riprodurre la tragedia nel mondo mo­derno è del tutto chimerica e condannata al fallimento. Certo, Nietzsche allude poco dopo a «quando in un'ora di potente fantasia noi portiamo di­nanzi alla nostra anima l'opera idealizzata tanto che finalmente ci si schiu­de l'intuizione dell'antico dramma musicale»27; ma questo sembra piuttosto confermare, anziché contraddire, la separazione di modernità e mondo greco.

Di questo mondo, l'elemento costitutivo è il tragico. Nietzsche ne descri­ve l'origine a partire dal culto in onore di Dioniso, ed è in questa dimensio­ne religiosa che il tragico si dà a conoscere come affermazione — Nietzsche lo dice espressamente qualche pagina più in là — del primato del patire sul-l'agire28. «Nulla di sfrenato o di licenzioso, in queste folle che correvano per i campi e i boschi con selvaggio tumulto, ai primordi del dramma, con costumi da Satiro e da Sileno, i volti coperti di fuliggine, di minio e succhi vegetali, con corone di fiori intorno al capo: l'azione potente della prima­vera manifestandosi di colpo conduce le forze vitali a un tale eccesso che ovunque si danno stati di estasi e visioni insieme con la fede in un proprio incantesimo, e creature che sentono allo stesso modo si aggirano a schiere per tutta la regione. Ed è qui la culla del dramma. Il quale non incomincia là dove qualcuno si traveste per far nascere in altri un'illusione: no, ma piuttosto là dove l'uomo è fuori di sé e si crede trasformato e oggetto d'in­cantesimo. Nello stato dell'essere fuori di sé, per l'estasi non è necessario che un passo: sì tratta non già di ritornare in noi stessi, ma piuttosto dì en­trare in un altro essere, così da comportarsi da creature fatate. Perciò sta tutta qui la ragione fondamentale dello stupore che il dramma suscita: il terreno vacilla, così come la fede nella indissolubilità e nella fissità dell'in­dividuo29.» Primato del patire sull 'agire significa, in questo lungo passo,

25 L'espressione si trova, a modo di firma, in una lettera del gennaio 1889. 26 «Das griechische Musikdrama», in KG, ni, 2, p. 6 (tr. it. «Prima conferenza: il dramma

musicale greco», in questo voi. p. 41). v Op. cit., p. 7 (cfr. in questo voi. p. 42). 28 Op. cit., p. 18: «Der Accent auf dem Erleiden, nicht auf dem Handeln ruht» (cfr. in que­

sto voi. p. 47). 29 Op. cit., pp. 11-12 (cfr. in questo voi. p. 44).

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INTRODUZIONE DI SERGIO GIVONE 33

irruzione di forze ctonie che annichiliscono il principio d'identità e di indi­viduazione, non però nel senso dello scambio con un principio di segno contrario, che appunto in quanto principio rappresenterebbe pur sempre l'ìmporsi d'una soggettività, d'un'attività, d'un'azione. Le forze che ir­rompono nell'individuo, lo spogliano di ciò che lo vincola all'identità e lo conducono alla soglia di ciò che qui Nietzsche chiama «estasi», sono piut­tosto comprensibili in termini di passione. Tant'è vero che l'essere fuori di sé sembra riflettersi in sé, e accogliere docilmente l'eccesso fino a piegarlo alla gentilezza (in senso letterale), a un modo non aggressivo — che si sot­trae alla volontà di dominio, per così dire — di volgersi alle cose, addirittu­ra forse già alla compassione.

«Nulla di sfrenato o di licenzioso», avverte Nietzsche, il quale appunto parla d'«incantesimo», di «visione», di «stupore». Tutto ciò, evidente­mente, designa anche il fatto che in questa primitiva esperienza del tragico non vale più la distinzione di realtà e apparenza, così come quella di sog­getto e oggetto; occorre però ricordare con Nietzsche che, appunto, «l'ac­cento è posto sul patire» .

Ed è in un certo senso l'insostenibilità d'un modo d'essere che è passione piuttosto che azione a decretare il declino di ciò che s'era annunciato nel culto dionisiaco componendosi poi nella figura della tragedia.

Già in Eschilo e in Sofocle, a dir il vero — subito, dunque, quasi che la cosa fosse propria della natura della tragedia, più che del suo evolversi sto­rico — la passione e quindi la compassione si danno in maniera imperfetta. Ciò accade in quanto il racconto esposto dal mito tende inevitabilmente a imporsi allo spettatore nello stesso tempo richiedendo a lui attenzione vigi­le e cosciente, e lo sottrae quindi all'esser fuori di sé, all'incanto e alla fra­gilità della spoliazione dell'io. Lo spettatore è messo di fronte a fatti dei quali deve rendersi conto, spiegarsi il nesso causale, dar ragione. Ma que­sta è una «smagliatura», un «anello mancante» che impedisce appunto allo spettatore di «calarsi» nell'evento rappresentato e dunque di «compatire» pienamente i protagonisti di quell'evento31.

Eschilo e Sofocle si accorgono dell'equivoco e usano tutti gli artifici del caso (per esempio, dar subito in mano allo spettatore, come dice Nietz­sche, tutti i fili necessari per la comprensione della vicenda) ma l'equivoco resta. Incombe cioè allo spettatore una sorta di obbligo a giudicare ciò che si presenta di fatto come al di là del giudìzio.

Euripide scioglie decisamente questo nodo impugnando uno dei due cor­ni del dilemma: se lo spettatore ha a che fare con qualcosa di cui deve ren­dersi conto, ebbene, questo qualcosa sia giudicato, sottomesso al vaglio della ragione, conosciuto con chiarezza. E così, evidentemente, la poetica di Euripide — tutta ispirata a Socrate e al suo razionalismo, ma anche a sua volta ispiratrice di quello — ripropone precisamente ciò che nel tragico sembrava essersi dissolto: non solo, cioè, la distinzione di soggetto giudi­cante e oggetto giudicato, così come quella analoga di realtà (dove le azioni sono imputabili in quanto se ne conosce il responsabile) e apparenza (dove è l'ignoranza a gettare sulle cose il velo d'un destino oscuro e impenetrabi­le), ma soprattutto il primato dell'agire come primato, appunto, della re­sponsabilità sul destino, ossia, in termini socratici, della coscienza. La poe­tica di Euripide, insomma, sancisce la morte della tragedia. E con la trage­dia muore definitivamente quella possibilità di rovesciare l'azione nella passione — e di sovvertire quindi quella struttura in cui l'esistenza non può

30 Op. cit., p. 18 (cfr. in questo voi. p. 47). 31 «Socrates una die Tragèdie», in KG, ili, 2, pp. 30-1 (tr. it. «Seconda conferenza: Socrate

e la tragedia», p. 53).

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34 VERITÀ E MENZOGNA

non essere pensata alla luce dell'individuazione, quindi dell'imposizione di sé e del dominio — che s'era appena annunciata nella tragedia stessa. «So­crate, fa' della musica», comanda il dio a Socrate32.

Ma non si tratta che di un estremo contrappasso. In realtà la tragedia muore di una morte tragica: e questo nel senso della scomposizione della solidarietà di Apollo e Dioniso, cioè, per rimanere nell'ambito dello stesso linguaggio mitico cui Nietzsche ricorre, dell'annichilimento della salvezza portata alla luce dalla tenebrosa profondità della terra. La tragedia muore, dice Nietzsche, non per rinascere o almeno lasciando dei frutti: solo «un grande vuoto, profondamente sentito da tutti» è ciò che resta33.

La salvezza che la tragedia era venuta a portare stava tutta nella «messa in scena» e cioè nel rapporto che lega il «patire» e la sua rappresentazione. «La conoscenza degli orrori e delle assurdità dell'esistenza, dell'ordine di-storto e della disposizione irragionevole di tutte le cose, in generale dello smisurato patire in tutta la natura, aveva svelato le figure così occultate ad arte di Moira e delle Erinni, di Medusa e di Gorgona: gli dèi olimpici ven­nero a trovarsi nel più grande pericolo 34.» Ciò che salva gli dèi olimpici dal pericolo che sta per travolgerli insieme con la possibilità, da loro stessi ga­rantita, di sopravvivere al caos e anzi come dice Nietzsche di convincerci, è la scoperta che il caos messo in scena diventa fonte di piacere e addirittura suscita il più divino e il più inattaccabile dei sorrisi.

Ecco perché il tragico appare tutt'uno con il comico e Dioniso, il dio del­la tragedia, svela una natura ancipite, non appena la sua passione — nella tragedia, appunto — è rappresentata. È nella tragedia che gli dèi olimpici sono salvati, in quanto «immersi nel mare del sublime e del comico»35. Li salva la passione di Dioniso, che ricapitola lo «smisurato patire in tutta la natura» e ne libera la potenza di trasformazione: e questo non nel senso del suo oltrepassamento, bensì in quello del suo lasciarlo essere e consumarsi, nella compassione, nella pietà, nell'infinita nostalgia per il perduto. È allo­ra che «emerge quella che è tendenza sentimentale del volare, un "sospirare della creatura" per il perduto: è dal piacere più alto che si sprigiona il grido dell'orrore, il lamento pieno di nostalgia per una perdita irreparabile. L'e­suberante natura celebra i suoi Saturnali e nello stesso tempo la sua sagra di morte. Le emozioni dei suoi sacerdoti sono meravigliosamente mischia­te, dolore suscita gioia, mentre il giubilo strappa dal petto accenti pieni di affanno. Il dio, o lùsios, tutto libera da sé; tutto trasforma»36.

A partire di qui — e Nietzsche non esita a riconoscerlo — il tragico si ri­vela nella sua perfetta contraddittorietà. «Devozione, straordinaria ma­schera dell'impulso vitale! Abbandono a un compiuto mondo di sogno, che conferirà la più elevata sapienza etica! Evasione dalla verità, per poter­la adorare dì lontano, nascosta nelle nuvole! Conciliazione con la realtà, in quanto enigmatica! Rifiuto dello scioglimento degli enigmi, visto che non siamo dèi! Prostrazione gioiosa nella polvere, calma felice nell'infelicità! Suprema espropriazione dell'uomo nella sua suprema espressione! Glorifi­cazione e trasfigurazione di tutte le vie dell'orrore e della paura esistenziali come vie che salvano dall'esistenza! Trionfo della volontà nella sua nega­zione!31»

32 Op. cit., p. 36 (cfr. in questo voi. p. 56). " Op. cit., p. 25 (cfr. in questo voi. p. 50). 34 «Die dionysische Weltanschauung», in KG, ni, 2, p. 60 (tr. it. «La visione dionisiaca del

mondo», in questo voi., p. 68). 35 Ibidem. 36 Op. cit., p. 50 (cfr. in questo voi. p. 62). 37 Op. CÌt., p. 62 (cfr. in questo voi. p. 69).

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INTRODUZIONE DI SERGIO GIVONE 35

La contraddittorietà del tragico è però insostenibile. Nietzsche ribadisce qui, in questo saggio su La visione dionisiaca del mondo, ciò che pochi me­si prima aveva sostenuto nelle due conferenze sulla tragedia: già in Eschilo e già in Sofocle secondo lui s'intravedono i germi di quella tentazione ra­zionalistica che Euripide accoglierà trovandovi in definitiva l'unica rispo­sta possibile all'insostenibilità di ciò di cui il tragico consiste. Ed ecco Eschilo appellarsi alla nascosta giustizia che presiede l'ordine del mondo, ecco Sofocle decretarne l'impenetrabilità ma con reverenza e devozione. Il «brivido sublime» che attraversa l'opera di Eschilo e di Sofocle come do­manda ultima sulla giustizia è lo stesso che porta Euripide a porre il pro­blema della giustificazione3*.

Che la contraddittorietà del tragico sia insostenibile, è cosa che tocca il tragico alle radici, e non riguarda semplicemente il fatto che Nietzsche con­tinui a pensarlo, in questo primo scorcio degli anni '70, sulla base della fi­losofia Schopenhauerlana. È vero che Nietzsche cercherà una via d'uscita appunto ripudiando Schopenhauer; di fatto, però, egli non farà che radi-calizzare sempre più la questione. Lo attesta già l'affermazione contenuta in questi scritti giovanili, secondo cui la tragedia muore d'una morte tragi­ca, cioè d'un venir meno e d'un definitivo esaurirsi di quella possibilità di redenzione che in essa si era affacciata: quasi che con ciò Nietzsche voglia alludere, pensando al declino dell'occidente come consumazione del tragi­co, all'impossibilità dell'oltrepassamento dell'orizzonte che di fatto va sempre più contraendosi e svuotandosi fino a spegnersi: tant'è vero che questo contrarsi e svuotarsi è un fatto che appartiene al tragico, ossia ap­partiene ancora — e solo in quest'appartenenza è pensabile e sperimentabi­le — a ciò che non è già più. Non a caso dopo che Nietzsche si sarà lasciato alle spalle Schopenhauer, ormai da molti anni, e quando la figura di Dioni­so esprimerà non più la volontà che schopenhauerianamente si afferma ne­gandosi, bensì la volontà che dice sì al negativo e lo ama, ciò accadrà preci­samente, come Nietzsche suggerisce in modo molto perentorio, nell'ambi­to del tragico e cioè in un ambito dove si ha a che fare non tanto con una rinnovata metafisica dell'identità, della fattualità, della brutalità (della brutale adeguazione d'un principio gnoseologico e pratico all'esistente), bensì, proprio al contrario, della contrapposizione di metafisica e tragedia e quindi di identità e differenza, fattualità e rovesciamento, brutalità e compassione. Da una parte, insomma, la pretesa di ricondurre il moltepli­ce, di per sé contraddittorio, ad un principio unificante, sistematizzante, totalizzante, dall'altra invece il tentativo di pensare e anzi di sperimentare la contraddittorietà in quanto tale39: ma fino a che punto è sostenibile un pensiero — appunto il pensiero in lotta con la metafìsica a partire da una mai totalmente sconfessata interpretazione della tragedia, di là dall'esteti­smo che in questa interpretazione sembra implicito a misura che l'arte è in­vestita della capacità di riscattare il disgusto dell'esistenza attraverso im-

38 Op. cit., p. 61 ss (cfr. in questo voi. pp. 68 ss.). 39 Scrive F. Masini (in op. cit., pp. 114-6): «[...] In Nietzsche dialettica è semmai soltanto

la coscienza della contraddizione, sempreché questa venga trasferita nell'ottica dell'uomo "tragico" che non può vivere fuori della contraddizione [...]. La scissione è perciò, più preci­samente, una "lacerazione" "sopportata" dalP"uomo tragico"[...]. L'ottica del filosofo di­venta l'articolazione interna di una "filosofia sperimentale" che include non solo la potenzia­lità della credenza, ma anche e soprattutto l'istinto del dubbio, della negazione, dell'attesa, del disgregare, e mette questi istinti "malvagi" al servizio della conoscenza, cioè del progredi­re di una scepsi alimentata dalla contraddizione [...]».

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maginì di sogno — che contesta il principio di non contraddizione e affer­ma il primato del patire? La danza infinitamente gioiosa di Dioniso è, an­che e soprattutto, una danza di morte: lo è negli scritti giovanili pubblicati postumi, e lo è negli ultimi frammenti e nelle ultime lettere 40. In quelli Dio­niso il liberatore libera dall'orrore dell'esistenza quando viene «messo in scena», in questi lo esalta nel momento in cui è «messo in croce». La con­traddittorietà del tragico affonda qui nell'ambiguità, ma un'ambiguità ri­velatrice.

In questa prospettiva (che implica, come già si è sottolineato più volte, una vera e propria inversione, dal futuro al passato), l'ultimo degli scritti giovanili di Nietzsche pubblicati postumi, quello su Verità e menzogna in senso extramorale, è davvero emblematico. Dovendogli trovare una collo­cazione, si può dire eh 'esso s'innesta nell'ambito della scoperta, cui Nietz­sche perviene con la sua interpretazione della tragedia, che il tragico è mor­to e tuttavia non si può non pensare alla luce del tragico. Di qui la speciale forma di nichilismo emergente da questo scritto, che pare già mettere in questione la sempre più invadente amicizia di Wagner e la già non più pres­sante influenza di Schopenhauer. Infatti Nietzsche, per un verso, ha la consapevolezza di scrivere in un 'epoca che la fine della tragedia ha definiti­vamente consegnato al «razionalismo» (quale possibilità allora, di rinno­vare l'arte tragica secondo la grande illusione wagneriana che di lì a poco Nietzsche farà sua con ben maggiore entusiasmo di quel che non appaia negli scritti del periodo 1870-73, compresa la Nascita della tragedia, forse il più equivoco di essi?), per l'altro tenta per la prima volta di rivalutare l'«arte della simulazione» e quindi (contro l'imperativo schopenhaueriano) il mondo dell'apparenza, della superficie, della molteplicità.

Questo scritto comincia con toni che ricordano quasi un archetipo lette­rario, eppure anticipano figure e nozioni (quella di «favola», per esempio) che Nietzsche svilupperà successivamente. «In un angolo remoto dell'uni­verso che fiammeggia e si estende in infiniti sistemi solari, c'era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la cono­scenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della "storia universale": e tuttavia non si trattò che di un minuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigidì, e gli animali intelligenti dovettero morire. Ec­co una favola che qualcuno potrebbe inventare, senza aver però ancora il­lustrato adeguatamente in che modo penoso, umbratile, fugace, in che mo­do insensato e arbitrario si sia atteggiato l'intelletto nella natura: ci sono state delle eternità, in cui esso non era, e quando nuovamente non sarà più, non sarà successo niente 41.» Ecco la favola che questo mondo, così solido e reale, è destinato a diventare; ma allora si capisce come su questa base l'at­tività dell'intelletto, per quanto corrisponda al bisogno di conservazione (visto che l'uomo non può lottare per l'esistenza «con le corna e con i mor­si», a lui non resta che disciplinare e dominare per mezzo di un fittizio or­dine concettuale il caos che incombe) appaia del tutto futile e vana. L'arte della simulazione, a questo punto, sembra pura negatività: essa definisce «l'ingannare, l'adulare, il mentire, e il fingere»42.

40 Esordio ed esito della filosofia nietzschiana sembrano dunque incontrarsi nella nozione di «tragico», come molto opportunamente e acutamente Masini ha messo in luce (cfr. op. cit., p. 93 ss.)-

41 «Uber Wahrheit und Luge im aussermoralischen Sinne», in KG, m, 2, p. 369 (tr. it. «Su verità e menzogna in senso extramorale», in questo voi., p. 93).

42 Op. cit., p. 370 (cfr. in questo voi. p. 93).

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INTRODUZIONE DI SERGIO GIVONE 37

Ma non si tratta solo di questo. Per intanto, la simulazione fa sì che il mondo dell'uomo possa diventare umano e almeno si temperi e si circoscri­va la ferocia del bellum omnium contra omnes: simulare significa infatti accettare le convenzioni (linguistiche e sociali) e quindi stipulare un patto. E se la verità è in questo modo ridotta all'uomo, l'uomo però a suo modo si consegna alla verità. Ecco il punto: ciò che prima si poneva solo in ter­mini di menzogna, ora designa positivamente il mondo dell'uomo. Positi­vità relativa, questa, nel senso che piega l'uomo alla legge e, se per un ver­so ne esalta il valore sul piano etico, per l'altro ne impoverisce e svilisce l'e­sistenza: «Insieme con il sentimento d'essere obbligato a designare una co­sa come rossa, una seconda come fredda e una terza come muta, sorge in lui un impulso morale che ha per scopo la verità: per contrasto con il men­titore, cui nessuno crede e che tutti escludono, l'uomo si convince della di­gnità, della fidatezza e dell'utilità della verità. Egli pone ora il suo agire, in quanto essere razionale, sotto il dominio delle astrazioni: egli non sopporta più di lasciarsi trascinare dalle impressioni subitanee e dalle intuizioni, egli anzitutto generalizza queste impressioni in concetti tiepidi e incolori, per legare ad essi il carro della sua vita e del suo agire»41. Eppure proprio qui, in questo formarsi del linguaggio per effetto della simulazione, l'intelletto incontra la possibilità di liberarsi dalla sua «servitù». Il fatto è che il piace­re di simulare libera dai codici che la simulazione stessa impone e scopre la potenza mitopoietica del linguaggio, la sua infinita e fluente produttività, il darsi del mondo — il mondo della differenza, come giustamente da più parti si è voluto chiamarlo — in modo «variopinto, irregolare, privo di conseguenze, incoerente, esaltante ed eternamente nuovo come nei so­gni»44. «L'uomo /... /è come rapito dalla felicità quando il rapsodo gli racconta per vere delle leggende epiche o quando l'attore a teatro fa la par­te del re più regalmente che nella realtà. L'intelletto, quel maestro della si­mulazione, è lìbero e sollevato da quello che invece è il suo ufficio di schia­vo, finché può ingannare senza far danno, e così celebra i suoi Saturnali; mai esso è più eccitato, più ricco, più orgoglioso, più agile, più audace. Con piacere temerario esso scompiglia le metafore e smuove le pietre milia­ri dell'astrazione /... /. Quella smisurata struttura concettuale appiglian­dosi alla quale quel miserabile che è l'uomo si salva durante la sua vita, è per l'intelletto liberato nient'altro che un sostegno o un giocattolo per le sue temerarie attività artistiche: e quando esso distrugge queste cose, le scompagina e poi con ironia le rimette insieme, accoppiando le cose più estranee e separando così le più affini, allora è chiaro ch 'esso non ha più bisogno di quei sotterfugi della miseria e non è più guidato da concetti ben­sì da intuizioni45.» Così, «quel miserabile che è l'uomo» diventa un «eroe traboccante di gioia»46.

Nietzsche rovescia così il suo punto di partenza: questo assurdo spasimo della natura che è il mondo perfettamente svuotato di senso (anche Scho­penhauer sembra già lontano: non si vede infatti come ricondurre l'espe-

43 Op. cit., p. 375 (cfr. in questo voi. p. 96). 44 Op. cit., p. 381 (cfr. in questo voi. p. 99). A proposito della nozione di «differenza», è

appena il caso di ricordare quale fortuna essa abbia avuto presso gli interpreti francesi di Nietzsche, in particolare Derrida e Deleuze. Non a caso, cioè a partire da una lunga e appas­sionata frequentazione del pensiero nietzschiano, la stessa nozione è stata recentemente messa al centro della sua riflessione da Vattimo (cfr. Le avventure della differenza, Milano, 1980, soprattutto la sezione terza).

45 «Uber Wahrheit und Liige im aussermoralischen Sinne», in KG, m, 2, p. 382 (cfr. in questo voi. p. 100).

46 Op cit., p. 383 (cfr. in questo voi. p. 100).

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rienza a un principio unificante) diventa teatro dove il senso — pieno e adeguato alla polimorficità, alla contraddittorietà, alla molteplicità dell'e­sperienza — è finalmente possìbile. La perdita del fondamento e del cen­tro, infatti, la consapevolezza che la verità non appartiene a un ordine me­tafìsico, la scoperta del carattere fittizio, convenzionale, artificioso del lin­guaggio e di tutto ciò che accade in esso, trasformano il mondo in una libe­ra invenzione al di là di qualsiasi fondamento e dì qualsiasi centro, al di là di qualsiasi ordine metafisico. C'è già ebbrezza ed estasi, insomma, nella vertigine nichilistica; c'è gioia infinita nella perfetta disperazione, c'è vio­lenza creativa e prometeica nella malinconia: se il mondo è un astro insi­gnificante nello spazio, e questo è dicibile ossia perviene al linguaggio, gli opposti tendono la corda che li unisce tragicamente ed è già musica dioni­siaca quella che ne esce.

Dunque, Nietzsche trova qui il suo punto d'appoggio — e quanto vi farà leva è appena il caso di dire — osando il più radicale rovesciamento del ni­chilismo. D'ora in avanti tutto ciò che sta prima del rovesciamento — il ni­chilismo, appunto, in tutte le sue manifestazioni — sarà imputato soprat­tutto al cristianesimo. Nostalgia d'un senso ultimo, disprezzo e risentimen­to per un mondo che non è come dovrebbe essere, bisogno di giustificazio­ne: ecco il retaggio che secondo Nietzsche il cristianesimo ha lasciato e che il vangelo dell'anticristo viene a dissolvere.

Eppure il rovesciamento del nichilismo e quindi del cristianesimo è pen­sato da Nietzsche all'interno d'un estremo orizzonte cristiano*47. Lo dimo­stra proprio il tragico, cioè una nozione che attraversa tutto il pensiero di Nietzsche e designa sia l'acristianesimo dei primi anni sia l"anticristianesi­mo dell'ultimo periodo. Appartiene al tragico, infatti, la passione di Dio­niso, quella che fa di lui un redentore e come tale ne consegna la figura alle opere dedicate all'interpretazione della tragedia così come a quelle dedicate ai grandi temi della maturità. Il movimento è sempre lo stesso e consiste es­senzialmente nel rovesciare gli opposti: per esempio il nichilismo nel senti­mento panico ed estatico come nello scritto su Verità e menzogna in senso extramorale, che perciò assume un'importanza centrale. (Se una continuità è riconoscibile nel pensiero di Nietzsche, la si trova proprio qui, dove più evidente è la svolta.) Ma il movimento, il rovesciamento, è anzitutto rove­sciamento della passione nella redenzione. Dunque, ciò che Verità e men­zogna lascia emergere, è quanto già gli scritti giovanili contengono, pur dandone una versione inficiata da una notevole dose di estetismo, ed è quanto gli scritti più maturi porteranno all'estremo, fino all'insostenibili­tà: giacché non può non rivelarsi alla fine insostenibile un tale pensiero, se riportato al proprio orizzonte, come Nietzsche appunto fa.

Ciò accade nel momento in cui (al culmine della modernità, secondo Nietzsche, come piena consumazione del mondo greco) si affaccia al pen-

47 Questo non significa, naturalmente, che il contrasto tra Nietzsche e il cristianesimo sia in qualche modo sanabile. È piuttosto fine l'osservazione di Deleuze secondo cui Nietzsche, fin dagli inizi, si oppone al cristianesimo e alla filosofia d'ispirazione cristiana con immagini e figure particolarmente espressive: così, per esempio, contro le figure della «scommessa» e del «salto» (si pensi a Pascal, a Kierkegaard), egli porta in primo piano quelle del «gettare i dadi» e della «danza», sottolineando in questo modo l'elemento dionisiaco, ludico, panico (cfr. G. Deleuze, op. cit., pp. 42-43). A sua volta E. Fink (nel suo Nietzsches Philosophie, Stoccarda, 1960, passim) ricorda che la «redenzione» di cui parla Nietzsche non è mai redenzione d'un essere finito, piuttosto un'«esaltante adesione» alla legge che intreccia vita e morte e le conse­gna all'«inesauribilità dell'infinito»: da questo punto di vista, secondo Fink, tragedia e cri­stianesimo rappresentano due termini inconciliabili.

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INTRODUZIONE DI SERGIO GIVONE 39

siero la verità in definitiva tragica per cui redime l'orrore dell'esistenza sol­tanto colui che lo patisce. Nietzsche sospetta quanto questa verità appar­tenga all'orizzonte cristiano. Insomma, che Dioniso il redentore per mezzo della sua passione gli appaia infine come il crocifisso, è un paradosso tut-t'altro che risolvibile nei termini d'una generica analogia, e tanto meno im­putabile alla demenza incombente.

SERGIO GIVONE

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Due conferenze pubbliche sulla tragedia greca

Prima conferenza: il dramma musicale greco Nel teatro contemporaneo non sono presenti solo memorie e risonanze

delle arti drammatiche della Grecia; anzi, le sue forme fondamentali hanno radici nel terreno ellenico, o per crescita naturale oppure per via di una de­rivazione artificiale. Soltanto i nomi in diversi modi si sono mutati e spo­stati: analogamente la musica medievale era di fatto ancora basata su tona­lità greche, solo che, per esempio, ciò che i greci chiamavano «locrese» nel canto liturgico veniva indicato come «dorico». Confusioni del genere le s'incontra nell'ambito della terminologia drammatica: ciò che l'Ateniese considerava «tragedia», noi tutt'al più lo iscriviamo al concetto di «grande opera»: così almeno ha fatto Voltaire in una lettera al Cardinal Quirini. Al contrario un greco non riconoscerebbe nella nostra tragedia quasi nulla di corrispondente alla sua; semmai gli verrebbe fatto di pensare che la strut­tura e il carattere fondamentale della tragedia di Shakespeare siano stati presi dà quella che lui chiamava commedia nuova. E in effetti proprio da questa si sono sviluppati, in enormi spazi temporali, il dramma romano, le rappresentazioni di misteri e di moralità tanto latine quanto germaniche, e infine la tragedia di Shakespeare: così, analogamente, nella forma esterio­re della scena di Shakespeare non si può non riconoscere affinità genealo­gica con la commedia nuova attica. Se qui noi ora non possiamo fare a me­no di ravvisare una sorta di sviluppo progressivo durato millenni, invece quella che è la vera tragedia dell'antichità, l'opera di Eschilo e di Sofocle, è stata imposta forzatamente all'arte moderna. Ciò che noi oggi chiamiamo l'opera, la parodia dell'antico dramma musicale, è venuto fuori da una di­retta scimmiottatura dell'antichità: senza la forza inconscia di un impulso naturale, costruita sulla base di una teoria astratta, essa ha assunto la parte dell'homunculus prodotto artificialmente, quasi fosse il cattivo coboldo del nostro moderno sviluppo musicale. Quei nobili e profondamente colti fiorentini che all'inizio del xvii secolo promossero l'opera, avevano l'in­tenzione dichiarata di rinnovare quegli effetti ch'essa già aveva posseduto nell'antichità, secondo così numerose e convincenti testimonianze. Note­vole! Già il primo pensiero dell'opera è stato una ricerca dell'effetto. At­traverso tali esperimenti le radici di un'arte inconscia che scaturisce dalla vita del popolo vengono rescisse o per lo meno mutilate in malo modo. Co­sì in Francia il dramma popolare è stato soppiantato dalla cosiddetta trage­dia classica, cioè da un genere formatosi puramente per via erudita, il qua­le doveva contenere senza commistioni l'essenza del tragico. Anche in Ger­mania quella che è la radice naturale del dramma, la rappresentazione car­nascialesca, è stata affossata a partire dalla Riforma; dopo di che la nuova creazione di una forma nazionale è stata appena tentata, là dove invece si continuò a pensare e a poetare secondo i modelli che erano a portata di mano presso nazioni straniere. Ai fini dello sviluppo delle arti moderne,

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l'erudizione, il sapere saccente e presuntuoso sono un vero e proprio freno: ogni crescere e divenire nel campo dell'arte deve procedere nella notte pro­fonda. La storia della musica insegna che un sano sviluppo e ampliamento della musica greca nell'alto medioevo fu, di colpo e violentemente, impedi­to e bloccato, non appena si tornò all'antico sia in teoria sia in pratica con la scorta dell'erudizione. Il risultato fu un'incredibile atrofia del gusto: da­ti i continui contrasti tra la presunta tradizione e l'orecchio naturale si giunse al punto di comporre musica non più per l'orecchio bensì per l'oc­chio. Gli occhi dovevano ammirare l'abilità contrappuntistica del compo­sitore: gli occhi dovevano riconoscere la capacità espressiva della musica. Come fu che si ottenne questo? Si colorarono le note con i colori delle cose di cui si trattava nel testo, cioè di verde o di rosso porpora a seconda che ci si riferisse alle piante, ai campi e ai vigneti o al sole e alla luce. Era, questa, musica letteraria, musica da leggere. Ciò che qui c'impressiona alla stregua d'una evidente assurdità, nel campo di cui sto trattando poteva apparire tale solo a pochi. In altri termini io ritengo che quell'Eschilo e quel Sofocle che ci sono ben noti, in realtà ci sono noti solo come poeti che hanno re­datto il testo, come librettisti, il che significa che ci sono del tutto scono­sciuti. Cioè, se nel campo della musica noi siamo ormai di gran lunga al di là dell'erudito teatrino d'ombre d'una musica da leggere, nell'ambito della poesia l'innaturalezza d'una poesia libresca è talmente dominante che co­sta una certa riflessione ammettere quanto noi si debba essere ingiusti ver­so Pindaro, Eschilo e Sofocle, come a dire che non li conosciamo affatto. Quando li definiamo poeti, noi intendiamo in realtà autori del libretto; ma con ciò noi non siamo più in grado di guardare alla loro essenza, che si apre a noi unicamente quando in un'ora di potente fantasia portiamo di­nanzi alla nostra anima l'opera idealizzata tanto che finalmente ci si schiu­de l'intuizione dell'antico dramma musicale. Del resto, anche nella cosid­detta grande opera tutti i rapporti sono stravolti, anzi, essa stessa è un pro­dotto della distrazione e non del raccoglimento, schiava com'è del peggior poetare e di una musica indegna: qui tutto è vergogna e spudoratezza, pur tuttavia non c'è altro mezzo di venire in chiaro circa Sofocle che di cercar d'indovinare il modello originario a partire da questa caricatura prescin­dendo, in un ispirato momento, da tutto ciò ch'è distorto e stravolto. Quell'immagine della fantasia dovrà poi essere esaminata attentamente e, secondo le sue articolazioni specifiche, essere inserita nella tradizione del­l'antichità, così da non togliere dalla Grecia ciò che è greco e da non figu­rarsi un'opera d'arte che non ha patria in nessuna parte del mondo. Peri­colo, questo, non dappoco. Valeva fino a non molto tempo fa come indi­scusso assioma estetico, che ogni opera d'arte plastica ideale dovesse essere priva di colore, e perciò che la scultura antica non ammettesse l'applicazio­ne del colore. A piccoli passi e nonostante la furiosa resistenza di coloro che vorrebbero essere più greci dei Greci, s'è fatta strada l'idea della poli-cromicità dell'arte plastica degli antichi, la quale dunque dev'essere pensa­ta come rivestita d'una patina di colore e non nuda. Così pure piace a tutti la teoria estetica in base alla quale la riunione di due o più arti non possa produrre un innalzamento della fruizione estetica, essendo anzi una dege­nerazione barbarica del gusto. Questa teoria semmai attesta la peggior abi­tudine moderna, per cui non sappiamo più gustare nulla come uomini inte­grali: proprio dalle arti assolute noi siamo come fatti a pezzi e portati a giudicare solo in quanto smembrati, sia come uomini tutto udito o tutto occhio eccetera. Sentiamo invece come si figura il dramma antico, in quan­to arte totale, l'acuto Anselm Feuerbach. «Nessuna meraviglia, egli dice,

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se per un'affinità elettiva profondamente giustificata le singole arti si siano infine nuovamente riunite in un tutto indivisibile, come per fondersi in una nuova forma d'arte,.I giochi olimpici riportavano ad unità politico-religio­sa le diverse stirpi greche: la festa della rappresentazione drammatica è co­me la festa della riunificazione delle arti. Il modello stesso era già dato in quelle celebrazioni nel tempio dove l'apparizione plastica del dio davanti alla folla orante era festeggiata con danze e canti. Come là, così anche qui l'architettura definisce lo spazio e la base, per mezzo delle quali la superio­re sfera poetica si separa visibilmente dalla realtà. Impegnato allo scenario vediamo il pittore e diffusi nella magnificenza dei costumi tutti gli incanti di un acceso gioco di colori. Dell'anima del tutto s'è impadronita la poesia: non però in quanto singola forma letteraria, per esempio come inno nel culto al tempio. Quelle relazioni di fatti avvenuti in precedenza, da parte dell'àngelos o dell'exàngelos o degli stessi personaggi, relazioni così essen­ziali al dramma greco, ci riportano all'èpos. La poesia lirica ha il suo posto nelle scene passionali e naturalmente secondo tutta una serie di gradazioni, a partire dall'irruzione immediata del sentimento in interiezioni, dal più delicato fiore del canto su su fino all'inno e al ditirambo. Recitazione, can­to, flauto e passo cadenzato della danza ancora non chiudono l'anello. Giacché se è vero che la poesia definisce l'elemento più intimo e costitutivo del dramma, è anche vero che qui essa incontra nella sua nuova forma l'ar­te plastica.» Sin qui Feuerbach. Certo è che solo alla presenza d'una tale opera d'arte noi dovremmo imparare a conoscere quel che s'ha da gustare in quanto uomini integrali; mentre c'è da temere che anche posti di fronte a una tale opera d'arte si finirebbe col lasciarsi smembrare in tante parti, per appropriarsi di essa. Io credo anzi che, chi di noi fosse improvvisamen­te trasportato nel mezzo d'una qualche celebrazione ateniese, avrebbe sen­z'altro l'impressione d'uno spettacolo del tutto straniero e barbarico. E questo per molte ragioni. Nella più splendente luce del sole, senza nessun misterioso effetto della sera e delle lampade, gli si aprirebbe davanti un va­sto spazio aperto stracolmo di gente: gli sguardi di tutti rivolti a uomini mascherati che si muovono misteriosamente giù in basso e a un paio di fan­tocci di grandezza sovrumana, i quali sopra uno stretto e lungo palcosceni­co camminano lentissimamente avanti e indietro. E in effetti non si posso­no chiamare se non fantocci quegli esseri che, stando sugli alti trampoli dei coturni, con il volto coperto da maschere vivacemente colorate ed ecceden­ti l'altezza della testa, con petto tronco braccia e gambe imbottite e stecca­te in modo innaturale, si possono muovere a malapena, oppressi come so­no dal carico di un abito dal lungo strascico cascante e di un'imponente ac­conciatura dei capelli. Inoltre queste figure devono, attraverso larghe aper­ture boccali, recitare e cantare a voce altissima in modo da essere intesi da una massa di spettatori di più di 20.000 uomini: veramente, un compito eroico, degno d'un combattente di Maratona. Ma la nostra meraviglia cre­sce ancora se prendiamo nota del fatto che ciascuno di questi cantanti-at­tori era tenuto a recitare lui solo circa 1600 versi in un arco di 10 ore, tra cui almeno sei pezzi cantati di diversa estensione. E questo davanti a un pubblico che puniva aspramente ogni dismisura nel tono, ogni accento er­rato, in un'Atene dove, per usare le parole di Lessing, anche la plebe aveva gusto fine e sensibile. Quale concentrazione e quale esercizio delle forze, quale lunga e complicata preparazione, quale serietà e quale entusiasmo nel realizzare il compito artistico noi dobbiamo qui figurarci, insomma, quale ideale capacità drammatica! Questi erano compiti per i più nobili dei cittadini, qui neppure un combattente di Maratona avrebbe perso di digni-

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tà anche in caso di fallimento, qui l'attore, così come nel suo costume esprimeva un'elevazione al di sopra della figura umana di tutti i giorni, sentiva anche in se stesso uno slancio nel quale le parole forti, aspre e piene di passione di Eschilo dovevano essere per lui un linguaggio naturale.

Pieno d'un sacro entusiamo allo stesso modo che l'attore, lo spettatore stava ad ascoltare: anche su di lui si diffondeva l'atmosfera d'una festa ec­cezionale e lungamente attesa. Non l'angosciosa fuga dalla noia, non la voglia di liberarsi ad ogni costo per qualche ora di se stessi e della propria miserevolezza spingeva quegli uomini a teatro. L'uomo greco fuggiva da quella vita pubblica per lui così banale e distraente, quella vita nella strada o nella piazza o nel tribunale, verso la solennità invitante al raccoglimento e alla pace della rappresentazione teatrale: non come il tedesco antico, il quale voleva distrarsi ogni volta che spezzava il cerchio della sua esistenza interiore e che trovava una giusta e piacevole distrazione nei dibattiti giudi­ziari, che perciò determinarono la forma e l'atmosfera del suo dramma. L'anima dell'ateniese invece, che veniva ad assistere alla tragedia in occa­sione delle grandi festività dionisiache, aveva in sé ancora qualcosa di quel­l'elemento da cui la tragedia era nata. È questo l'impulso primaverile che scaturisce dirompente, un tumultuare e un infuriare in senso diverso, come sanno tutti i popoli primitivi e l'intera natura all'approssimarsi della pri­mavera. Notoriamente anche le nostre rappresentazioni carnascialesche e i nostri scherzi in maschera hanno la loro origine nelle sagre della primave­ra, che solo per motivi confessionali sono un po' retrodatate. Quelle por­tentose processioni dionisiache dell'antica Grecia hanno una certa analogia con quei danzatori medievali di S. Giovanni e di S. Vito che si muovevano di città in città danzando e cantando e saltando in masse grandissime e sempre crescenti. Parli pure di quel fenomeno, la medicina di oggi, come d'un'epidemia medievale: resta il fatto che il dramma antico è sbocciato da una tale epidemia e che la sfortuna dell'arte moderna è di non essere venu­ta fuori da una tale fonte misteriosa. Nulla di sfrenato o di licenzioso, in queste folle che correvano per i campi e i boschi con selvaggio tumulto, ai primordi del dramma, con costumi da Satiro e da Sileno, i volti coperti di fuliggine, di minio e succhi vegetali, con corone di fiori intorno al capo: l'azione onnipotente della primavera manifestandosi di colpo conduce le forze vitali a un tale eccesso che ovunque si danno stati di estasi, visioni in­sieme con la fede in un proprio incantesimo, e creature che sentono allo stesso modo si aggirano a schiere per tutta la regione. Ed è qui la culla del dramma. Il quale non incomincia là dove qualcuno si traveste per far na­scere in altri un'illusione: no, ma piuttosto là dove l'uomo è fuori di sé e si crede trasformato e oggetto d'incantesimo. Nello stato dell'«essere fuori di sé», per l'estasi non è necessario che un passo: si tratta non già di ritornare nuovamente in noi stessi, ma piuttosto di entrare in un altro essere, così da comportarsi da creature fatate. Perciò sta tutta qui la ragione fondamenta­le dello stupore che il dramma suscita: il terreno vacilla, così come la fede nella indissolubilità e nella fissità dell'individuo. E come l'entusiasta di Dioniso crede alla propria trasformazione, giusto in antitesi al programma del Sogno d'una notte d'estate, così il poeta drammatico crede alla realtà delle sue figure. Chi non ha questa fede, può certo far parte dei portatori di tirso, dei dilettanti, ma non dei veri servi di Dioniso, i bacchici.

Qualcosa di questa vita naturale dionisiaca era ancora nell'anima degli spettatori al tempo della fioritura del dramma attico. Non si trattava d'un pubblico d'abbonati, pigro e affaticato, che viene a teatro con i sensi stan­chi e fiacchi, per lasciarsi trasportare da qualche emozione. In antitesi a

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questo pubblico, vera camicia di forza del nostro teatro contemporaneo, lo spettatore ateniese aveva ancora i sensi freschi, mattutini, festosamente ec­citati, quando prendeva posto sui gradini del teatro. Il semplice non era ancora per lui troppo semplice, la sua cultura estetica consisteva nei ricordi dei felici giorni primitivi del teatro, la sua fiducia nel genio teatrale del suo popolo era senza confini. Ma, cosa più importante, egli accostava le labbra alla bevanda della tragedia così raramente, da gustarla ogni volta come se fosse la prima volta. In questo senso io voglio citare le parole del più note­vole architetto vivente, il quale dà senz'altro il suo voto all'affrescatura di soffitti e cupole. «Niente è per l'opera d'arte più vantaggioso, egli dice, che la sottrazione al contatto immediato con quanto v'è di più quotidiano e alla comune prospettiva. A furia di abitudine il nervo ottico ne risulta ot­tuso, sicché è come se vedesse dietro un velo l'incanto e i rapporti dei colo­ri e delle forme.» Si può sostenere qualcosa di analogo anche per la fruizio­ne del dramma quando sia una cosa rara: è un vantaggio tanto per i quadri quanto per i drammi, d'essere visti in una situazione e con sentimenti che hanno un che di straordinario: anche se con questo non si vuol raccoman­dare il costume romano di stare in piedi a teatro.

Noi abbiamo finora tenuto conto solo dell'attore e dello spettatore. Pen­siamo in terzo luogo anche al poeta: e certo questa parola io la intendo qui nel suo senso più ampio, come la intendevano i Greci. Senza dubbio i tragi­ci greci hanno esercitato la loro enorme influenza sull'arte moderna soltan­to come librettisti: è anche vero però, cosa di cui io sono perfettamente convinto, che una ripresentazione reale e intera d'una trilogia eschilea, con attori, pubblico e poeti attici, produrrebbe sicuramente su di noi un effetto sconvolgente, perché ci mostrerebbe l'uomo artistico in una compiutezza e in un'armonia a fronte delle quali i nostri più grandi poeti finirebbero con l'apparire come statue ben abbozzate ma incompiute.

Il compito che si poneva al drammaturgo nell'antichità greca era quanto mai arduo: la libertà, di cui godono i nostri drammaturgi circa la scelta dell'argomento, il numero degli spettatori e un'infinità di altre cose, sareb­be sembrata allo spettatore attico come puro disordine. Lungo tutta l'arte greca corre una legge orgogliosa, per cui solo quel che c'è di più difficile è un compito per l'uomo libero. Perciò l'autorità e la fama d'un'opera d'ar­te plastica dipendeva molto dalla difficoltà della fabbricazione e dalla du­rezza del materiale impiegato. Alle difficoltà specifiche, grazie alle quali la via verso la celebrità drammatica non fu mai troppo agevole, appartengo­no il numero ristretto degli attori, l'impiego del coro, la sfera limitata dei miti, ma soprattutto una quintuplice capacità di prove, cioè la necessità d'essere produttivi come poeti e come musicisti, come danzatori e come re­gisti, e infine come attori. Ciò che per i nostri poeti drammatici è l'ancora di salvezza, è la novità, e quindi l'elemento interessante della materia scelta per il loro dramma. Essi ragionano come gli improvvisatori italiani, i quali raccontano una nuova storia fino al punto culminante e al grado di massi­ma tensione, convinti come sono che solo allora più nessuno se ne andrà prima della fine. La cattura dell'attenzione fino alla fine per mezzo dell'at­trattiva di qualcosa d'interessante suonava come inaudito agli orecchi dei tragici greci: gli argomenti dei loro capolavori erano noti da tempo imme­morabile ed erano altresì familiari agli spettatori fin dall'infanzia nella for­ma lirica o epica. Era già un'impresa eroica destare una reale partecipazio­ne per un Oreste o per un Edipo: ma quanto ristretti, quanto puntigliosa­mente limitati i mezzi che potevano essere usati per ottenere una tale parte­cipazione! Ed ecco anzitutto in questione il coro, che per il poeta antico era

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tanto importante quanto per il tragediografo francese i personaggi dei no­bili che prendevano posto ai due lati della scena e trasformavano in certo qual modo il palcoscenico in un'anticamera principesca. Come il tragedio­grafo francese in omaggio a questo strano «coro» non partecipante e tutta­via partecipe non poteva mutare l'allestimento scenografico, come il lin­guaggio si modellava sul palcoscenico a partire da esso: così l'antico coro in ciascun dramma esigeva per l'intera durata dell'azione che l'azione fosse pubblica e avesse come suo spazio una piazza aperta. Esigenza arrischiata, questa: infatti l'azione tragica e la sua preparazione non si fanno trovare in strada, ma fioriscono al loro meglio nel nascondimento. Tutto in pubblico, tutto alla luce del sole, tutto di fronte al coro — davvero un'esigenza terri­bile. Non che questa sia mai stata espressa in quanto tale sulla base d'una qualche trovata estetica: piuttosto questo grado fu raggiunto attraverso un lungo processo di sviluppo del dramma e istintivamente si tenne per fermo che qui c'era da realizzare un grande compito per un grande genio. È noto che originariamente la tragedia non era che un grande canto corale: anzi, la conoscenza di questo fatto storico ci dà in realtà la chiave di questo straordinario problema. L'effetto principale e complessivo della tragedia antica si basava ancora al tempo della sua fioritura sempre sul coro: era il fattore con cui anzitutto bisognava fare i conti e non si poteva lasciarlo da parte. Il livello su cui il dramma si mantenne all'incirca da Eschilo a Euri­pide, è sì quello in cui il coro è stato messo in seconda fila, ma per dare an­cora il tono d'insieme. Ancora un solo passo avanti e la scena domina l'or­chestra, la colonia la città madre; la dialettica dei personaggi in scena e i loro monologhi cantati prendono il sopravvento e sovrastano la complessi­va impressione musico-corale valida fino a quel momento. Questo passo fu compiuto e tra gli stessi che vi assistettero Aristotele lo fissò nella sua cele­bre, molto fuorviante definizione, che non coglie affatto l'essenza del dramma eschileo.

Ora, la prima idea relativa al progetto d'un poema drammatico dovette essere quella di trovare un gruppo di uomini o donne che fossero stretta­mente legati ai personaggi in scena; si dovettero poi cercare temi attraverso i quali si potessero suscitare stati d'animo collettivi lirico-musicali. Il poeta guardava in una certa misura i personaggi in scena nella prospettiva del co­ro, e con lui il pubblico ateniese: noi, noi che abbiamo solo il libretto, nella prospettiva della scena guardiamo il coro. Il significato del quale non si può esaurire in un'immagine. Quando Schlegel lo definisce «spettatore ideale», questo significa soltanto che il poeta, nel modo in cui il coro consi­dera gli avvenimenti, esprime il modo in cui secondo il suo desiderio do­vrebbe considerarli Lo spettatore. Ma con ciò un solo lato della questione è messo in luce: prima di tutto è importante che il personaggio dell'eroe at­traverso il coro gridi allo spettatore come attraverso un amplificatore i suoi sentimenti enormemente esaltati. Benché sia costituito da una massa di persone, il coro non rappresenta una massa musicale, bensì un individuo smisurato dotato di polmoni soprannaturali. Non è questo il luogo di mo­strare quale pensiero etico si celi nella musica corale all'unisono dei Greci: essa costituisce la più forte antitesi allo sviluppo della musica cristiana, nella quale l'armonia, il più appropriato simbolo della pluralità, tanto estese il suo dominio che la melodia ne fu del tutto soffocata e dovette es­sere riscoperta. È il coro che ha imposto i limiti di quella fantasia poetica che si manifesta nella tragedia: la danza corale religiosa con il suo andante solenne delimitò quello spirito inventivo dei poeti altrimenti preda di ecces­si: la tragedia inglese invece, senza una tale limitazione, con il suo realismo

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fantastico si configura in modo più violento, più dionisiaco, ma in fondo più melancolico, alPincirca come un allegro beethoveniano. Che il coro ab­bia molte più occasioni per esprimersi in senso lirico-patetico, questo è propriamente il principio più importante nell'economia del dramma anti­co. Ma questo lo si può anche ottenere agevolmente nei più piccoli fram­menti del mito: perciò in esso manca del tutto qualsiasi intreccio complica­to, qualsiasi intrigo, qualsiasi combinazione ingegnosa e predisposta ad ar­te, in breve tutto ciò che precisamente costituisce il carattere del dramma moderno. Nel dramma musicale antico non c'era nulla che si dovesse cal­colare: anche la scaltrezza di qualche singolo eroe del mito aveva di per sé un che di semplice e di onesto. Mai, neppure in Euripide, l'essenza della rappresentazione si trasformava in quella di un gioco di scacchi: là dove in­vece una sorta di maniera scacchistica diventò il tratto fondamentale della cosiddetta commedia nuova. Perciò i singoli drammi dell'antichità nella loro semplice struttura sono simili ad un unico atto delle nostre tragedie, e più precisamente al quinto, che in brevi e rapidi passi conduce alla cata­strofe. La tragedia classica francese, dal momento che conosceva il suo modello ossia il dramma musicale greco appunto solo come libretto ed era perciò venuta a trovarsi a disagio circa l'introduzione del coro, dovette ac­cogliere in sé un elemento del tutto nuovo, unicamente per sviluppare tutti i cinque atti prescritti da Orazio: questa zavorra, senza la quale quella nuo­va forma d'arte non poteva navigare, era l'intrigo, cioè un indovinello per l'intelletto e una situazione di contrasto per piccole e in fondo non tragiche passioni — cosa che ne avvicinava la tipologia a quella della commedia at­tica nuova. La tragedia antica, paragonata con essa, era povera sia d'azio­ne sia di tensione: anzi, si può dire ch'essa nei suoi primi gradi di sviluppo badasse non tanto all'azione, al dràma, quanto alla passione, al pàthos. L'azione fece il suo ingresso solo quando apparve il dialogo: e tutto il vero e serio complesso di eventi anche nell'epoca di fioritura del dramma non era portato in scena. Che altro era originariamente la tragedia se non una lirica obiettiva, un canto sgorgato da una situazione propria di certi esseri mitologici, i quali erano rappresentati nei loro stessi costumi? Dapprima un coro ditirambico di uomini travestiti da Satiri e da Sileni dovette svolge­re l'ufficio di spiegare ciò che l'aveva portato a tale stato di eccitazione: es­so indicava qualche particolare, che fosse immediatamente comprensibile agli ascoltatori, tratto dalle storie delle lotte e delle passioni di Dioniso. Più tardi venne introdotta la stessa divinità, con un duplice scopo: in pri­mo luogo per raccontare personalmente qualcosa delle vicende in cui si tro­vava coinvolta e in cui il suo seguito trovava motivo della più vivace parte­cipazione, secondariamente perché Dioniso era in un certo senso, durante quei dolenti canti corali, l'immagine vivente, la vivente statua del dio — e qui l'antico attore aveva in effetti qualcosa del mozartiano convitato di pietra. Un critico musicale contemporaneo fa a questo proposito la seguen­te osservazione: «Nel nostro attore in costume, egli dice, si presenta un uo­mo naturale, e invece nella maschera tragica ai Greci se ne presentava uno artificiale, e per dir così stilizzato eroicamente. Le nostre vaste scene, sulle quali si possono raggruppare anche cento persone, fanno di ciascuna rap­presentazione un quadro colorato e, per quanto è possibile, vivente. La scena antica, poco profonda e con il fondale a ridosso, rendeva le figure moventesi con pochi passi misurati simili a bassorilievi o a viventi statue marmoree di un frontone di tempio. Se un miracolo avesse infuso la vita a quelle figure di marmo della contesa tra Atena e Posidone nel frontone del Partenone, esse avrebbero certamente parlato la lingua di Sofocle».

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Qui ritorno a quel punto di vista cui ho già fatto cenno in precedenza, per cui nel dramma greco l'accento è posto sul patire e non sull'agire; ora si comprenderà più facilmente perché io ritengo che noi dobbiamo essere ingiusti nei confronti di Eschilo e di Sofocle e che anzi non li conosciamo affatto. 11 fatto è che noi non abbiamo nessun criterio in base al quale con­trollare il giudizio del pubblico attico su di un'opera poetica, perché noi non sappiamo o sappiamo solo in minima parte come il dolore e più in ge­nerale la realtà dei sentimenti venisse tradotta in un'impressione capace di commuovere. Noi siamo, di fronte a una tragedia greca, incompetenti, perché il suo effetto fondamentale consisteva per una buona parte d'un elemento che per noi è andato perduto, cioè la musica. Circa la posizione della musica nel dramma antico vale pienamente ciò che Gluck nella cele­bre prefazione al suo Alcesti esprime in termini di esigenza. La musica do­vrebbe sostenere la poesia, rafforzare l'espressione dei sentimenti e l'inte­resse delle situazioni, senza spezzare l'azione o disturbarla con inutili fio­rettature. La musica dovrebbe essere per la poesia ciò che la vivacità dei colori e una felice mescolanza d'ombre e di luci sono per un disegno corret­to e ben studiato; cose, tutte, che servono unicamente a dar vita alle figure senza confondere i contorni. La musica perciò è stata esclusivamente usata come mezzo in vista di uno scopo: suo compito era tradurre il dolore del dio e dell'eroe nella più forte compassione degli spettatori. Naturalmente anche la parola ha lo stesso compito, ma per essa diviene molto più diffici­le, e solo attraverso un percorso meno diretto, raggiungere lo stesso risul­tato. La parola fa presa anzitutto sul mondo concettuale e solo a partire di qui sul sentimento, sicché abbastanza spesso a causa della lunghezza della strada non arriva alla meta. La musica invece penetra nel cuore immedia­tamente, come autentico linguaggio universale ovunque comprensibile.

Certamente ancora oggi hanno diffusione a proposito della musica greca certe opinioni, in base alle quali essa non sarebbe stata per niente un tal linguaggio universalmente comprensibile, ma piuttosto un complesso tona­le trovato per via erudita, ricavato dalle varie teorie sull'acustica, del tutto estraneo a noi. Qua e là per esempio ci si attiene ancora alla falsa credenza che nella musica greca l'intervallo di terza fosse sentito come una disso­nanza. È bene liberarsi completamente da queste idee ed è bene tener conto del fatto che la musica dei Greci è molto più vicina al nostro modo di senti­re che quella medievale. Ciò che si è conservato delle antiche composizioni, nella sua rigida struttura ritmica rimanda direttamente ai nostri canti po­polari: del resto è proprio dal canto popolare che sono scaturite sia la mu­sica sia la poesia degli antichi. Certo c'era anche della musica puramente strumentale: tuttavia quel che si faceva valere in essa era solo il virtuosi­smo. Ma l'uomo greco vi sentiva sempre qualcosa di estraneo e di forestie­ro, qualcosa di asiatico. La musica propriamente greca non è che musica vocale: la naturale solidarietà di linguaggio verbale e linguaggio tonale non s'era ancora spezzata, e questo fino al punto che il poeta doveva essere an­che il compositore della sua lirica. I Greci non potevano apprendere tali li­riche se non per mezzo del canto; ma anche nell'ascoltare essi percepivano l'intima fusione di parola e suono. Noi, cresciuti come siamo sotto l'in­fluenza della moderna degenerazione artistica, della separazione delle arti, a malapena riusciamo a gustare insieme testo e musica. In effetti ci siamo abituati a gustarli separatamente, il testo attraverso la lettura — tanto che non ci fidiamo del nostro giudizio quando una poesia ci vien letta o un dramma rappresentato, e pretendiamo il libro — e la musica attraverso l'a­scolto. Inoltre noi troviamo sopportabile anche il testo più assurdo, quan-

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do la musica è bella: il che sarebbe apparso a un greco, in tutto e per tutto, una barbarie.

Di là dalla già sottolineata parentela di poesia e musica, la musica antica appare caratteristica per altri due motivi: la sua semplicità, in fatto di ar­monia, e la sua ricchezza quanto ai mezzi espressivi ritmici. Ho già accen­nato che il canto corale si distingueva dal canto solista unicamente per il numero delle voci e che una pluralità peraltro limitatissima, cioè un'armo­nia nel nostro senso, era ammessa solo per gli strumenti d'accompagna­mento. Esigenza primaria era che si comprendesse il contenuto dei canti re­citati: e se davvero era possibile comprendere un canto corale pindarico o eschileo con le sue audaci metafore e salti di pensiero, bisogna allora am­mettere qui un'arte della recitazione stupefacente così come una capacità d'accentuazione e di ritmo del tutto caratteristici. Al fraseggio ritmico-mu-sicale, che si muoveva nel più stretto parallelismo con il testo, s'aggiungeva d'altro lato, come mezzo espressivo ausiliario, un certo movimento di dan­za e cioè l'orchestica. L'evoluzione dei coreuti, che nel vasto piano dell'or­chestra disegnava arabeschi davanti agli occhi degli spettatori, era colta co­me una sorta di musica da vedere. Mentre la musica aumentava l'effetto della poesia, allo stesso modo l'orchestica illustrava la musica. Col che s'imponeva al poeta e al musicista un nuovo compito: essere un creativo maestro di ballo.

Qui c'è ancora una parola da dire circa i limiti della musica nel dramma. Il significato più profondo di questi limiti come tallone d'Achille dell'anti­co dramma musicale, in quanto è da essi che comincia il suo processo di decomposizione, non può essere discusso oggi, giacché io penso di trattare della decadenza della tragedia antica e quindi del punto cui ho appena ac­cennato nella mia prossima conferenza. Qui basti questo fatto: non tutto ciò ch'era messo in versi poteva venir cantato e di quando in quando veni­va anche recitato, con l'accompagnamento di musica strumentale, allo stesso modo che nel nostro melodramma. Un tal recitare tuttavia dobbia­mo immaginarcelo come semi-recitativo, e infatti quel suo particolare tono echeggiante non produceva alcun dualismo all'interno del dramma musica­le; anzi, era il dominante influsso della musica a farsi sentire potentemente nel linguaggio. Si ha in qualche modo un'eco di questo tono recitativo nel cosiddetto tono lezionario, con cui nella Chiesa cattolica si recitano i Van­geli, le Epistole e molte preghiere. «Il prete che legge per mezzo di pause e chiuse di frase usa certe flessioni di voci con cui assicura la chiarezza del­l'esposizione e nello stesso tempo evita qualsiasi monotonia. Ma nei mo­menti importanti dell'ufficio sacro la voce del celebrante si alza, e il padre nostro, il prefazio, la benedizione diventano canti declamatori.» Ma so­prattutto nel rituale della messa cantata molto rimanda al dramma musica­le greco, solo che in Grecia tutto era molto più splendente, più solare e in generale più bello, anche se meno interiore e senza quell'enigmatico infini­to simbolismo della Chiesa cristiana.

Con ciò, egregi signori qui convenuti, io sono giunto alla conclusione. Io ho paragonato prima l'autore del dramma musicale greco al péntathlos, colui che partecipa a cinque gare; ma un'altra metafora ci può avvicinare ancor di più a un tal pentatleta musicodrammatico a fronte di tutta l'arte antica. Circa la storia dell'abbigliamento antico Eschilo riveste un signifi­cato particolare, in quanto è lui che ha introdotto quello che costituisce lo sfarzo, la leggiadria e la grazia dell'abito principale e cioè il panneggia­mento che cade liberamente, mentre prima di lui i Greci nel vestire barba­reggiavano alquanto e comunque non conoscevano un tal panneggiamen-

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to. Il dramma musicale greco è per tutta l'arte antica precisamente quel ve­stito: con esso qualsiasi costrizione, qualsiasi isolamento delle singole arti è superato: nella loro festa collettiva si inneggia alla bellezza e nello stesso tempo all'audacia. Obbligazione e tuttavia grazia, molteplicità e tuttavia unità, diverse arti nella loro più alta espressione e tuttavia una sola opera d'arte — ecco l'antico dramma musicale. Ma chi soffermandosi su di esso si rammentasse dell'ideale dei nostri riformatori dell'arte, ebbene, costui dovrebbe nello stesso tempo confessare che quell'opera d'arte del futuro non è altro che un miraggio illusorio, anche se luccicante: ciò che noi ci aspettiamo dall'avvenire è precisamente quanto già fu realtà — in un pas­sato più che bimillenario.

Seconda conferenza: Socrate e la tragedia

La tragedia greca, rispetto a tutti gli altri generi d'arte imparentati con essa, è finita per motivi diversi: la sua fine è stata tragica, là dove tutti que­gli altri generi sono venuti meno nella morte più bella. Posto cioè che corri­sponda a un'ideale situazione di natura esalare l'ultimo respiro con una bella progenie e senza convulsioni, precisamente un simile mondo ideale ci mostra la fine di quegli antichi generi d'arte; essi spirano e finiscono sotto­terra, mentre i loro virgulti più belli già alzano il capo con forza. Con la morte del dramma musicale greco invece si ebbe un enorme vuoto, profon­damente sentito da tutti; ci si disse che la poesia stessa era andata perduta; beffardamente si mandarono nell'Ade gli epigoni deperiti e rinsecchiti per­ché si nutrissero con le briciole dei maestri di un tempo. Si sentì, per usare l'espressione di Aristofane, una così intima e bruciante nostalgia per l'ulti­mo dei grandi morti, come quando a qualcuno prende improvvisamente una gran voglia di crauti. Ma quando di fatto fiorì un nuovo genere artisti­co, che nella tragedia onorava la sua precorritrice e maestra, si riconobbe con orrore ch'esso aveva in tutto e per tutto le fattezze della madre, quelle, però, che la madre aveva assunto durante la sua lunga agonia. Quest'ago­nia della tragedia si chiama Euripide, e il più tardo genere artistico è noto come commedia attica nuova. In essa sopravvisse la forma degenerata del­la tragedia, in memoria del suo trapasso estremamente penoso e difficile.

Si sa di quale straordinaria venerazione Euripide godesse presso i poeti della nuova commedia attica. Uno dei più rinomati, Filemone, dichiarò che si sarebbe immediatamente fatto impiccare, pur di vedere Euripide ne­gli inferi, qualora si fosse potuto convincere che il defunto aveva ancora vita e intelletto. Ma ciò che Euripide aveva in comune con Menandro e con Filemone e ciò che per costoro valeva come modello, si lascia in breve rias­sumere nella formula secondo cui essi portarono lo spettatore sulla scena. Prima di Euripide si aveva a che fare con uomini eroicamente stilizzati, dei quali subito si riconosceva l'origine dagli dèi e dai semidei della tragedia più antica. Lo spettatore vedeva in essi una sorta di passato ideale della grecità e con ciò la realtà di tutto quello che nei momenti di elevazione vi­veva anche nella sua anima. Con Euripide balza sulla scena lo spettatore, l'uomo nella realtà della vita d'ogni giorno. Lo specchio, che in preceden­za aveva riflesso solo i caratteri grandi e nobili, si fece più realistico e per­ciò più volgare. L'abbigliamento sfarzoso divenne in una certa misura più trasparente, la maschera una mezza maschera: le forme della quotidianità emersero chiaramente. Quella figura assolutamente tipica dell'uomo gre­co, la figura di Odisseo, Eschilo l'aveva innalzata al livello d'un Prometeo magnanimo, astuto e nobile: tra le mani dei nuovi poeti decadde al ruolo

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dello schiavo domestico bonario e scaltro, che così spesso sta al centro di tutto il dramma come grande intrigante. Ciò che Euripide nelle Rane di Aristofane si attribuisce a merito, cioè d'aver svotato l'arte tragica e la sua gravità attraverso una cura termale, vale anzitutto per le figure degli eroi: in sostanza lo spettatore sulla scena euripidea vedeva e ascoltava il suo doppio, sia pur ricoperto dell'abbigliamento sfarzoso della retorica. L'i­dealità si è rifugiata nella parola e se n'è sparita dal pensiero. Ma certo qui abbiamo a che fare con il lato luccicante e che salta agli occhi dell'innova­zione euripidea: il popolo ha imparato a parlare da lui, e lui stesso si vanta di ciò nella gara con Eschilo: per merito suo il popolo ora sa

mettersi all'opera secondo le regole dell'arte, ponderare parola per parola osservare, pensare, vedere, capire, raggirare, amare, insinuare, diffidare, negare, esaminare attentamente.

Grazie a lui alla commedia nuova si è sciolta la lingua, mentre fino a Eu­ripide non si sapeva come far esprimere sulla scena in maniera acconcia la vita quotidiana. Il ceto medio borghese, sul quale Euripide fondava tutte le sue speranze politiche, ottiene ora la parola, dopo che fino a quel momen­to nella tragedia a dettar legge quanto al linguaggio era stato il semidio, co­sì come nella commedia antica il Satiro ebbro o il semidio.

Ho rappresentato casa e masseria, luoghi del nostro vivere e agire E mi sono esposto al giudizio dal momento che tutti, conoscitori di queste cose, Hanno giudicato la mia arte.

Addirittura egli si vanta,

Io solo ho instillato ovunque Una tale saggezza, prestando all'arte pensieri e ragionamento: Tale che qui adesso Ognuno filosofa e amministra così intelligentemente casa e masseria e campo e be­

stiame Come non mai: Sempre medita e si chiede Perché? A che? Chi? Dove? Che cosa? Dove sta questo, chi mi ha preso quello?

E fu da una massa preparata e addestrata in tal modo che nacque la commedia nuova, questo drammatico gioco di scacchi tutto basato sul pia­cere dei colpi astuti. Rispetto a questa commedia nuova Euripide è diven­tato in una certa misura il maestro del coro: solo che questa volta era il co­ro degli spettatori a dover farsi esperto. Così, appena questi furono in gra­do di cantare alla maniera di Euripide, ecco fiorire il dramma dei giovani signori pieni di debiti, dei vecchi gaudenti, delle prostitute alla Kotzebue e dei servi prometeici. Come maestro del coro Euripide fu infinitamente ap­prezzato; addirittura ci si sarebbe ammazzati, per imparare ancora da lui, se non si fosse stati consapevoli che i poeti tragici erano morti esattamente come la tragedia. Col che l'uomo greco aveva perduto la fede nella sua im­mortalità, e non solo la fede in un passato ideale, bensì anche la fede in un ideale futuro. Ciò che si legge in una celebre iscrizione tombale: «Da vec­chio fatuo e lunatico» si può dire anche della tarda grecità. L'istante e l'in­venzione sono i suoi dèi più alti; il quinto stato, quello degli schiavi, domi­na la scena, almeno relativamente al modo di sentire.

Con uno sguardo retrospettivo del genere ci si convince facilmente a pronunciare accuse ingiuste ma scottanti contro Euripide come colui che

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avrebbe traviato il popolo e a concludere con qualcosa di simile a questa frase di Eschilo: «Quale male non procede da lui?».

Ma, nonostante quel che possa essere scaturito dalla sua cattiva influen­za, bisogna sempre tener conto del fatto che Euripide si comportò in per­fetta buona fede e in modo grandioso offrì tutta la sua vita a un ideale. Nel modo in cui egli combatté contro un male sterminato, che credette di rico­noscere, nel modo in cui tutto solo si oppose ad esso con la forza del suo talento e della sua vita, in ciò si manifesta ancora una volta lo spirito eroi­co dei tempi di Maratona. Anzi, si può dire che in Euripide il poeta diventa una specie di semidio, dopo che questi, per causa sua era stato bandito dal­la tragedia. Ma quel male sterminato, che egli credette di riconoscere, e contro cui combatté così eroicamente, era il declino del dramma musicale. Ora, dov'è che Euripide scoprì il declino del dramma musicale? Nella tra­gedia di Eschilo e di Sofocle, i suoi più vecchi contemporanei. Il che è mol­to strano. Non ebbe a sbagliarsi? Non sarà stato ingiusto nei confronti di Eschilo e di Sofocle? Non fu forse proprio la sua reazione contro il suppo­sto declino l'inizio della fine? Tutte queste questioni ci si rivelano di colpo.

Euripide era un pensatore solitario, certo non in sintonia con il gusto della massa allora predominante, presso cui anzi egli sollevava dubbi in quanto uomo stravagante. La fortuna gli era propizia tanto poco quanto la massa: e siccome per un poeta tragico di quei tempi la fortuna la faceva la massa, si capisce perché egli durante la sua vita non ebbe quasi mai l'onore della vittoria in una competizione teatrale. Che cosa spingeva controcor­rente un poeta così dotato? Che cosa lo allontanava da una via battuta da uomini come Eschilo e Sofocle e su cui splendeva il sole del favore popola­re? Una cosa sola, e precisamente quella convinzione del declino del dram­ma musicale. L'aveva ricavata, questa, sui banchi degli spettatori a teatro. Da lungo tempo aveva osservato con occhio quanto mai penetrante quale abisso si spalancasse tra una tragedia e il pubblico ateniese. Quanto v'era per il poeta di più alto e di difficile, era sentito dal pubblico non come tale, bensì come qualcosa di insignificante. Si davano però delle combinazioni, non predisposte ad arte dal poeta, che colpivano la massa con effetto im­mediato. Nel riflettere su questa incongruenza tra l'intenzione del poeta e l'effetto, egli pervenne lentamente a una forma d'arte la cui regola princi­pale era: «Tutto dev'essere ragionevole, in modo che tutto possa essere compreso». Così ciascun particolare fu portato davanti al tribunale di que­sta estetica razionalistica, il mito anzitutto, i caratteri principali, la struttu­ra drammaturgica, la musica corale, infine e nel modo più incisivo il lin­guaggio. Ciò che noi non possiamo così spesso non sentire in Euripide, ri­spetto alla tragedia sofoclea, come mancanza poetica e come passo indie­tro, tutto ciò è il risultato di quell'energico processo critico, di quell'arri­schiata razionalità. Si potrebbe dire che qui si ha un esempio di come il re­censore possa diventar poeta. Non, però, che con la parola «recensore» ci si faccia condizionare dall'idea che in noi suscitano quelle creature fiacche e saccenti, le quali non permettono più che il pubblico contemporaneo si pronunci in materia d'arte. Euripide anzi cercava di far meglio dei poeti da lui giudicati: e chi, come lui, non fa seguire alle parole i fatti, ha ben poco diritto di far le sue critiche in pubblico. In questa sede io voglio o posso portare un solo esempio di una tale critica produttiva, anche se in effetti sarebbe necessario precisare quel punto di vista in riferimento a tutte le dif­ferenze del dramma euripideo. Nulla può essere più contrastante con la no­stra tecnica scenica di quanto lo sia il Prologo in Euripide. Che un singolo personaggio, divinità o eroe, il quale entra in scena all'inizio dello spetta-

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colo, racconti chi egli sia, di cosa tratti l'azione, che cosa è già successo e che cosa succederà nel corso della rappresentazione, bene, un drammatur­go moderno definirebbe certamente tutto ciò come una sconsiderata rinun­cia all'effetto della tensione. Si sa già tutto quel che è accaduto e quel che accadrà: chi vorrà aspettare la fine? Ben altrimenti rifletteva Euripide. L'effetto della tragedia antica non poggiava mai sulla tensione, sull'inquie­tante incertezza di ciò che sta per avvenire, ma piuttosto su quelle scene di pàthos grandiosamente strutturate, nelle quali la sostanza musicale del di­tirambo dionisiaco si faceva di nuovo sentire in tutta la sua forza. Ma ciò che impedisce la fruizione di tali scene a un livello di massima intensità, è un anello mancante, una smagliatura nel tessuto dell'antefatto; fin tanto che lo spettatore deve badare attentamente a chi è questa o quella persona o al senso di questa o di quella azione, è impossibile calarsi pienamente in ciò che gli eroi patiscono o fanno, è impossibile insomma la compassione tragica. In Eschilo e in Sofocle per lo più si faceva in modo, con dei sottili artifici, di dare in mano allo spettatore fin dalle prime scene come per caso tutti i fili necessari alla comprensione; col che si esibiva anche quell'alta maestria che per così dire maschera ciò che è necessario, formale. Ma Euri­pide credette comunque di osservare che in quelle prime scene lo spettatore era del tutto a disagio, alle prese con l'indovinello dell'antefatto, sicché per lui la bellezza poetica dell'esposizione andava perduta. Perciò egli scrisse un prologo in forma di programma e lo fece declamare da un personaggio attendibile, una divinità. Così egli potè anche trattare il mito più libera­mente, giacché per mezzo del prologo gli era possibile mettere in chiaro qualsiasi dubbio circa la. sua elaborazione del mito. Nella perfetta consape­volezza di questo suo vantaggio, nelle Rane di Aristofane così Euripide si scaglia contro Eschilo:

E allora io mi rivolgerò ai tuoi prologhi Per poter così criticare di lui, il grande spirito, La prima parte della tragedia! Egli è confuso, quando racconta come stan le cose.

Quel che però vale per il prologo, vale anche per il famigerato deus ex machina: esso delinea il programma del futuro, così come il prologo quello del passato. Tra l'antefatto e il postfatto epici stanno la realtà drammati-co-lirica e il presente.

Euripide è il primo drammaturgo che segue consapevolmente un'esteti­ca. Di proposito egli cerca ciò che è perfettamente comprensibile: i suoi eroi sono nei fatti quel che sono quando parlano. Essi si esprimono total­mente attraverso le parole, là dove invece i personaggi di Eschilo e di Sofo­cle sono assai più profondi e più pieni rispetto alle parole che dicono: pro­priamente essi balbettano su di sé. Euripide dà forma ai personaggi, e nello stesso tempo li decostruisce: di fronte alla sua anatomia essi non hanno più niente di nascosto. Se Sofocle aveva detto di Eschilo ch'egli faceva il giusto pur senza averne coscienza, Euripide avrebbe dovuto dire di lui ch'egli fa­ceva quel che non bisognava fare, poiché non ne aveva coscienza. Ciò che Sofocle nei confronti di Eschilo sapeva di più e ciò che teneva per buono non era niente che andasse al di là dell'ambito dell'artificio tecnico; nessun poeta dell'antichità fino a Euripide era stato nella condizione di giustifica­re le sue migliori trovate con ragioni estetiche. Ed è appunto questo il mira­colo dello sviluppo di tutta l'arte greca: che il concetto, la coscienza, la teo­ria non erano ancora pervenuti ad espressione verbale e tutto ciò che l'al­lievo poteva imparare dal maestro era ricavabile dalla tecnica. In questo senso si può dire che quanto dà a Thorwaldsen quel tono fittizio di antico è

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il fatto ch'egli rifletteva poco, e parlava e scriveva male, che il sapere pro­priamente artistico non gli aveva ancora penetrato la coscienza.

Intorno a Euripide c'è come un alone fosco, che è proprio degli artisti moderni: il carattere quasi non greco della sua arte può essere espresso nel modo più conciso in termini di socratismo. «Tutto dev'essere consapevole, per essere bello», ecco la formula di Euripide, parallela a quella socratica: «Tutto dev'essere consapevole, per essere buono». Euripide è il poeta del razionalismo socratico.

Nell'antichità greca si ebbe il sentimento della reciproca appartenenza di questi due nomi, quello di Socrate e quello di Euripide. Era molto diffusa in Atene l'opinione che Socrate aiutasse Euripide a poetare: dal che si può anche dedurre quanto di socratico venisse finemente percepito nella trage­dia euripidea. I fautori del «buon tempo antico» avevano cura di pronun­ciare in un sol fiato i nomi di Socrate e di Euripide come di corruttori del popolo. Risulta inoltre che Socrate solitamente si asteneva dall'assistere a tragedie, ma era tra gli spettatori se veniva portata in scena una nuova ope­ra di Euripide. In un senso più profondo i due nomi sono messi l'uno ac­canto all'altro nel famoso responso di quell'oracolo delfico che produsse un effetto decisivo sulla concezione della vita di Socrate. La parola del dio delfico, in base alla quale Socrate risultava il più saggio degli uomini, con­teneva anche il giudizio che toccasse ad Euripide il secondo premio nella gara della saggezza.

Si sa quanto Socrate sulle prime fosse diffidente nei confronti del verdet­to del dio. Per vedere se il dio aveva ragione, egli si recò dagli uomini di Stato, dagli oratori, dai poeti e dagli artisti, in modo da verificare se non ci fosse uno più saggio di lui. Ma la parola del dio la trova giustificata ovun­que: vede i più celebri uomini del suo tempo esibire un alto concetto di sé e scopre ch'essi non hanno neppure un'effettiva consapevolezza della loro attività, ma agiscono solo per istinto. «Solo per istinto», ecco il chiodo su cui batte il socratismo. Mai come in quella tendenza della vita di Socrate, il razionalismo si è mostrato più ingenuo. Mai in questo orizzonte è venuto un dubbio circa la giustezza della posizione del problema nel suo insieme. «Saggezza è sapere»; e «non si sa, ciò che non si può esprimere e ciò di cui non si può persuadere altri». Questo è più o meno il principio di quella strana attività missionaria di Socrate, che dovette raccogliere intorno a sé una nube della più cupa irritazione, certamente perché nessuno era in gra­do di impugnare il principio stesso contro Socrate: per questo si sarebbe dovuto avere ciò che appunto non si aveva, quella superiorità socratica nell'arte della disputa, nella dialettica. A partire dall'infinitamente appro­fondita coscienza germanica quel socratismo appare come un mondo del tutto capovolto; ma è da supporre che già anche ai poeti e agli artisti di quei tempi Socrate dovesse presentarsi per lo meno come molto noioso e ri­dicolo, per lo meno quando con la sua sterile euristica faceva valere la se­rietà e la dignità di una vocazione divina. I fanatici della logica sono insop­portabili come vespe. E ora si pensi a una volontà smisurata dietro un in­telletto così unilaterale, così come alla forza originaria d'un carattere in­flessibile in una deformità d'aspetto stranamente attraente: e si potrà capi­re come un così grande talento come Euripide precisamente dalla serietà e dalla profondità del suo pensiero potesse essere trascinato quasi inevitabil­mente sulla via scoscesa d'un fare artistico cosciente. Il declino della trage­dia, come Euripide credette di vederlo, era una fantasmagoria socratica: poiché nessuno sapeva tradurre adeguatamente in concetti e parole la sa­pienza dell'antica tecnica artistica, Socrate e con lui il plagiato Euripide

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negarono quella sapienza. A quella «sapienza» senza verifiche Euripide so­vrappose l'opera d'arte socratica, però sotto la scorza di numerosi acco­modamenti rispetto alla opera d'arte allora dominante. Ma la generazione successiva riconobbe giustamente quel ch'era scorza e quel ch'era noccio­lo: gettò via la prima e da essa venne fuori come frutto del socratismo arti­stico il gioco di scacchi teatrale, l'opera di intrigo.

Il socratismo disprezza l'istinto e perciò l'arte. Esso nega la sapienza proprio là dov'è il suo regno specifico. In un solo caso Socrate stesso ha ri­conosciuto la forza della sapienza istintuale, e questo certo in maniera ca­ratteristica. Socrate raggiunse in determinate situazioni, in cui il suo intel­letto diventava dubbioso, un sicuro punto d'appoggio attraverso una voce demonica che gli si manifestava prodigiosamente. Una voce, questa, che quando viene sempre dissuade. Tale sapienza inconscia dunque fa sentire la sua voce presso quest'uomo del tutto fuori della norma, per contrappor­si qua e là a ciò che è cosciente, facendo impedimento. Anche qui risulta chiaro come Socrate appartenga a un mondo capovolto e poggiato sulla te­sta. In tutte le nature produttive l'inconscio agisce infatti creativamente e affermativamente, là dove la coscienza ha il compito della critica e della dissuasione. In lui l'istinto diviene il momento critico, la coscienza quello creatore.

Il disprezzo socratico per ciò che è istintivo ha suggerito anche a un se­condo genio, oltre che a Euripide, una riforma dell'arte a dire il vero ancor più radicale. Perfino il divino Platone su questo punto è caduto vittima del socratismo: egli, che nell'arte fino a lui non vedeva che imitazione di appa­renze, ridusse la «sublime e altamente apprezzata» tragedia — come lui si esprime — all'ambito delle arti adulatorie, le quali si curano solo di rap­presentare il piacevole, ciò che solletica la natura sensibile, e non ciò che è spiacevole ma nello stesso tempo utile. Su questa base del tutto deliberata­mente egli fa un solo fascio dell'arte tragica con quella dell'abbigliamento e quella culinaria.

Un'arte così composita e vivace ripugna a un animo assennato ed è una pericolosa tentazione per chi sia delicato e sensibile: ecco la ragione suffi­ciente a bandire i poeti tragici dallo Stato ideale. Secondo lui in generale gli artisti appartengono a un ampliamento eccessivo del corpo dello Stato, esattamente come le balie, le acconciatrici, i barbieri e i pasticcieri. La con­danna dell'arte, intenzionalmente cruda e sbrigativa, ha in Platone qualco­sa di patologico: egli, che si è innalzato a quel punto di vista in una sorta di furia distruttiva contro la sua stessa carne, egli che ha calpestato la sua in­dole profondamente artistica in onore del socratismo, mostra nella crudez­za di quel giudizio che le profonde ferite nel suo essere non sono ancora ri­marginate. La vera potenza creatrice del poeta, in quanto incapace di pe­netrare consapevolmente l'essenza delle cose, è da Platone trattata per lo più ironicamente e assimilata al talento degli indovini e degli astrologi. II poeta non è infatti in grado di poetare, finché non ha raggiunto l'ispirazio­ne e perso la coscienza, e prima che in lui non cessi d'essere presente l'intel­letto. A questi artisti «irrazionali» Platone contrappone la figura dell'arti­sta autentico, il filosofo, e lascia capire senza mezzi termini che è proprio lui quegli che ha raggiunto questo ideale e quegli i cui Dialoghi potranno essere letti nello Stato perfetto. L'essenza dell'opera d'arte platonica, il dialogo, è però la mancanza di forma e di stile ottenute attraverso la mistu­ra di tutti i precedenti forme e stili. Alla nuova opera d'arte non si doveva imputare ciò che secondo la concezione platonica era il difetto principale dell'antica: non doveva essere imitazione d'un'apparenza e cioè, secondo il

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concetto comune, non doveva darsi per il dialogo platonico niente di natu­ralistico che fosse oggetto d'imitazione. Così egli oscilla tra tutti i generi d'arte, tra prosa e poesia, racconto, lirica, dramma, allo stesso modo in cui ha spezzato la rigorosa antica legge della forma linguistica — stilistica­mente — unitaria. Gli scrittori cinici poi porteranno il socratismo a una de­formazione ancora più grande: essi cercheranno nei più marcati contrasti stilistici e nell'oscillazione tra forme prosaiche e forme metriche di rispec­chiare anche quell'aspetto esteriore di Socrate che lo faceva simile a un Si­leno, quei suoi occhi da granchio, quelle sue labbra a cuscinetto e quel suo ventre cadente.

Chi farà attenzione all'influsso antiartistico del socratismo, un influsso radicantesi in profondità anche se qui se ne fa solo un cenno, non potrà non dar ragione ad Aristofane, quando fa cantare al coro:

Viva chi con Socrate Non vuol sedere e discutere Chi non disprezza l'arte delle Muse E non guarda schifato dall'alto in basso Il più alto momento della tragedia! Proprio una bella follia questa, Prestare una diligenza inoperosa A discussioni boriose e vuote E a un astratto almanaccare.

Ma quanto di più profondo si poteva dire a Socrate, glielo disse un so­gno. Spesso capitava a Socrate, com'egli stesso ebbe a raccontare agli ami­ci in prigione, di sognare lo stesso sogno, dove gli veniva detta sempre la stessa cosa: «Socrate, fa' della musica!». Socrate fino ai suoi ultimi giorni si è attenuto all'opinione secondo cui la sua filosofia sarebbe la musica più alta. Finalmente in prigione, per sgravarsi l'animo, si adattò anche a que­sto, a coltivare quella musica «volgare». E in effetti tradusse in versi certe favole in prosa che conosceva; ma io non credo che con questi esercizi me­trici si sia riconciliato con le Muse.

In Socrate prende corpo quel particolare aspetto della grecità, quella chiarezza apollinea, senza nessuna commistione estranea; egli risplende co­me un raggio di luce perfettamente trasparente, come il messaggero e l'a­raldo della Scienza, che proprio in Grecia doveva avere la sua nascita. Ma la scienza e l'arte si escludono a vicenda: da questo punto di vista è signifi­cativo che Socrate sia il primo grande greco ad essere brutto, tutto essendo in lui simbolico. Egli è il padre della logica, la quale presenta nel modo più generale il carattere della scienza; egli è il distruttore del dramma musicale, che aveva radunato in sé i raggi di tutta l'arte antica.

Egli è distruttore del dramma musicale in un senso anche più profondo di quanto si sia finora potuto dire. Il socratismo è più antico di Socrate; il suo influsso dissolv'itore dell'arte si fa notare già da molto prima. L'ele­mento, a lui proprio, della dialettica già molto tempo prima di Socrate si era insinuato nel dramma musicale e aveva prodotto guasti in quel bel cor­po. La degenerazione incomincia dal dialogo. Notoriamente il dialogo non è originario nella tragedia; è solo da quando si danno due attori insieme, cioè relativamente tardi, che si sviluppa il dialogo. Già prima esisteva un che di analogo nello scambio di battute tra l'eroe e il corifeo: tuttavia qui il contrasto dialettico era impossibile per via della subordinazione dell'uno all'altro. Ma non appena due personaggi principali dello stesso livello stet­tero uno di fronte all'altro, esplose, in conformità ad un impulso profon­damente ellenico, la competizione e precisamente la competizione fatta di

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parole e di argomenti: il dialogo d'amore, invece, rimase sempre estraneo alla tragedia greca. Con questa competizione si faceva appello a un ele­mento nel cuore dello spettatore che fino ad allora era stato bandito dallo spazio sacrale delle arti drammatiche come nemico dell'arte e inviso alle muse: la «cattiva» Eris. La buona Eris da tempo immemorabile faceva da padrona in tutte le attività musicali e nella tragedia portava tre poeti in competizione tra di loro dinanzi al popolo riunito per giudicare. Ma non appena il riflesso del disputare dall'aula del tribunale si trasferì nella trage­dia, ecco scaturire per la prima volta un dualismo nell'essenza e nell'effet­to del dramma musicale. Da allora in poi ci furono parti della tragedia nel­le quali la compassione si ritirava di fronte al piacere solare del tintinnante gioco d'armi della dialettica. L'eroe del dramma non poteva soccombere, adesso doveva quindi diventare un eroe della parola. Il processo ch'era co­minciato con la cosiddetta sticomitia, andò avanti e si travasò anche nei più lunghi discorsi degli attori principali. Gradualmente tutti i personaggi prendono a parlare con una tale esibizione di sagacia, di lucidità e di acu­tezza che a leggere una tragedia di Sofocle c'è veramente di che restar con­fusi. Per noi è come se tutte queste figure andassero in rovina non in base al tragico, ma per una sorta di superfetazione dell'elemento logico. Si può fare un confronto di come gli eroi di Shakespeare dialettizzino in tutt'altro modo: su tutti i loro pensieri, congetture, conclusioni c'è come un'aria di bellezza musicale e di spiritualizzazione, mentre nella tragedia greca più tarda domina un dualismo stilistico piuttosto ambiguo, qui la potenza del­la musica, là quella della dialettica. Quest'ultima si fa avanti con sempre maggior prepotenza, finché non dice la parola conclusiva anche sulla strut­tura del dramma stesso. Il processo culmina nell'opera d'intrigo: col che per la prima volta quel dualismo è interamente superato, grazie all'annien­tamento totale d'uno dei due contendenti, la musica.

Ora, è molto significativo che questo processo, il quale pure inizia nella tragedia, giunga a termine nella commedia. La tragedia, scaturita dalla profonda fonte della compassione, nella sua essenza è pessimistica. L'esi­stenza è in essa qualcosa di molto terribile, l'uomo qualcosa di assai folle. L'eroe della tragedia non appare, come si figura l'estetica moderna, in lot­ta contro il destino, e altrettanto ciò di cui soffre non è qualcosa ch'egli ab­bia meritato. Anzi, egli precipita nella sciagura cieco e con gli occhi benda­ti: e il suo atteggiamento disperato ma nobile, con il quale continua a stare di fronte a questo mondo d'orrore, s'imprime come un aculeo nella nostra anima. La dialettica invece per sua stessa natura è ottimistica-, essa crede alla causa e a quel che ne deriva, crede dunque a un rapporto necessario di colpa e punizione, virtù e felicità. I suoi conti devono tornare senza resto: essa nega tutto ciò che non si lasci analizzare in concetti. La dialettica rag­giunge in ogni caso il suo scopo; qualsiasi conclusione è il suo giubileo, chiarezza e consapevolezza è la sola aria nella quale possa respirare. Quan­do questo elemento penetra nella tragedia, ne scaturisce un dualismo come tra il giorno e la notte, la musica e la matematica. L'eroe, che deve difen­dere il suo operare con ragioni e controragioni, rischia di perdere la nostra compassione: giacché l'infelicità che poi, nonostante tutto, lo travolge, prova appunto soltanto che da qualche parte egli ha sbagliato i calcoli. Ma l'infelicità che deriva da un errore di calcolo non è già più che un motivo da commedia. Non appena il piacere per la dialettica ebbe smembrato la tragedia, nacque la nuova commedia con il suo inesauribile trionfo dell'a­stuzia e della scaltrezza.

La coscienza socratica e la sua fede ottimistica circa il legame necessario

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di virtù e sapere, di felicità e di virtù ha avuto l'effetto, su buona parte del­le opere di Euripide, di aprirsi nell'epilogo alla prospettiva d'un'esistenza ulteriore del tutto confortevole, per lo più grazie a un matrimonio. Non appena il dio appare sulla macchina, notiamo che dietro la maschera fa ca­polino Socrate, il quale sulla sua bilancia cerca di pareggiare felicità e vir­tù. Tutti conoscono la tesi di Socrate: «Virtù è sapere: si pecca solo per ignoranza. Felice è il virtuoso». In queste tre fondamentali forme dell'otti­mismo c'è la morte della tragedia pessimistica. Ben prima di Euripide, con­cezioni come queste avevano lavorato alla dissoluzione della tragedia. Se virtù è sapere, l'eroe virtuoso dev'essere un dialettico. Nell'ambito della straordinaria piattezza e della povertà d'un pensiero etico per niente svi­luppato, troppo spesso l'eroe che dialettizza eticamente appare come un araldo della banalità morale e del filisteismo. Perciò bisogna avere il co­raggio di prendere atto e di confessare che, per tacere assolutamente di Eu­ripide, anche le più belle figure della tragedia sofoclea, un'Antigone, un'E­lettra, un Edipo, si lasciano andare a una serie di pensieri insopportabil­mente banali, e che certamente i caratteri drammatici sono più belli e più nobili di quanto non appaiano nelle loro parole. Muovendo da questo pun­to di vista, il nostro giudizio dovrà al contrario essere più generoso nei con­fronti della più antica tragedia eschilea: è per questo che Eschilo ha pro­dotto il suo meglio inconsciamente. Noi abbiamo appunto nel linguaggio e nelle caratterizzazioni di Shakespeare un punto di riferimento sicurissimo per paragoni del genere. In lui si trova una saggezza etica, al cui confronto il socratismo rivela un che di saccente e di presuntuoso.

Di proposito nella mia ultima conferenza ho detto poco sui limiti della musica nel dramma musicale greco: insieme con la presente trattazione, sa­rà ora facile comprendere in che senso abbia indicato nei limiti della musi­ca nel dramma musicale il punto pericoloso a partire dal quale incomincia il processo di dissoluzione. La tragedia soccombette a causa di una dialetti­ca e di un'etica ottimistiche: si può dunque dire altrettanto che: il dramma musicale soccombette per una mancanza di musica. Il socratismo introdot­tosi nella tragedia ha impedito che la musica si fondesse con il dialogo e il monologo, anche se nella tragedia eschilea si era avuto, a questo proposi­to, un inizio di molto successo. Di nuovo, una conseguenza fu che la musi­ca, sempre più soffocata e costretta entro limiti sempre più angusti non si sentì più a casa propria nella tragedia, e si sviluppò piuttosto al di fuori di essa, in maniera più libera e più audace, come arte assoluta. È ridicolo far apparire un fantasma all'ora di pranzo; è ridicolo pretendere che una Mu­sa così piena di mistero e così seriamente ispirata com'è la Musa della mu­sica tragica debba cantare nell'aula del tribunale, nelle pause tra le contese dialettiche. Nel sentimento di questo ridicolo la musica nella tragedia am­mutolisce, come spaventata-dalia sua inaudita profanazione; sempre più di rado essa osa far sentire la sua voce, alla fine anzi essa si confonde, canta cose che non appartengono alla tragedia, si vergogna di sé e fugge per sem­pre dagli spazi teatrali. Per parlare nella maniera più scoperta, la fioritura e il punto più alto del dramma musicale greco è Eschilo nel suo primo grande periodo, prima ch'egli fosse a sua volta influenzato da Sofocle: con Sofocle inizia un declino graduale, finché alla fine Euripide con la sua rea­zione consapevole alla tragedia eschilea chiude precipitosamente la partita.

Questo giudizio va controcorrente solo rispetto a una diffusa estetica odierna: in verità a questo proposito può essere fatta valere una testimo­nianza non certo di poco conto, quella di Aristofane, il quale è elettiva-

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mente affine ad Eschilo come nessun altro. Si sa, solo il simile riconosce il simile.

Per concludere un'ultima questione. Il dramma musicale è realmente morto, morto per tutti i tempi? Davvero deve il tedesco non poter mettere accanto a quella scomparsa opera d'arte del passato altro che la «grande opera», più o meno come accanto a Ercole era solita apparire la scimmia? È questa la questione più seria che si ponga alla nostra arte: e chi come te­desco la serietà di questa questione [testo interrotto, N.d.T.]

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La visione dionisiaca del mondo

1.

I Greci, che nello stesso tempo si pronunciano e tacciono sulla dottrina esoterica della visione del mondo che riguarda i loro dèi, hanno posto co­me doppia fonte della loro arte due divinità, Apollo e Dioniso. Questi no­mi rappresentano nel campo dell'arte due poli opposti d'ordine stilistico, che si presentano quasi sempre in lotta l'un con l'altro e che solo una volta, nel momento della fioritura della «volontà» ellenica, appaiono fusi nell'o­pera d'arte della tragedia attica. In effetti sono due gli stati in cui l'uomo raggiunge il sentimento estatico dell'esistenza: il sogno e l'ebbrezza. La bella apparenza del mondo del sogno, in cui ciascun uomo in tutto e per tutto è artista, è l'origine di ogni arte figurativa e, come vedremo, anche di una metà importante della poesia. Noi godiamo la forma in una compren­sione immediata, tutte le forme anzi ci parlano; non c'è nulla di interscam­biabile e di non necessario. Nella vita più alta di questa realtà di sogno tut­tavia noi abbiamo ancora il trasparente sentimento del suo essere apparen­za; sentimento, questo, che non appena viene a mancare dà via libera agli effetti patologici, dove il sogno non è più ristoratore e dove la forza risana-trice della natura cessa. Ma, entro quei limiti, non sono soltanto le imma­gini piacevoli e gioiose quelle che noi cerchiamo in noi con quella assenna­tezza che è di tutti: no, anche il serio, il triste, il torbido, l'oscuro sono os­servati con lo stesso piacere, solo che appunto anche qui il velo dell'appa­renza dev'essere leggermente mosso e le forme fondamentali della realtà non possono essere interamente coperte. Dunque, mentre il sogno è il gio­co d'un singolo uomo con il reale, l'arte dell'artista figurativo (in un senso più ampio) è il gioco con il sogno. La statua come blocco di marmo è qual­cosa di molto reale, ma la realtà della statua come figura di sogno è la vi­vente persona del dio. Finché la statua come immagine fantastica sta da­vanti agli occhi dell'artista, egli gioca ancora con il reale; ma quando tra­duce questa immagine nel marmo, egli gioca con il sogno.

Ora, in che senso Apollo poteva essere considerato dio dell'arte? Solo in quanto egli è il dio delle rappresentazioni del sogno. Egli è in ogni caso il «risplendente»: nella sua radice più profonda è il dio del sole e della luce, che si rivela nello splendore. La «bellezza» è il suo elemento: eterna giovi­nezza gli è propria. Ma anche la bella apparenza del mondo del sogno è il suo regno: la più alta verità, la perfezione di questi stati in opposizione alla malcomprensibile realtà diurna, lo sollevano al rango di dio profetico, ma appunto perciò anche al rango di dio artistico. Il dio della bella apparenza deve essere anche il dio della conoscenza vera. Ma quel limite appena ac­cennato, che l'immagine di sogno non può oltrepassare senza cadere nel patologico, là dove non solo illude ma anche inganna, non può mancare all'essenza di Apollo: è quella limitazione misurata, quella libertà dagli im­pulsi più selvaggi, quella saggezza e calma del dio plastico. Il suo occhio

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dev'essere «solarmente» quieto: anche quando è in collera e il suo sguardo è pieno d'ira, su di lui sta la sacralità della bella apparenza.

L'arte dionisiaca invece è basata sul gioco con l'ebbrezza, con l'estasi. Sono soprattutto due le potenze che innalzano l'ingenuo uomo naturale al­l'oblio di sé proprio dell'ebbrezza: l'impulso primaverile e la pozione nar­cotica. I loro effetti sono simbolizzati nella figura di Dioniso. Il princi-pium individuationis viene soppresso in entrambi gli stati, il soggettivo si dissolve completamente di fronte alla straripante potenza dell'umano — in — generale, anzi del naturale in generale. Le feste dionisiache non saldano soltanto il legame tra uomo e uomo, conciliano anche l'uomo con la natu­ra. La terra offre spontaneamente i suoi doni, i più selvaggi ammali si av­vicinano con fare pacifico. 11 carro di Dioniso, tutto coperto di fiori, è trai­nato da tigri e pantere. Tutte le divisioni di casta, imposte tra gli uomini dalla necessità o dall'arbitrio, spariscono: lo schiavo è un uomo libero, l'a­ristocratico e il plebeo si uniscono insieme negli stessi cori bacchici. Di luo­go in luogo e in sempre più crescenti schiere si danza il vangelo dell'«armo-nia universale»: cantando e ballando l'uomo si esprime come membro di una più alta e più ideale comunità: egli ha perduto la misura del cammina­re e del parlare. Non solo: egli si sente come dentro un incantesimo ed è ve­ramente diventato un altro. Così come gli animali parlano e la terra dà lat­te e miele, allo stesso modo anche da lui emana qualcosa di soprannatura­le. Egli si sente un dio, e ciò che già aveva vissuto nella sua immaginazione, ora lo sperimenta in se stesso. Che cosa sono per lui, ora, ritratti e statue? L'uomo non è più artista, è diventato opera d'arte, e così inebriato ed esta­siato, si aggira come in sogno aveva visto aggirarsi gli dèi. La potenza arti­stica della natura, non già quella di un singolo uomo, -gli si svela: un'argilla più nobile, un marmo più prezioso viene qui lavorato e digrossato: l'uo­mo. Quest'uomo, plasmato da quell'artista che è Dioniso, sta alla natura come la statua all'artista apollineo.

Ora, se l'ebbrezza è il gioco della natura con l'uomo, la creazione del­l'artista dionisiaco è il gioco con l'ebbrezza. Questo stato si lascia concepi­re solo per analogia, quando non lo si sia sperimentato in se stessi: è qual­cosa di simile a ciò che accade quando si sogna e si sa di sognare. Così il fe­dele di Dioniso deve lasciarsi andare all'ebbrezza e nello stesso tempo star fuori di sé, come una spia che osserva. Non nel passaggio dalla sobrietà al­l'ebbrezza, bensì nella loro coesistenza si mostra l'artisticità dionisiaca.

Questa coesistenza designa il punto più alto dell'ellenismo: originaria­mente in Grecia solo Apollo è il dio dell'arte, ed è tale che grazie alla sua potenza quel Dioniso veniente dall'Asia come una tempesta è contenuto al punto che tra i due potè sorgere un legame fraterno. Qui si può capire nel modo più elementare l'incredibile idealismo della grecità: un culto natura­listico, che presso i popoli dell'Asia aveva il senso del più crudo scatena­mento dei bassi istinti, insomma un'esperienza animalesca e orgiastica in grado di spezzare per qualche tempo tutti i vincoli sociali, divenne presso di loro una sagra della redenzione del mondo, un giorno di trasfigurazio­ne. Tutti i sublimi impulsi della loro natura si manifestarono in questa idealizzazione dell'orgia.

Mai però la grecità si trovò in più grave pericolo come all'arrivo tempe­stoso del nuovo dio. Mai più, d'altra parte, la saggezza dell'Apollo delfico si sarebbe mostrata in una luce più bella. Dapprima Apollo, che gli era contrario, tese intorno al potente oppositore una rete finissima, in modo che questi non s'accorgesse d'andare in giro semiprigioniero. Quando poi i sacerdoti di Delfi compresero il nuovo culto nei suoi profondi influssi sul

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processo di rigenerazione sociale e lo incentivarono in conformità della lo­ro prospettiva politico-religiosa, quando l'artista apollineo con intelligente senso della misura si mise alla scuola dell'arte rivoluzionaria dei culti bac­chici, quando infine il dominio annuale nell'ordinamento cultuale delfico fu diviso tra Apollo e Dioniso, i due dèi risultarono entrambi vincitori nel­la loro contesa: una conciliazione sul campo di battaglia. Quando si voglia vedere nella sua giusta prospettiva come fortemente l'elemento apollineo abbia sottomesso ciò che in Dioniso è irrazionalmente soprannaturale, bi­sogna pensare al fatto che nell'epoca più antica della musica il ghénos di-thurambìkon era nello stesso tempo Yesuchastikòn. Quanto più robusta­mente crebbe lo spirito artistico apollineo, tanto più liberamente si svilup­pò il dio fratello Dioniso: così, quando il primo pervenne a una concezione piena e in un certo senso immutabile della bellezza all'epoca di Fidia, il se­condo portò alla luce nella tragedia gli enigmi e gli orrori del mondo e nella musica tragica espresse quel linguaggio più intimo della natura che è l'ordi­to del «volere» dentro e al di sopra di tutte le apparenze.

Posto che la musica sia anche arte apollinea, allora questo in senso stret­to si dovrà dire soltanto del ritmo, la cui potenza figurativa è stata svilup­pata fino alla rappresentazione di stati apollinei: la musica di Apollo è ar­chitettura per mezzo di suoni, e tuttavia per mezzo di suoni appena accen­nati, come sono i suoni della cetra. Prudentemente è fatto tacere proprio l'elemento che esprime il carattere della musica dionisiaca e addirittura del­la musica in generale, la commovente potenza del suono e il mondo assolu­tamente incomparabile dell'armonia. Per questa i greci avevano la più fine sensibilità, come noi apprendiamo considerando la rigida caratterizzazione della tonalità, per quanto il bisogno di un'armonia eseguita, risuonante realmente, fosse per loro molto meno rilevante che non nel mondo moder­no. Nella serie armonica e anzi già in quella sua riduzione che è la melodia, la «volontà» si manifesta del tutto immediatamente, senza prima essersi in­carnata in un'apparenza. Ciascun individuo può valere come simbolo, os­sia come caso specifico per una regola generale: al contrario l'artista dioni­siaco esporrà l'essenza dell'apparente come immediatamente comprensibi­le. Egli padroneggia il caos del volere non ancora pervenuto alla forma e da esso può trarre in ciascun momento creativo un nuovo mondo, così co­me quello antico, in quanto apparenza. In quest'ultimo senso è un musici­sta tragico.

Nell'ebbrezza dionisiaca, nell'irresistibile vortice di tutta la gamma delle sfumature dell'anima a seguito dell'eccitazione narcotica o nello svincolo degli impulsi primaverili, la natura si manifesta nella sua potenza più alta: essa di nuovo lega i singoli esseri gli uni agli altri e fa in modo che si senta­no un tutt'uno, sicché il principium individuationis appare come uno stabi­le stato di depotenziamento del volere. E quanto più depotenziato è il vole­re, tanto più tutto si scioglie nella particolarità, tanto più l'individuo si svi­luppa in modo egoistico e arbitrario, tanto più debole è l'organismo al quale esso serve. In quegli stati emerge quella che è la tendenza sentimenta­le del volere, un «sospirare della creatura» per ciò che ha perduto: è dal piacere più alto che si sprigiona il grido dell'orrore, il lamento pieno di no­stalgia per una perdita irreparabile. L'esuberante natura celebra i suoi sa­turnali e nello stesso tempo la sua sagra di morte. Le emozioni dei suoi sa­cerdoti sono meravigliosamente mischiate, dolore suscita gioia, mentre il giubilo strappa dal petto accenti pieni di affanno. Il dio, o lùsios, tutto li­bera da sé, tutto trasforma. Il canto e la mimica di masse eccitate in tal modo, nelle quali la natura trovava voce e movimento, fu per il mondo

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greco dell'epoca omerica qualcosa di inaudito; c'era qualcosa di orientale con la sua smisurata potenza ritmica e figurativa che esso doveva anzitutto domare, come del resto già aveva domato in un certo senso lo stile egiziano nella costruzione dei templi. Fu il popolo apollineo a serrare nelle catene della bellezza quell'istinto dirompente: esso sottomise al giogo gli elementi più pericolosi della natura, le sue bestie più selvagge. Nulla di più stupefa­cente della capacità di idealizzazione della grecità, se si paragona la sua spiritualizzazione delle feste dionisiache con quanto è sorto presso altri po­poli da una stessa origine. Feste del genere sono antichissime e comprova­bili dappertutto, in primo luogo a Babilonia sotto il nome di Sacee. Qui nei cinque giorni di festa qualsiasi vincolo sociale e statale veniva spezzato; ma il centro consisteva nella sfrenatezza sessuale, nella negazione di tutti i le­gami familiari attraverso un'incontenibile sregolatezza. A fronte sta l'im­magine delle feste dionisiache dei Greci, così com'è tratteggiata da Euripi­de nelle Baccanti: da essa si sprigiona la stessa seduzione, la stessa ebbrez­za musicale trasfigurante, che Scopa e Prassitele hanno concretato nelle statue. Un araldo racconta di essersi portato con le greggi nel pieno merig­gio sulle cime dei monti: è il momento giusto e il luogo giusto per vedere l'invisibile; ora Pan dorme, ora il cielo è il fondo immobile di uno splendo­re, ora il giorno fiorisce. Su di un prato alpestre l'araldo nota tre cori di donne che giacciono qua e là distese in posizione assai composta: molte di queste donne stanno appoggiate a tronchi di abete e tutte sono assopite. Improvvisamente la madre di Penteo comincia a gioire, il sonno si dissipa, tutte si alzano, un vero esempio di nobili costumi; le giovani fanciulle e le donne lasciano cadere le loro capigliature sulle spalle, la pelle di capriolo è rimessa in ordine, nel caso durante il sonno i lacci e i nodi si fossero sciolti. Ci si cinge di serpenti, che accarezzano le gote con dimestichezza, alcune donne prendono in braccio lupacchiotti e piccoli caprioli e li allattano. È tutto un adornarsi con corone e ghirlande, un colpo col tirso sulla roccia e ne scaturisce acqua, un urto col bastone nel suolo e ne zampilla una fonte di vino. Dolce miele stilla dalle fronde, non appena qualcuno sfiora la su­perficie della terra con la punta delle dita, ne sgorga latte bianco come ne­ve. — Questo è davvero un mondo magico, dove la natura celebra la sua festa di riconciliazione con l'uomo. Il mito dice che Apollo ha di nuovo ri­composto Dioniso fatto a pezzi. Questa è l'immagine di Dioniso che Apol­lo ricrea e trae in salvo dopo il suo smembramento asiatico. —

2.

Gli dèi greci nella loro compiutezza, quale già ci è dato incontrare in Omero, certo non sono da intendere come figli della necessità e del biso­gno: tali esseri non sono certo stati inventati da un animo angosciato, e non è che una geniale fantasia abbia proiettato le sue immagini in cielo per sottrarsi alla vita. In esse parla una religione della vita, non del dovere o dell'ascesi o della spiritualità. Tutte queste figure diffondono il trionfo del­l'esistenza, un sentimento esuberante della vita accompagna il loro culto. Esse non esigono niente: in esse l'esistente è divinizzato, indipendentemen­te dal fatto se sia buono o cattivo. Commisurata alla serietà, alla sacralità e all'austerità di altre religioni, quella greca corre il rischio di essere sottova­lutata come una fantasticheria giocosa — se non si mette in chiaro un trat­to, spesso disconosciuto, di profondissima sapienza, per mezzo del quale quelle divinità epicuree appaiono senz'altro come la creazione di un incom­parabile popolo di artisti e quasi come la più alta creazione in assoluto. È

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la filosofia del popolo, quella che l'incatenato dio dei boschi svela ai mor­tali: «La cosa migliore è non essere nati, altrimenti, morire presto». È una filosofia del genere quella che fa da sfondo a quel mondo di dèi. Il greco conosceva gli orrori e le atrocità dell'esistenza, ma li velava, per poter vive­re: una croce occultata tra le rose, secondo il simbolo goethiano. Che l'im­magine d'un Olimpo luminoso si sia imposta, deriva dal fatto che si dove­va nascondere, per mezzo di figure solari come quelle di Zeus, Apollo, Hermes ecc., quell'oscuro dominio della moira che è causa per Achille d'u­na morte precoce e per Edipo d'una unione nefasta. Se l'apparenza artisti­ca di quel mondo di mezzo fosse stata soppressa, allora si sarebbe dovuto adottare la sapienza del dio dei boschi, del seguace dionisiaco. Ecco la ne­cessità in base alla quale il genio artistico di questo popolo ha creato tali dèi. Per questa ragione una teodicea non ha mai fatto problema per i Gre­ci: ci si guardò dall'imputare agli dèi l'esistenza del mondo e dunque la re­sponsabilità per com'esso è fatto. Anche gli dèi sono soggetti àìVanànke: questa è una dichiarazione di rara sapienza. Vedere la propria esistenza co­sì com'essa è ma in uno specchio trasfigurante e con questo specchio ripa­rarsi dalla Medusa — era questa la geniale strategia della «volontà» elleni­ca in generale per poter vivere. Come altrimenti avrebbe infatti potuto sop­portare l'esistenza quel popolo così infinitamente sensibile e così luminosa­mente predisposto al dolore, se la stessa cosa non gli fosse apparsa nei suoi dèi come trasfigurata da una gloria più alta! Lo stesso impulso che chiama l'arte alla vita come completamento e perfezionamento che invogliano a una vita ulteriore, fece sorgere altresì il mondo olimpico, un mondo della bellezza, della calma, del piacere.

Per effetto di una tale religione, nel mondo greco la vita viene concepita come qualcosa che è desiderabile di per sé: la vita sotto il chiaro bagliore solare di simili dèi. Il dolore dell'uomo omerico si definisce a partire dal congedo da questa esistenza, soprattutto quando il congedo è prematuro: in generale, se si levano lamenti, è per «Achille dalla breve vita», per il ra­pido trapasso delle generazioni, per la fine dei tempi eroici. Non è indegno dei più grandi eroi aspirare a una continuazione della vita, foss'anche una vita da servi. La «volontà» non si è mai espressa così apertamente come presso i Greci, dove anche il lamento è un inno in sua lode. Perciò l'uomo moderno ha nostalgia per quel tempo in cui crede di sentire il perfetto ac­cordo di uomo e di natura; perciò è in un orizzonte greco che si trova la pa­rola decisiva per tutti coloro che cercano modelli luminosi per la loro con­sapevole affermazione della volontà; perciò è dalle mani di scrittori sen­suali che vien fuori il concetto di «serenità greca», sicché una vita scape­strata e oziosa trova modo in un certo senso irriverente di giustificarsi e an­zi di nobilitarsi con la parola «greco».

In tutte queste rappresentazioni, che degenerano da ciò che è più nobile a ciò che è più volgare, lo spirito greco è colto con rozzezza e in maniera semplicistica e in una certa misura sulla base di immagini che ne hanno da­to popoli privi di ambiguità e insomma tutti d'un pezzo (i romani, per esempio). Tuttavia il bisogno di apparenza artistica dovrebbe essere dato per scontato nella visione del mondo d'un popolo capace di trasformare in oro tutto quello che tocca. Del resto in questa visione del mondo s'incontra realmente, come già accennato, una sconfinata illusione, la stessa di cui la natura si serve così regolarmente nel perseguimento dei suoi scopi. La vera meta viene occultata da un'immagine di sogno: verso questa noi tendiamo le mani, e la natura ottiene quella grazie al nostro inganno. Presso i Greci la volontà ha voluto intuirsi come trasfigurata in opera d'arte: per esaltare

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se stessa, i suoi prodotti dovettero sentirsi degni di esaltazione, dovettero vedersi riflessi in una sfera più alta, quasi innalzati alla sfera dell'ideale, senza che questo mondo perfetto dell'intuizione valesse da imperativo o da rimprovero. Questa è là sfera della bellezza, nella quale essi scorgono le lo­ro immagini speculari, gli Olimpici. Con quest'arma la volontà greca lottò contro la disposizione correlativa a quella artistica, la disposizione per il dolore e per la sapienza del dolore. Da questa lotta e come monumento della vittoria conseguita da essa è nata la tragedia.

L'ebbrezza dei dolore e il bel sogno hanno le loro diverse costellazioni di dèi: la prima con l'onnipotenza del suo essere penetra i più reconditi pen­sieri della natura, conosce il tremendo impulso verso l'esistenza e nello stesso tempo la morte che incombe su tutto ciò che è trascinato ad esistere; gli dèi ch'essa modella sono buoni e cattivi, simili al caso essi terrorizzano con una inesorabilità che affiora improvvisa, sono senza pietà e senza gu­sto per il bello. Sono affini alla verità e prossimi al concetto: raramente e difficilmente si concretizzano in figure. Guardarli pietrifica: come si può vivere con loro? Ma non lo si deve: ecco il loro insegnamento.

Dal mondo di questi dèi, che non si poteva svelare interamente come un segreto inviolabile, lo sguardo dovette essere distolto verso quella luminosa e contigua figurazione di sogno che è il mondo olimpico: perciò tanto più intensa si leva la vampa dei suoi colorì e la sensualità delle sue forme, quanto più forte è fatta valere la verità o il suo simbolo. Né la battaglia tra verità e bellezza fu mai più grande che con l'irruzione del culto dionisiaco: in esso la natura si svelava e parlava del suo mistero con spaventosa chia­rezza, con il suono, a fronte del quale la seducente apparenza aveva quasi perduto il suo potere. Questa fonte era sgorgata dall'Asia; ma in Grecia doveva diventare un torrente, giacché trovò qui per la prima volta ciò che l'Asia non le aveva offerto: la sensibilità più eccitabile e la disposizione al dolore insieme con un'intelligenza e un'acutezza delle più sottili. In qual modo Apollo salvò la grecità? Accogliendo nel mondo della bella apparen­za, cioè nel mondo olimpico, il nuovo venuto: a lui furono sacrificati molti degli onori propri delle divinità più importanti, come per esempio Zeus e Apollo. Mai si sono fatti tanti complimenti con un forestiero: e dire che si trattava anche d'un forestiero che incuteva terrore (hostis sotto ogni aspet­to), abbastanza forte per scuotere dalle fondamenta la casa in cui era ospi­te. Una grande rivoluzione incominciò in tutte le forme di vita: Dioniso fe­ce sentire ovunque la sua presenza, anche nell'arte.

La contemplazione, la bellezza, l'apparenza definiscono l'ambito del­l'arte apollinea: è il mondo trasfigurato dell'occhio, che crea artisticamen­te un sogno a palpebre chiuse. Anche l'epos vuol portarci a questo stato di sogno: noi non dobbiamo vedere a occhi aperti e dobbiamo invece pascerci delle immagini interiori, la cui produzione il rapsodo cerca di suscitare in noi con i suoi concetti. L'effetto delle arti figurative qui lo si ottiene per via traversa: lo scultore attraverso il marmo lavorato ci conduce a quel dio vivente che lui ha visto in sogno, sicché la figura presentata come télos ap­pare in evidenza tanto allo scultore quanto allo spettatore e il primo tra­smette al secondo la sua visione per mezzo della figura mediatrice della sta­tua, il poeta epico, invece, vede la stessa figura vivente e la offre in visione anche ad altri, ma tra sé e gli altri non pone nessuna statua. Piuttosto rac­conta come quella figura attesta la sua vita con gesti, suoni, parole, azioni, ci costringe a riportare una quantità di effetti alle loro cause, ci obbliga a una composizione artistica. Ha raggiunto il suo scopo quando noi vediamo con chiarezza di fronte a noi la figura o il gruppo o l'immagine, quando ci

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partecipa quel suo stato di sogno nel quale lui stesso per primo ha prodotto quelle rappresentazioni. Che l'epica induca a creare plasticamente, dimo­stra quanto assolutamente differenti siano l'epica e la lirica, dal momento che la lirica non ha mai come scopo quello di ricavare forme dalle immagi­ni. Ciò che epica e lirica hanno in comune è solo qualcosa di materiale, la parola, e ancor più in generale il concetto: quando noi parliamo di poesia, non abbiamo in proposito una categoria che sia coordinata con l'arte figu­rativa e con la musica, bensì la fusione di due mezzi artistici in sé totalmen­te differenti, dei quali l'uno indica la via per l'arte figurativa, l'altro invece quella per la musica: entrambi sono solo vie che portano alla creazione ar­tistica, non arti in se stesse. In questo senso naturalmente anche la pittura e la scultura sono solo mezzi artistici: l'arte vera e propria è la capacità di produrre immagini, indipendentemente dal fatto che si tratti d'un produrre originario o d'un produrre derivato. Su questa proprietà — dell'uomo in generale — si basa il significato culturale dell'arte. L'artista — come que­gli che induce all'arte attraverso un determinato mezzo artistico — non può essere nello stesso tempo l'organo recettivo dell'attività artistica.

Il culto dell'immagine che è proprio della cultura apollinea, quale si ma­nifesta nel tempio, nella statua o nell'epos omerico, aveva il suo scopo più alto nell'esigenza etica della misura, che corre parallela all'esigenza estetica della bellezza. La misura fatta valere in quanto esigenza è possibile solo là dove la misura, il limite, passa per riconoscibile. Per tener fermi questi li­miti, bisogna conoscerli: di qui l'ammonimento apollineo del gnòthi seau-tòn. Ma lo specchio, nel quale soltanto il greco apollineo poteva vedersi e cioè riconoscersi, era il mondo degli dèi olimpici: qui egli poteva riconosce­re la sua essenza più intima, velata dalla bella apparenza del sogno. La mi­sura, sotto il cui giogo si muoveva il nuovo mondo di dèi (a fronte di un di­strutto mondo di Titani), era quello della bellezza: il limite, cui il greco do­veva attenersi, era quello della bella apparenza. Lo scopo specifico di una cultura tutta basata sull'apparenza e sulla misura in effetti può essere solo l'occultamento della verità: al ricercatore instancabile nel perseguirla così come al tracotante Titano viene rivolto l'ammonimento del medèn àgan. Nel Prometeo si mostra alla grecità un esempio di come un ampliamento eccessivo della conoscenza umana abbia effetti nefasti sia per chi lo pro­muova sia per chi ne risulti favorito. Chi vuol mettersi di fronte al dio con la sua sapienza deve, come dice Esiodo, métron échein sophìes.

In un mondo così strutturato e protetto ad arte fece allora irruzione il suono estatico della festa di Dioniso, dove tutto l'eccesso della natura in gioia e dolore e conoscenza si rivelò in un colpo solo. Tutto ciò che fino ad allora si era fatto valere in termini di limite e di misura, si rivelò qui come apparenza artistica, mentre l'«eccesso» si svelò come verità. Per la prima volta si sentì fremere il canto popolare dal fascino demoniaco in tutta l'e­brietà d'un sentimento straripante. Che cosa poteva significare al contrario l'artista salmodiarne apollineo, con i timidi e solo accennati accordi della sua kithàral Ciò che precedentemente era stato trapiantato entro corpora­zioni poetico-musicali secondo criteri di casta e perciò era stato tenuto lon­tano da ogni commistione profana, ciò che doveva essere conservato in vir­tù della potenza apollinea sul piano di una semplice architettonica, insom­ma l'elemento musicale, qui si liberò d'ogni costrizione: la ritmica, che pri­ma si muoveva nel più semplice degli zig-zag, sciolse le sue membra nella danza baccantica: si levò la voce strumentale, non più come prima in una rarefazione spettrale, bensì con un aumento moltiplicato dalla massa e con un accompagnamento dei più bassi strumenti a fiato. E quanto c'è di più

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misterioso venne alla luce: venne al mondo l'armonia, la quale nel suo mo­vimento porta ad immediata comprensione la volontà della natura. Nell'o­rizzonte dionisiaco ebbero voce cose che nel mondo di Apollo erano tenute nascoste ad arte: tutto lo scintillio degli dèi olimpici si affievolì di fronte al­la sapienza di Sileno. Un'arte che nella sua ebbrezza estatica diceva la veri­tà spaurì le muse dell'arte dell'apparenza; nell'oblio di sé degli stati dioni­siaci, l'individuo con i suoi limiti e le sue misure fu travolto: un crepuscolo degli dèi era prossimo a venire.

Qual era il progetto del volere, che è pur sempre uno solo, nel lasciar ir­rompere gli elementi dionisiaci contro la sua stessa creazione apollinea?

Si trattava d'una nuova e più alta mechané dell'esistenza, la nascita del pensiero tragico.

3.

L'estasi dello stato dionisiaco con la sua soppressione delle costrizioni e dei limiti quotidiani dell'esistenza, contiene nel corso del suo perdurare un elemento letargico, nel quale affonda tutto ciò che è stato vissuto nel pas­sato. Così questo abisso della dimenticanza separa uno dall'altro il mondo della realtà consueta e il mondo della realtà dionisiaca. Ma non appena quella realtà consueta riemerge di nuovo alla coscienza, essa viene in quan­to tale sentita con nausea: una disposizione ascetica e negatrice della vo­lontà è il frutto di quegli stati. Nel pensiero il dionisiaco è contrapposto co­me un ordine cosmico superiore a uno comune e triviale: l'uomo greco de­siderava evasione assoluta da questo mondo della colpa e del destino. Egli si consolava a malapena con la speranza d'un mondo dopo la morte: aveva nostalgia per qualcosa di più alto e superiore agli stessi dèi, negava l'esi­stenza insieme con il suo variopinto e splendente riflesso divino. Nella con­sapevolezza del risveglio dall'ebbrezza vedeva tutto l'orrore o l'assurdo dell'esistenza umana: e ne provava nausea. Ora egli comprende la sapienza del dio silvano.

Qui si tocca il limite più pericoloso che la volontà ellenica con il suo principio fondamentale apollineo-ottimistico abbia concesso di toccare. Qui essa operò con la sua naturale forza guaritrice, per piegare nuovamen­te quella disposizione negativa: suo strumento è l'opera d'arte tragica e la concezione tragica. La sua intenzione non poteva in alcun modo essere quella di temperare o di reprimere lo stato dionisiaco: soggiogarlo diretta­mente era impossibile, e anche se non lo fosse stato, restava pur sempre una cosa pericolosa, dal momento che se quell'elemento fosse stato tratte­nuto nella sua espansione si sarebbe aperto altrove una via e sarebbe pene­trato in tutti i vasi sanguigni della vita.

Per prima cosa si trattava di trasformare quei pensieri di disgusto sul­l'assurdo e l'orrore dell'esistenza in rappresentazioni con le quali convive­re: esse sono il sublime in quanto imprigionamento artistico dell'orrore e il comico in quanto liberazione artistica dalla nausea dell'assurdo. Questi due elementi intrecciati insieme si riuniscono in un'opera d'arte che imita l'ebbrezza e gioca con essa.

Tanto il sublime quanto il comico sono un passo al di là del mondo della bella apparenza, giacché in entrambi i concetti si sente una contraddizione. D'altro lato essi non collimano per niente con la verità; piuttosto, essi rap­presentano un velario della verità, certo più trasparente della bellezza, ma pur sempre velario. Si può riconoscere in essi una sorta di inf ramando tra bellezza e verità: e qui è possibile una negazione di Dioniso e Apollo. Que-

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sto mondo si manifesta in un gioco con l'ebbrezza, non nell'essere comple­tamente divorati da essa. Nell'attore si riconosce l'uomo dionisiaco, ossia il poeta, il cantore, il danzatore istintivo, ma lo riconosciamo come uomo dionisiaco messo in scena. Di questi l'attore cerca il modello nel sussulto della sublimità o anche nel sussulto del riso: egli va al di là della bellezza e nello stesso tempo non si può dire che cerchi la verità. Tra l'una e l'altra egli rimane sospeso nel mezzo. Egli non tende alla bella apparenza, ma al­l'apparenza in quanto tale, e non tende alla verità, ma alla verosimiglian­za. (Simbolo, segno della verità.) L'attore naturalmente non era nei primi tempi un singolo: ciò che doveva essere rappresentato era la massa dioni­siaca, il popolo: di qui il coro ditirambico. Attraverso il gioco con l'eb­brezza, doveva egli stesso, così come anche il circostante coro degli spetta­tori, liberarsi per così dire dall'ebbrezza. Dal punto di vista del mondo apollineo la grecità era da risanare e da espiare: Apollo, il vero dio salvifi­co ed espiatore, salvò l'uomo greco dall'estasi chiaroveggente e dalla nau­sea per l'esistenza — attraverso l'opera d'arte del pensiero tragico e comi­co.

Il nuovo mondo artistico, quello del sublime e del comico, quello della «verosimiglianza» si fondava su di una concezione del mondo e degli dèi ben diversa rispetto a quella precedente della bella apparenza. La cono­scenza degli orrori e delle assurdità dell'esistenza, dell'ordine distorto e della disposizione irragionevole di tutte le cose, in generale dello smisurato patire in tutta la natura, aveva svelato le figure, così occultate ad arte, di Moira e delle Erinni, di Medusa e di Gorgona: gli dèi olimpici vennero a trovarsi nel più grande pericolo. Nell'opera d'arte tragica e comica essi vennero salvati, in quanto furono anche loro immersi nel mare del sublime e del comico: essi cessarono di essere solo «belli», e poterono anzi nutrirsi di quel più antico universo divino e della sua sublimità. Allora si separaro­no in due gruppi (solo pochi rimasero sospesi nel mezzo), da una parte le divinità del sublime e dall'altra le divinità del comico. In particolare tra tutti Dioniso accolse in sé quella natura ancipite.

Due personaggi, ossia Eschilo e Sofocle, mostrano con la maggiore evi­denza quale sarebbe di nuovo la vita secondo le categorie dell'epoca tragi­ca della grecità. Il sublime appare a Eschilo, in quanto pensatore, perlopiù nella forma della giustizia più grandiosa. Uomo e dio stanno per lui nella più stretta comunione soggettiva. Ciò che è divino, giusto, morale e ciò che costituisce la felicità sono per lui intrecciati fino a formare un tutt'uno. La singola creatura, sia uomo o titano, è pesata su questa bilancia. Gli dèi vengono ricostruiti secondo questa norma di giustizia. Così per esempio la credenza popolare nel demone che acceca e trascina alla colpa — un resi­duo di quel primitivo mondo divino detronizzato dagli dèi olimpici — vie­ne corretta, essendo questo demone fatto diventare uno strumento nella mano di Zeus che punisce-secondo giustizia. L'analogamente primitivo — e del pari estraneo agli dèi olimpici — pensiero della maledizione d'un po­polo, viene spogliato di tutta la sua rigidità, tant'è che in Eschilo non c'è alcuna necessità che spinga il singolo al crimine e anzi ciascuno se ne può sottrarre. . Mentre Eschilo trova il sublime nella sublimità della giustizia olimpica, Sofocle lo vede — in modo stupefacente — nella sublimità del suo restare impenetrabile. Sempre egli ritorna al punto di vista popolare. Il non meri­tare un destino atroce gli sembrava sublime, gli enigmi realmente insolubili dell'esistenza umana erano la sua Musa tragica. In lui il dolore raggiunge la sua trasfigurazione; esso è concepito come qualcosa di santificante. La

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separazione dell'umano e del divino è smisurata; ci vuol dunque la più pro­fonda sottomissione e rassegnazione. La vera virtù è la sophrosùne, in realtà una virtù negativa. L'umanità eroica è l'umanità più nobile, senza quella virtù; il suo destino attesta quella spaccatura incolmabile. Non si dà colpa, ma solo mancanza di conoscenza circa il valore dell'uomo e i suoi li­miti.

Questo punto di vista è comunque più profondo e più interiore di quello di Eschilo e si avvicina significativamente alla verità dionisiaca, di cui par­la senza mezzi termini — e tuttavia qui è possibile riconoscere il principio etico di Apollo intessuto con la visione dionisiaca del mondo. In Eschilo la nausea è dissolta nel brivido sublime di fronte alla sapienza dell'ordine del mondo, che solo a causa della debolezza dell'uomo è difficilmente ricono­scibile. In Sofocle questo brivido è ancora più grande perché quella sapien­za è del tutto impenetrabile. È questo il vero atteggiamento della devozione che non conosce il conflitto, là dove l'atteggiamento eschileo è proprio di chi ha sempre il compito di giustificare la giustizia divina e perciò viene sempre a trovarsi di fronte a nuovi problemi. Il «limite dell'uomo», al qua­le Apollo impone di fare attenzione, è per Sofocle riconoscibile, ma è più angusto e ristretto di quel che non fosse agli occhi di tutti nell'epoca apolli­nea pre-dionisiaca. La mancanza di conoscenza dell'uomo circa se stesso è il problema di Sofocle, la mancanza di conoscenza dell'uomo circa gli dèi quello di Eschilo.

Devozione, straordinaria maschera dell'impulso vitale! Abbandono a un compiuto mondo di sogno, che conferirà la più elevata sapienza etica! Evasione dalla verità, per poterla adorare di lontano, nascosta nelle nuvo­le! Conciliazione con la realtà, in quanto enigmatica! Rifiuto dello sciogli­mento degli enigmi, visto che non siamo dèi! Prostrazione gioiosa nella polvere, calma felice nell'infelicità! Suprema espropriazione dell'uomo nella sua suprema espressione! Glorificazione e trasfigurazione di tutte le vie dell'orrore e della paura esistenziali come vie che salvano fifa/resisten­za! Trionfo della volontà nella sua negazione!

A questo livello di conoscenza non si danno che due possibilità, quella del santo e quella dell'artista tragico: entrambi hanno in comune il fatto di poter convivere con la più chiara consapevolezza della nullità dell'esisten­za, senza per questo patire una lacerazione nella loro visione del mondo. La nausea per la vita che continua è sentita come uno strumento di creazio­ne, sia propria della santità che dell'arte. L'orrido o l'assurdo sono esal­tanti, se lo sono solo apparentemente. La potenza dionisiaca dell'incanta­mento è tale anche al culmine di questa visione del mondo: tutto il reale si risolve in apparenza e dietro di essa si dà a conoscere la natura unitaria del volere, tutto nascosto nella magnificenza del sapere e del vero e nel loro abbagliante splendore. L'illusione, la follia sono al loro apice.

Ora non sembrerà più inconcepibile che la stessa volontà, la quale ha dato ordine al mondo ellenico in quanto apollinea, abbia assorbito in sé l'altra sua forma di manifestazione, quella dionisiaca. La lotta tra queste due forme di manifestazione della volontà aveva uno scopo straordinario, cioè creare una più elevata possibilità di esistenza e con ciò pervenire, at­traverso l'arte, a una sua più alta glorificazione. Non più l'arte dell'appa­renza, bensì l'arte tragica era la forma della glorificazione: e in essa quel­l'arte dell'apparenza è interamente assorbita. Apollo e Dioniso si sono riu­niti. Allo stesso modo che nella vita apollinea ha fatto irruzione l'elemento dionisiaco e come l'apparire si è qui consolidato in quanto limite, così pure l'arte tragico-dionisiaca non è più «verità». Quel cantare e quel danzare

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non sono più istintiva ebbrezza naturale, la massa corale nella sua estasi dionisiaca non è più la massa popolare inconsapevolmente catturata dal­l'impulso primaverile. La verità ora viene simboleggiata, essa si serve del­l'apparenza, essa può e deve a tal fine utilizzare anche le arti dell'apparire. Già qui viene alla luce una grande differenza rispetto all'arte precedente ed è il fatto di chiamare in aiuto contemporaneamente tutti i mezzi artistici dell'apparenza, con la conseguenza che la statua cammina, i fondali dipinti si spostano e sullo stesso sfondo vengono portati davanti agli occhi ora il tempio ora il palazzo. Si nota dunque nello stesso tempo una certa insensi­bilità per l'apparenza, la quale deve a questo punto spogliarsi delle sue eterne pretese e delle sue esigenze sovrane. L'apparenza non viene più frui­ta direttamente in quanto apparenza, ma in quanto simbolo e cioè segno della verità. Di qui l'unione — di per sé scandalosa — dei mezzi artistici. La prova più chiara di questo non tenere in nessun conto l'apparenza è la maschera.

Allo spettatore si impone quindi l'esigenza dionisiaca di rappresentarsi tutto nella forma dell'incantamento, di vedere tutto sotto la specie del sim­bolo, di considerare l'intero mondo visibile della scena e dell'orchestra co­me il regno del miracolo. Ma dov'è la potenza che lo porta a uno stato di fede nel miracoloso, attraverso la quale egli vede tutto come soggetto ad incantamento? Chi vince la potenza dell'apparire e lo riduce a simbolo?

È la musica.

4.

Quel che designiamo come «sentimento», è definito da una filosofia che segua la via tracciata da Schopenhauer come un complesso di rappresenta­zioni inconsce e di stati di volontà. Del resto ciò cui la volontà aspira si ma­nifesta come piacere o dolore e rivela in ciò solo una differenza quantitati­va. Non ci sono tipi diversi di piacere, ma solo gradi e un'infinità di rap­presentazioni che l'accompagnano. Con il termine piacere si tratta di inten­dere il soddisfacimento di una sola volontà, con il termine dolore, invece, il suo non soddisfacimento.

In che modo il sentimento è partecipabile? In parte, ma solo in piccola parte, lo può essere in termini di pensiero, di rappresentazione cosciente; il che vale, naturalmente, solo per le rappresentazioni che accompagnano il sentimento. Ma anche su questo terreno del sentimento c'è sempre un resto irriducibile. Riducibile è solo ciò che ha a che fare col linguaggio e quindi col concetto: di qui il limite della «poesia» viene stabilito in relazione alla capacità di esprimere il sentimento.

I due altri modi di partecipazione sono decisamente istintivi, senza co­scienza e tuttavia tali da agire in vista di uno scopo. Si tratta del linguaggio gestuale e del linguaggio musicale. Il linguaggio gestuale è fatto di simboli universalmente comprensibili ed è ottenuto in base a movimenti riflessi. Questi simboli sono visibili: gli occhi, che li vedono, trasmettono subito lo stato prodotto e simboleggiato dai gesti: per lo più anzi colui che vede sen­te come un'innervazione simpatetica a livello delle stesse parti del viso o delle stesse membra il cui movimento egli percepisce. Simbolo significa qui una figura frammentaria e del tutto incompiuta, un segno allusivo, per la cui comprensione è necessario trovare un terreno d'incontro; solo che in questo caso la comprensione generale è un che di istintivo, di non penetra­to dalla chiarezza della coscienza.

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Che cosa simboleggia allora il gesto di quella realtà ancipite che è il sen­timento?

Manifestamente la rappresentazione che l'accompagna, giacché solo es­sa può essere accennata attraverso il gesto visibile, incompiuto e frammen­tario: un'immagine può essere simboleggiata solo da un'immagine.

La pittura e la scultura rappresentano l'uomo nell'atto di compiere un gesto: questo significa ch'esse imitano il simbolo e hanno ottenuto il loro effetto se noi comprendiamo il simbolo. Il piacere del contemplatore consi­ste nella comprensione del simbolo, benché questo sia apparenza.

L'attore invece rappresenta il simbolo realmente, non solo in apparenza: però l'effetto che produce in noi non si basa sulla sua comprensione: noi anzi ci immergiamo nel sentimento simboleggiato e non ci limitiamo al pia­cere dell'apparenza, non ci appaghiamo della bella apparenza.

Così nel dramma la decorazione non induce il piacere dell'apparenza, piuttosto noi la percepiamo come simbolo e comprendiamo la realtà cui il simbolo allude. Pupazzi di cera e piante vere ci appaiono qui, accanto ad altre dipinte a colori vivaci, come perfettamente giustificate, a prova del fatto che noi qui evochiamo nella nostra mente la realtà stessa e non un fantasma artificioso. In gioco qui è la verosimiglianza, non più la bellezza.

Ma che cos'è la bellezza? — «La rosa è bella» significa semplicemente: la rosa ha una bella apparenza, essa ha qualcosa di luminoso che piace. Circa la sua essenza non vien detto nulla con ciò. Essa piace, essa, in quan­to apparenza, suscita piacere: come dire che la volontà è soddisfatta dal suo apparire e dunque il piacere di esistere ne viene incrementato. Essa è — così come appare — un'immagine fedele del suo volere: ossia, per usare al­tre parole: essa corrisponde nella sua apparenza alla determinazione della specie. Tanto più essa fa questo, tanto più è bella: e qualora corrispondes­se nella sua essenza a quella determinazione, sarebbe «buona».

«Un bel quadro» significa semplicemente: la rappresentazione che noi abbiamo di un quadro è qui esaudita. Quando invece di un quadro diciamo che è «buono», noi designiamo la nostra rappresentazione di un determi­nato quadro come corrispondente all'essenza del quadro. Però general­mente per bel quadro si intende un quadro che rappresenta qualcosa di bel­lo: così almeno giudicano gli incompetenti. Questi gustano la bellezza del soggetto; così del resto noi dobbiamo gustare le arti figurative nel dram­ma, salvo che qui il compito non può essere soltanto quello di rappresenta­re qualcosa di bello: è sufficiente che esso appaia vero. L'oggetto rappre­sentato dev'essere visto il più possibile nella sua viva concretezza; esso de­ve far l'effetto della verità: un'esigenza, di cui è stato rivendicato Voppo­sto da tutte le opere della bella apparenza.

Ma quando il gesto simboleggia, del sentimento, le rappresentazioni che l'accompagnano, per mezzo di quale simbolo saranno partecipati e fatti comprendere gli impulsi della volontà! Qual è qui la mediazione istintiva?

La mediazione del suono. Detto più precisamente, sono i diversi modi del piacere e del dolore — senza alcuna delle rappresentazioni che li ac­compagnano — ad esser simboleggiati dal suono.

Tutto quel che si può dire ai fini di una caratterizzazione delie diverse sensazioni di dolore, appartiene alle immagini delle rappresentazioni di-Ventate chiare attraverso la simbolica del gesto: così, per esempio, quando di un improvviso sgomento parliamo in termini di «colpi, convulsioni, spa­simi, fitte, ferite, morsi, pungoli» del dolore. Con ciò sembrano esprimersi certe «forme d'intermittenza» della volontà, in breve — nella simbologia. del linguaggio dei suoni — la ritmica. La pienezza delle sfumature della vo-

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lontà, la quantità variabile della gioia e del dolore, tutto ciò noi lo ricono­sciamo nella dinamica del suono. Ma la sua essenza più propria si cela, senza che la si possa esprimere in modo simbolico, nell'armonia. La volon­tà e il suo simbolo — l'armonia —, l'una e l'altra in fin dei conti logica pu­ra] Mentre la ritmica e la dinamica sono ancora aspetti esteriori della vo­lontà che si manifesta attraverso simboli, e quasi hanno ancora il carattere dell'apparenza, l'armonia invece è il simbolo della pura essenza della vo­lontà. Ne consegue che nella ritmica e nella dinamica l'apparenza singola deve ancora essere caratterizzata come apparenza, e da questo punto di vi­sta si può sviluppare la musica come arte dell'apparenza. Il resto irriduci­bile, cioè l'armonia, parla della volontà, interiormente ed esteriormente a tutte le forme dell'apparenza, e non è semplice simbolismo del sentimento bensì simbolismo del mondo. Nella sua sfera il concetto è del tutto impo­tente.

Ora afferriamo la portata del linguaggio del gesto e del linguaggio del suono per l'opera d'arte dionisiaca. Nel ditirambo delle sagre di primavera che originariamente era proprio del popolo, l'uomo non si esprimeva come individuo bensì in quanto esponente della sua specie. Che l'uomo si spogli della sua individualità, ciò viene espresso per mezzo del simbolismo del­l'occhio, il linguaggio dei gesti, nel fatto che egli parla nei suoi gesti come satiro, come essere naturale tra esseri naturali e particolarmente in un lin­guaggio dei gesti potenziato ossia nei gesti di danza. Del resto per mezzo del suono egli esprime i più intimi pensieri della natura: non solo il genio della specie, come nel gesto, ma il genio dell'esistenza in sé e cioè la volon­tà si fa qui immediatamente comprensibile. Mentre però con il gesto egli ri­mane entro i confini della specie e cioè entro il mondo dell'apparenza, con il suono invece egli dissolve il mondo dell'apparenza nella sua originaria unità e il mondo di Maja si annichilisce di fronte al suo incantesimo.

Ma quando l'uomo naturale perviene al simbolismo del suono? Quando il linguaggio del gesto non è più bastante? Quando il suono si fa musica? Anzitutto negli stati più alti di piacere e di dolore della volontà, quando la volontà è giubilante o stretta nell'angoscia di morte, in una parola nell'eb­brezza del sentimento: nel grido. Quanto più potente e immediato è il grido nei confronti dello sguardo! Ma anche gli stimoli più deboli della volontà hanno il loro simbolismo sonoro: in generale a ogni gesto corrisponde un suono: ed è soltanto l'ebbrezza del sentimento a portarlo al livello del puro suono.

La fusione più intima e più corrente di un determinato tipo di simboli­smo gestuale con il suono è detta linguaggio. Nella parola, attraverso il to­no e la sua sfumatura e attraverso la potenza e il ritmo della modulazione, viene simboleggiata l'essenza della cosa, mentre attraverso i movimenti della bocca viene simboleggiata la rappresentazione che l'accompagna, l'immagine, l'apparenza dell'essenza. I simboli possono e devono essere diversi; essi del resto crescono istintivamente e con grande e sapiente rego­larità. Un simbolo designato è un concetto: ora, siccome nelle maglie della memoria il suono si perde interamente, nel concetto si conserva solo il sim­bolo della rappresentazione che l'accompagna. Ciò che si può definire e di­stinguere, lo si «concepisce».

Nell'amplificazione del sentimento l'essenza della parola si manifesta più chiaramente e più sensibilmente nel simbolo del suono: perciò essa ri-suona più intensamente. Il recitativo è qualcosa come un ritorno alla natu­ra: il simbolo che tende ad usurarsi ripropone qui di nuovo la sua forza originaria.

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Nel discorso, ossia attraverso una catena di simboli, deve venir rappre­sentato simbolicamente qualcosa di nuovo e di più grande: con ciò la ritmi­ca, la dinamica e l'armonia tornano a essere necessarie. Questa cerchia più vasta domina ora quella più angusta della parola singola: si rende necessa­ria una nuova scelta di parole e una nuova collocazione delle stesse, sicché la poesia comincia. Il recitativo di una frase non è qualcosa di simile a una successione di suoni verbali: infatti una parola ha un suono del tutto relati­vo, poiché la sua essenza, il suo contenuto rappresentato per mezzo del simbolo muta a seconda della posizione. In altri termini: a partire dalla più alta unità della frase e dell'essenza simboleggiata attraverso di essa il sim­bolo specifico della parola è progressivamente determinato in modo nuo­vo. Una catena di concetti è un pensiero: questo è anche la più alta unità delle rappresentazioni che li accompagnano. L'essenza della cosa è per il pensiero inattingibile: ma ch'esso agisca su di noi come motivo, come im­pulso della volontà, ciò si spiega con il fatto che il pensiero è già diventato nello stesso tempo un simbolo designato per un'apparenza della volontà e cioè per una sua pulsione o manifestazione. Ma espresso in parole con il simbolismo del suono esso agisce in modo incomparabilmente più efficace e diretto. Espresso in canto — esso perviene al più alto livello delle sue pos­sibilità quanto il melos è il simbolo comprensibile del suo volere: altrimen­ti, è la successione dei suoni ad agire su di noi, mentre la successione delle parole, cioè il pensiero, ci rimane lontano e indifferente.

Ora, a seconda che la parola debba agire prevalentemente come simbolo della rappresentazione che l'accompagna o come simbolo della pulsione originaria della volontà, ossia a seconda che debbano essere simboleggiati sentimenti o immagini, si dipartono due strade di fronte alla poesia, l'epica e la lirica. La prima porta all'arte figurativa, la seconda alla musica: il pia­cere dell'apparenza domina l'epica, la volontà si manifesta nella lirica. Quella si libera dalla musica, questa rimane legata ad essa.

Ma nel ditirambo dionisiaco l'entusiasta di Dioniso viene spinto alla più ampia dilatazione di tutte le sue facoltà simboliche: qualcosa di mai sentito irrompe alla superficie, come la soppressione dell'individualo, l'unifica­zione nel genio della specie e anzi della natura. Ora è l'essenza della natura che deve esprimersi: un nuovo universo simbolico è necessario, mentre le rappresentazioni relative si fanno simboliche nelle immagini di una natura umana esaltata e vengono rappresentate con la più alta energia fisica per mezzo dell'intero simbolismo del corpo ossia per mezzo della danza. Però anche il mondo della volontà tende a una inaudita espressione simbolica, tanto che le potenze dell'armonia, della dinamica e della ritmica crescono con subitanea violenza. Anche la poesia, già divisa tra due mondi, raggiun­ge adesso una nuova dimensione: raggiunge cioè nello stesso tempo la sen­sibilità dell'immagine, come nell'epica, e l'ebbrezza sentimentale del suo­no, come nella lirica. Per comprendere la totale fusione di tutte queste for­ze simboliche, occorre quella stessa elevazione esistenziale che le ha create: il seguace ditirambico di Dioniso può essere compreso solo da chi gli sia perfettamente affine. Perciò questo nuovo mondo artistico nella sua sco­nosciuta e seducente magnificenza si muove tutto, tra lotte terrificanti, en­tro i confini della grecità apollinea.

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Cinque prefazioni per cinque libri non scritti Alla signora Cosima Wagner in sincero omaggio e come risposta a questioni poste a viva voce e per lettera; scritte con gioia nei giorni di Natale del 1872

1. Sul pathos della verità Davvero la gloria non è che il boccone più squisito del nostro amor pro­

prio? Essa, come brama, è certo propria degli uomini più rari e anzi solo dei loro momenti più rari. Sono i momenti delle illuminazioni subitanee, nei quali l'uomo stende il braccio imperioso quasi dovesse creare il mondo, attingendo luce da se stesso e irraggiandola intorno a sé. Qui lo compene­tra la felice certezza che ciò che lo innalzò e lo tradusse in tanta profondi­tà, cioè l'altezza di quell'irripetibile sensazione, non può essere precluso a nessuna posterità; nell'eterna necessità di queste rare illuminazioni per tut­ti coloro che verranno, l'uomo riconosce la necessità della sua gloria; l'u­manità d'ora in avanti avrà bisogno di lui, e come quel momento d'illumi­nazione costituisce la quintessenza e la totalità della sua natura più pro­pria, così egli crede, come uomo capace di tali momenti, d'essere immorta­le, e quindi si spoglia e abbandona alla caducità tutto il resto, in quanto ca­scame, marciume, vanità, bestialità, ossia come pleonasma.

Qualsiasi cosa che si dissolve e perisce noi l'osserviamo con animo astio­so, spesso con senso di stupore, quasi che in ciò sperimentassimo qualcosa che in fondo è impossibile. Un grande albero si schianta con nostro disap­punto e una montagna che frana ci angoscia. Non c'è notte di S. Silvestro che non ci faccia sentire la contraddizione tra essere e divenire. Che però un attimo della più alta pienezza cosmica si spenga come una fugace scin­tilla, per così dire senza posterità né retaggio alcuno, ciò ferisce nel modo più violento l'uomo morale. Il suo imperativo piuttosto suona: quel che è stato una volta dev'essere eternamente, affinché il concetto «uomo» si ri­produca più bello. Che i grandi momenti formino una catena, che questa, come una catena di monti, leghi l'umanità attraverso i millenni, che per me quanto vi fu di più grande nel passato sia ancora grande e che il presenti­mento della fede nella gloria bramata si compia, ecco il pensiero fonda­mentale della cultura.

Nel bisogno che il grande sia eterno, divampa la terribile lotta della cul­tura; giacché tutto il resto, che pure vive, risponde no! Ciò che è abituale, piccolo, comune, ciò che riempie tutti gli angoli del mondo come pesante aria terrestre che tutti siamo costretti a respirare, avvolge ciò che è grande e, facendo impedimento, smorzando, soffocando, offuscando, ingannan­do, si getta sul cammino che ciò che è grande deve compiere per giungere all'eternità. È un cammino che passa attraverso cervelli umani! Attraverso cervelli, cioè, di povere creature che vivono poco, che sono sovrastate dagli stessi bisogni, che sempre di nuovo sono in balia delle stesse necessità e con fatica allontanano da sé la rovina per un breve tratto di tempo. Vogliono vivere, vivere in qualche modo — ad ogni costo. Chi potrebbe sospettare in loro quella difficile competizione che è la corsa con la fiaccola, attraverso la quale soltanto ciò che è grande può tramandarsi? Eppure si desta sempre

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qualcuno che, di fronte a questa grandezza, si sente felice come se la vita dell'uomo fosse una cosa magnifica e come se il più bel frutto di questa pianta amara dovesse consistere nel sapere che una volta è passato attra­verso questa esistenza un uomo stoico e altero, un altro capace di profon­dità, un altro di misericordia, e tutti hanno lasciato un unico insegnamen­to, cioè che vive nel modo più bello quest'esistenza colui che non la tiene in nessun conto. Il fatto è che l'uomo comune prende questa spanna di essere in modo così cupamente serio, mentre quelli, nel loro viaggio verso l'im­mortalità, seppero portarsi sul piano d'un riso olimpico o almeno d'un su­blime sarcasmo; spesso anzi scesero nella tomba con ironia — e del resto cosa c'era in loro da sotterrare?

Tra questi cavalieri bramosi di gloria i più audaci, quelli che credono di trovare le loro insegne inscritte in una costellazione, sono da ricercarsi tra i filosofi.

La loro opera non è rivolta a un «pubblico», all'esaltazione delle masse o al plauso entusiastico dei contemporanei; è proprio della loro natura in­vece procedere da soli. La loro dote è la più rara e per un certo verso la più innaturale in natura, ed è inoltre chiusa e ostile nei confronti delle doti del­lo stesso tipo. Il muro della loro autosufficienza dev'essere adamantino, se non si vuole che sia distrutto e ridotto in frantumi, giacché tutto, uomo e natura, si muove contro di loro. Il loro cammino verso l'immortalità è il più faticoso e il più irto di ostacoli, e tuttavia nessuno più del filosofo può credere di giungere di lì alla meta, poiché egli non sa dove trovare un soste­gno se non sulle ali che si aprono vaste su tutte le epoche; giacché il di­sprezzo per ciò che è presente e momentaneo è nello stile della riflessione filosofica. Egli si attiene alla verità; la ruota del tempo giri quanto vuole, mai potrà distrarlo dalla verità.

È importante venire a sapere che questi uomini sono realmente vissuti. Mai si potrebbe immaginare, come possibilità del tutto ipotetica, l'orgo­glio del saggio Eraclito, che può servirci da esempio. In effetti qualsiasi tendere alla conoscenza sembra in sé, per la sua stessa natura, inappagato e inappagabile; perciò nessuno, che già non sia stato ammaestrato dalla sto­ria, potrà credere a una così regale stima di se stesso, a una così illimitata persuasione di essere l'unico felice pretendente della verità. Tali uomini vi­vono nel loro proprio sistema solare; lì bisogna cercarli. Anche un Pitago­ra, un Empedocle tennero se stessi in una considerazione sovrumana, anzi addirittura con un riguardo quasi religioso, e tuttavia il legame della com­passione, insieme con la certezza della trasmigrazione delle anime e dell'u­nità di tutti i viventi, li riportarono agli altri uomini e alla loro salvezza. Quanto invece al sentimento di solitudine che assaliva l'eremita del tempio di Artemide, se ne può intuire qualcosa di terribile solo nella più selvaggia desolazione dei monti. Nessun sentimento traboccante di un'esaltata com­passione, nessun desiderio di aiutare e di salvare emanava da lui: egli è co­me un corpo celeste nel vuoto. Il suo occhio, ardentemente volto all'inter­no, guarda verso l'esterno come per finta, velato e freddo. Intorno a lui e direttamente contro il baluardo del suo orgoglio s'infrangono le onde della follia e dell'assurdo; con sdegno lui ne distoglie lo sguardo. Ma anche gli uomini dal cuore sensibile cedono di fronte a una tale larva tragica; è in un santuario discosto, tra statue di dèi e nel quadro di un'architettura fredda e grandiosa che una creatura del genere può apparire più comprensibile. Tra gli uomini Eraclito era, come uomo, incredibile; e se in realtà lo si poteva vedere quando prestava attenzione al gioco di un gruppo di chiassosi fan­ciulli, lì egli pensava a ciò che mai nessun mortale aveva pensato in occa-

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sioni analoghe — al gioco del grande fanciullo cosmico Zeus e all'eterno scherzo di una distruzione e creazione del mondo. Degli uomini non aveva bisogno, neppure per quel che riguardava la sua ricerca intellettuale; di tut­to quel che si poteva venire a sapere da loro e dagli altri sapienti che prima di lui si erano sforzati di sapere, non gliene importava niente. «Io ho cerca­to e indagato me stesso», era solito dire con un'espressione per mezzo della quale si intende la consultazione di un oracolo; come se lui e nessun altro fosse il vero esecutore e realizzatore di quella sentenza delfica del «conosci te stesso».

Ma quel che aveva ascoltato da questo oracolo, lo considerò come una sapienza immortale e degna di essere interpretata all'infinito, immortale nel senso in cui lo erano le parole profetiche della Sibilla. È abbastanza an­che per l'umanità più lontana: la quale potrà farsi interpretare solo come se fossero sentenze oracolari quanto egli, come lo stesso dio delfico, «né dice né nasconde». E benché da lui le sentenze vengano pronunciate «senza sorrisi, né abbellimenti o addolcimenti», ma piuttosto «con bocca schiu­mante», ciò deve estendersi anche ai millenni futuri. Infatti il mondo ha eternamente bisogno della verità, e dunque ha eternamente bisogno di Era­clito, anche se lui non ha bisogno del mondo. Cosa gliene importa a lui della sua gloria? «La gloria presso i mortali che continuamente trapassa­no!», com'egli si esprime sdegnosamente. Essa significa qualcosa per can­tori e poeti e anche per quegli uomini che prima di lui sono stati conosciuti come «sapienti» — inghiottano pure costoro i bocconi più squisiti del loro amor proprio, per lui, invece, questo cibo è troppo volgare. E agli altri uo­mini che importa qualcosa della sua gloria, non a lui; il suo amor proprio è amore per la verità — e appunto questa verità gli dice che l'immortalità dell'uomo ha bisogno di lui, non lui dell'immortalità dell'uomo Eraclito.

La verità! Follia esaltata di un dio! Che importa agli uomini della veri­tà?

E cos'era la «verità» di Eraclito? E dove se n'è andata? Questo sogno fuggente, cancellato dalle facce de­

gli uomini, insieme con gli altri sogni! — E non era il primo! Forse, di tut­to ciò che noi con una metafora presuntuosa chiamiamo «storia universa­le» e «verità» e «gloria», un demone privo di tatto non avrebbe niente da dire se non queste parole:

In un qualche angolo remoto di questo fiammeggiante universo che si estende attraverso un'infinità di sistemi solari, ci fu un tempo un corpo celeste sul quale degli animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Si trattò del minuto più tracotante e mendace dell'intera storia uni­versale, e tuttavia soltanto d'un minuto. Dopo alcuni sussulti della natura quel corpo celeste si irrigidì, e gli animali intelligenti dovettero morire. Ed era tempo: giacché per quanto andas­sero superbi del loro aver già molto conosciuto, alla fine con loro grande rincrescimento do­vettero arrivare alla conclusione che tutto avevano conosciuto in maniera falsa. Così moriro­no, e morendo maledissero la verità. E questa fu la sorte di questi disperati animali, che ave­vano trovato la conoscenza.

Ecco quale sarebbe il destino dell'uomo, se appunto non fosse altro che un animale capace di conoscenza; la verità lo porterebbe alla disperazione e all'annichilimento; la verità d'essere eternamente condannato alla non verità. Ma all'uomo si addice solo la fede nella verità che si può raggiunge­re, nell'illusione cui ci si accosta con fiducia. Non vive l'uomo, propria­mente, attraverso un continuo venir ingannato? Non lo tiene la natura al­l'oscuro di quasi tutto, a cominciare dalle cose che gli sono più vicine, co­me per esempio il suo stesso corpo, di cui ha una «coscienza» quanto mai aleatoria? In questa coscienza egli è imprigionato, e la natura ha gettato

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via la chiave. Oh, l'infausta brama di novità del filosofo, il quale pretende di guardar fuori e in basso, attraverso una fessura, dalla chiusa stanza del­la sua coscienza; forse allora intuisce che l'uomo, nell'indifferenza del suo non sapere e appeso ai sogni come al dorso di una tigre, si basa su ciò che è avido, insaziabile, ripugnante, senza pietà e mortifero.

«E che stia lì appeso», risponde l'arte. «Svegliatelo», risponde il filoso­fo, nel pàthos della verità. Eppure lui stesso scivola, mentre crede di desta­re colui che dorme, in un magico sopore ancor più profondo — è il mo­mento in cui forse sogna le «idee» o l'immortalità. L'arte è più potente del­la conoscenza, giacché essa vuole la vita, mentre quella raggiunge come ul­tima meta soltanto — l'annichilimento.

2. Riflessioni sul futuro delle nostre scuole

Il lettore dal quale io mi aspetto qualcosa deve avere tre qualità. Dev'es­sere sereno e leggere senza furia. Non deve sempre mettere di mezzo se stesso e la sua «formazione». Non può infine, in conclusione, attendersi, quasi come risultato, delle nuove tabelle. Io non prometto tabelle e nuovi orari per ginnasi e altre scuole, piuttosto mi meraviglia la natura esuberan­te di quelli che sono in grado di misurare in tutta la sua estensione il cam­mino che va dal basso della pratica su fino alle altezze dei più specifici pro­blemi culturali e di nuovo si abbassa ai più aridi regolamenti e ai più leziosi piani di studio; contento però d'aver scalato, sia pure con affanno, una bella montagna e di poter godere di lassù una vista più ampia, non posso accontentare in questo libro gli amici delle tabelle. In effetti io vedo venire un tempo nel quale uomini seri, al servizio di una cultura interamente rin­novata e purificata e attraverso un lavoro comunitario, diventeranno an­che legislatori dell'educazione di ogni giorno — dell'educazione appunto a quella cultura —; verosimilmente essi dovranno allora fare di nuovo tabel­le: ma com'è lontano quel tempo! E cosa non sarà accaduto nel frattempo! Forse tra l'adesso e l'allora ci sta di mezzo la soppressione del ginnasio, forse la stessa soppressione dell'università, o almeno una così totale tra­sformazione di queste scuole che i loro vecchi piani di studio potranno pre­sentarsi agli occhi di chi verrà come residui del tempo delle palafitte.

Questo libro è fatto per lettori sereni, per uomini che non si sono ancora lasciati trascinare dalla furia vertiginosa di questa nostra epoca strepitante e non provano ancora un piacere idolatra nel gettarsi sotto le sue ruote, per uomini dunque che non si sono ancora abituati a valutare ciascuna cosa a seconda del risparmio o della perdita di tempo. Come a dire — per pochis­simi. Ma questi «hanno ancora tempo», questi sono ancora in grado, sen­za arrossire di se stessi, di mettere insieme i momenti più ricchi e più forti della loro giornata per riflettere sul futuro della nostra formazione, questi stessi possono ritenere di arrivare alla sera nel modo veramente più utile e più degno, ossia nella meditatio generis futuri. Un uomo del genere non ha ancora disimparato a pensare quando legge, conosce ancora il segreto di leggere tra le righe, e il suo modo d'essere è talmente prodigo, che ancora riflette su quel che ha letto — magari molto tempo dopo aver deposto il li­bro. E davvero non per scrivere una recensione o un nuovo libro, ma sol­tanto così, per riflettere. Allegro dissipatore! Tu sei il mio lettore, giacché tu sei abbastanza sereno per intrattenerti con l'autore un lungo tratto di strada senza poterne vedere la meta e tuttavia dovendo onestamente crede­re ad essa, affinché una generazione lontana, forse molto lontana, veda con i suoi occhi là dove noi, ciechi e guidati solo dall'istinto, procediamo a

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tastoni. Se invece il lettore dovesse essere dell'opinione che fosse necessario un agile salto, un gesto spensierato, se egli tutto ciò che è essenziale lo rite­nesse raggiungibile per mezzo di una nuova «organizzazione» introdotta dallo Stato, allora dovremmo temere che non abbia capito né l'autore né il vero problema.

Infine egli deve rispondere alla terza e più importante esigenza, che con­siste nel non frapporre mai in nessun caso — secondo quello che è il costu­me dell'uomo moderno — l'assillante presenza di se stessi e della propria «formazione» quasi fosse una misura come se egli possedesse un criterio per tutte le cose. Noi desideriamo che sia abbastanza colto da non tenere in gran conto la sua cultura e anzi da disprezzarla. Allora potrebbe davvero concedersi nel modo più fiducioso alla guida dell'autore, il quale potrebbe a sua volta arrischiarsi a parlargli proprio e soltanto sulla base della sua ignoranza e della consapevolezza della sua ignoranza. II quale autore, di fronte agli altri, non pretende per sé che un forte ed esaltato sentimento di ciò che è proprio della nostra presente barbarie, ossia di ciò che ci designa come i barbari del diciannovesimo secolo. Ora egli va cercando, con que­sto libro in mano, qualcuno che sia stato spinto qui e là da sentimenti ana­loghi. Lasciatevi trovare, voi solitari, alla cui esistenza io credo! Voi altrui­sti, che prendete su voi stessi il dolore per la degenerazione dello spirito te­desco! Voi contemplativi, il cui occhio è incapace di scivolare con indagine precipitosa da una superficie all'altra! Voi dall'elevato sentire, di cui Ari­stotele loda il fatto d'essere riluttanti e inattivi, salvo che un grande onore e una grande opera non vi richiedano! Io parlo a voi. Non rinserratevi, per questa volta soltanto, nella caverna del vostro isolamento e della vostra diffidenza. Fate conto che il libro sia destinato a voi, sia il vostro araldo. Se voi stessi vi fate avanti sul campo di battaglia nella vostra armatura, chi vorrà ancora volgersi all'araldo che vi ha chiamati?

3. Lo Stato greco

Noi moderni a differenza dei Greci abbiamo due concetti che in un certo senso sono dati come palliativi a un mondo che sembra proprio un mondo di schiavi e che tuttavia evita timorosamente la parola «schiavo»: mi riferi­sco alla «dignità dell'uomo» e alla «dignità del lavoro». È tutto un affan­narsi per perpetuare miserabilmente una vita miserabile; questa spaventosa necessità induce ad un lavoro divorante, che l'uomo o — più esattamente — l'intelletto umano sedotto dalla volontà contempla come qualcosa di as­solutamente degno. Ma perché il lavoro possa rivendicare titoli onorifici, bisognerebbe prima di tutto che l'esistenza stessa, di fronte alla quale il la­voro non è che un crudele strumento, possedesse maggiore dignità e valore di quanto non sia apparso finora alle filosofie e alle religioni prese sul se­rio. Nella necessità di lavorare di tutte le miriadi di uomini, che cosa pos­siamo mai trovare se non l'impulso a sopravvivere a tutti i costi, quello stesso impulso onnipotente in base al quale le piante più rinsecchite pene­trano con le loro radici nella roccia priva di terra?

Da questa atroce lotta per l'esistenza possono emergere soltanto quegli individui che si lasciano senz'altro riplasmare dalle nobili chimere della cultura artistica, in modo da non pervenire a quel pessimismo pratico che la natura detesta come del tutto contrario ad essa. Nel mondo moderno, il quale, paragonato a quello greco, sembra per lo più produrre abnormità e centauri, e nel quale l'individuo come quella creatura fantastica che s'in­contra nell'introduzione alla poetica oraziana è pittorescamente composto

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di pezzi diversi, spesso in uno stesso uomo si mostrano insieme la brama della lotta per l'esistenza e quella del bisogno artistico: e da questa innatu­rale commistione vien fuori la necessità di giustificare e di consacrare quel­la prima brama di fronte al bisogno artistico. Ecco perché si crede alla «di­gnità dell'uomo» e alla «dignità del lavoro».

I Greci non hanno bisogno di tali allucinazioni concettuali, tra loro si di­ce con una schiettezza spaventosa che il lavoro è una vergogna — e una sa­pienza, che si esprimeva in maniera più nascosta e rara ma viva ovunque, arrivò addirittura a dire che anche tutto ciò che riguarda l'uomo è uno spregevole e miserabile niente, il «sogno di un'ombra». Il lavoro è una ver­gogna, visto che l'esistenza di per sé non ha nessun valore: eppure quando questa esistenza rifulge dell'affascinante ornamento delle seduzioni artisti­che e sembra allora avere veramente un valore di per sé, nonostante tutto vale ancora la tesi per cui il lavoro è una vergogna — e vale nel sentimento dell'impossibilità che l'uomo che lotta per la pura sopravvivenza sia un ar­tista. Nei tempi moderni non è l'uomo che ha bisogno dell'arte, ma lo schiavo a determinare le idee generali: è colui che per poter vivere deve, in conformità della sua natura, definire tutte le sue relazioni con termini in­gannevoli. Fantasmi come quelli della dignità dell'uomo o della dignità del lavoro sono i frutti striminziti di una schiavitù che nasconde se stessa ai propri occhi. Tempo infelice, quello in cui lo schiavo ha bisogno di tali concetti e in cui è sollecitato a riflettere su di sé e al di là di sé! Infelici se­duttori, quelli che hanno dissolto lo stato di innocenza dello schiavo per mezzo del frutto dell'albero della conoscenza! Egli ora deve trascinarsi da un giorno all'altro con tali evidenti menzogne, riconoscibili da chiunque abbia la capacità di vedere a fondo nella presunta «uguaglianza universa­le» o nei cosiddetti «diritti fondamentali dell'uomo», dell'uomo in quanto tale, o nella dignità del lavoro. Egli non può di certo concepire a quale li­vello e a quale altezza anche solo approssimativamente si possa parlare di «dignità», cioè propriamente dove l'individuo procede del tutto al di là di se stesso e non è più costretto a lavorare e a produrre al servizio della sua sopravvivenza individuale.

E proprio a questa altezza di «lavoro», talvolta i Greci sono assaliti da un sentimento in tutto simile alla vergogna. Plutarco dice in qualche luo­go, con istinto da antico greco, che a nessun giovane aristocratico verrebbe voglia, contemplando lo Zeus di Pisa, di diventare un Fidia, così come non gli verrebbe voglia di diventare un Policleto, guardando la Era di Argo: e altrettanto poco desidererebbe di essere un Anacreonte o un Fileta oppure un Archiloco, per quanto si sia entusiasmato alle loro poesie. Il fatto è che anche il creare artistico cade per il greco sotto il disonorevole concetto di lavoro, allo stesso modo che qualsiasi meschina opera manuale. Ma quan­do in lui si fa sentire la forza cogente dell'impulso artistico, allora egli deve creare e sottomettersi a quella necessità del lavoro. E come un padre ammi­ra la bellezza e le doti del proprio figlio, e tuttavia pensa con riluttanza al­l'atto della sua procreazione, così era per i greci. Lo stupore pieno di felici­tà di fronte al bello non lo ha accecato riguardo al modo del suo prodursi — che gli appariva, come ogni produzione della natura, alla stregua di un bisogno prepotente, di una forte tensione verso l'esistenza. Lo stesso senti­mento, in base al quale il processo generativo era trattato come qualcosa di vergognoso e da nascondersi, benché l'uomo lì servisse a uno scopo più al­to che non la sua conservazione individuale, lo stesso sentimento velava anche la nascita delle grandi opere d'arte, nonostante che per mezzo di queste si inaugurasse una più alta forma di esistenza, come per mezzo di

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quell'atto una nuova generazione. La vergogna perciò sembra inserirsi là dove l'uomo è ancora soltanto uno strumento di manifestazioni della vo­lontà che sono infinitamente più grandi di quanto egli non possa mai essere nella figura singola dell'individuo.

E così abbiamo ora il concetto generale sotto cui bisogna ordinare i sen­timenti che i greci nutrivano a proposito di lavoro e schiavitù. L'una e l'al­tra cosa valeva per loro come una necessaria ignominia, di fronte alla qua­le si prova vergogna, essendo nello stesso tempo una necessità e un'ignomi­nia. In questo sentimento di vergogna si nasconde l'inconscio sapere che quello che è lo scopo vero e proprio ha bisogno di quelle premesse, ma che proprio in quel bisogno c'è l'elemento orrido e ferocemente animalesco della Sfinge natura, che esibisce il suo corpo verginale nella glorificazione della libera vita artistica della cultura. La cultura, che anzitutto è reale bi­sogno d'arte, giace su di un fondamento terrificante: e questo si dà a cono­scere nel vago sentimento della vergogna. Affinché si dia un terreno vasto, profondo e fertile per uno sviluppo dell'arte, è necessario che la stragrande maggioranza sia al servizio della minoranza e che sia fatta schiava dei biso­gni vitali, ben oltre la misura della sua indigenza individuale. A sue spese e attraverso il suo superlavoro quella classe privilegiata dev'essere sottratta alla lotta per l'esistenza, per produrre un nuovo mondo di bisogni e per soddisfarli.

Analogamente dobbiamo intenderci sul fatto che, come verità amara, bisogna ammettere che la schiavitù appartiene all'essenza di una cultura: una verità che certamente non lascia più nessun dubbio circa il valore asso­luto dell'esistenza. Essa è l'avvoltoio che rode il fegato al fautore prome­teico della cultura. La pena degli uomini che vivono di fatica dev'essere an­cora accresciuta, per rendere possibile a una piccola schiera di uomini olimpici la produzione del mondo dell'arte. Qui sta l'origine di quel risen­timento che i comunisti, i socialisti e anche i loro più sbiaditi epigoni, la pallida razza dei «liberali», hanno nutrito in ogni epoca contro le arti e an­che contro l'antichità classica. Se davvero la cultura dovesse fare affida­mento sulla comprensione del popolo, se qui non fossero in gioco forze inevitabili, che per il singolo sono legge e ostacolo, allora il disprezzo della cultura, la glorificazione della povertà di spirito, la negazione iconoclastica delle esigenze artistiche sarebbero qualcosa di più della rivolta della massa oppressa contro dei parassiti: sarebbe il grido della compassione a rove­sciare le pareti della cultura; la tensione verso la giustizia e verso una pro­porzionata partecipazione al dolore travolgerebbe tutte le altre rappresen­tazioni. Effettivamente per breve tempo e in luoghi diversi un'onda strari­pante di compassione ha spezzato tutti gli argini della vita culturale; un ar­cobaleno di amore misericordioso e di pace è apparso tra i primi bagliori del cristianesimo, e sotto di esso è maturato il suo più bel frutto, il Vangelo di Giovanni. Si danno però-anche molti esempi di grandi religioni che per un lungo periodo pietrificano un determinato livello culturale e recidono con una falce crudele tutto ciò che vuole ancora crescere forte. E infatti una cosa non si deve dimenticare: la stessa crudeltà che noi troviamo nel­l'essenza di ogni cultura, è anche nell'essenza di ogni religione potente e in generale nella natura della potenza, che è sempre cattiva; sicché analoga­mente è facile capire quando una cultura con il suo grido di libertà o per lo meno di giustizia spezza il troppo alto bastione dell'esigenza religiosa.

Ciò che in questo atroce ordine di cose vuol vivere e cioè deve vivere, è nel fondamento della sua essenza immagine del dolore originario e della contraddizione originaria, sicché non può non essere colto da «queirorga-

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no conforme al mondo e alla terra» che è la nostra vista come brama insa­ziabile di essere ed eterna autocontraddizione nella forma del tempo, cioè come divenire. Ogni attimo inghiotte quello che l'ha preceduto, ogni nasci­ta è la morte d'un'infinità di creature; procreare e vivere e uccidere sono una cosa sola. Perciò noi possiamo anche paragonare la grande cultura a un vincitore grondante sangue che nel suo corteo trionfale trascina come schiavi i vinti legati al suo carro: e questi una forza caritatevole li ha acce­cati, cosicché essi, quasi schiacciati dalle ruote del carro, tuttavia esclama­no ancora: «dignità del lavoro!», «dignità dell'uomo!». La cultura, come una lasciva Cleopatra, continua a gettare le sue perle più preziose nel suo calice dorato: perle, queste, che sono le lacrime della compassione per lo schiavo e per la sua miserabile condizione. È dalla bolsaggine dell'uomo moderno che è sorto l'enorme stato di crisi sociale del presente, non da ve­ra e profonda pietà per quella miserabile condizione; e se fu vero che i Gre­ci si persero per via della loro schiavitù, è ancor più vero che noi ci perdere­mo per via della nostra mancanza di schiavitù: la quale non urtò in alcun modo né il cristianesimo delle origini né il germanesimo, e tantomeno sem­brò loro riprovevole. Come ci è di sollievo la considerazione dei servi della gleba medievali, con i loro rapporti giuridici e di costume, ordinati gerar­chicamente, intimamente forti e delicati, e con il triste ambito della loro angusta esistenza — come ci è di sollievo, e come ci è di monito!

Ora, chi non può riflettere sulla configurazione della società senza ma­linconia, chi ha imparato a concepirla come il parto doloroso e progressivo di quegli uomini di cultura di cui s'è detto, al cui servizio tutto il resto deve piegarsi, costui non si lascerà più ingannare da quel falso splendore di cui i moderni hanno soffuso il significato e l'origine dello Stato. Che cosa può infatti significare per noi lo Stato, se non lo strumento con cui attivare il processo sociale sopra descritto e con cui garantirne una durata irrefrena­bile? Fosse pure ancora così forte nei singoli uomini l'impulso alla socievo­lezza, è soltanto la morsa d'acciaio dello Stato a tenere talmente unite le grandi masse, che ormai una tale composizione chimica della società, con la sua nuova costruzione piramidale, dovrà durare. Ma da dove vien fuori questa subitanea forza dello Stato, il cui scopo va ben oltre la prospettiva e l'egoismo del singolo? Come è sorto lo schiavo, la cieca talpa della cultu­ra? Ce l'hanno rivelato i Greci, con il loro istinto per il diritto dei popoli, il quale anche nella pienezza della loro civiltà e della loro umanità non ha cessato di pronunciare con labbra di bronzo parole come queste: «È al vin­citore che appartiene il vinto, con la sua donna e i suoi figli, i suoi beni e il suo sangue. La violenza è il primo fondamento del diritto, e non c'è diritto che, nel suo fondamento, non sia tracotanza, usurpazione, prepotenza».

Qui noi osserviamo nuovamente con quale impietosa inflessibilità la na­tura, per giungere alla società, si forgi il crudele artificio dello Stato — os­sia di quel conquistatore dal pugno di ferro che non è se non l'oggettivazio­ne dell'istinto di cui s'è detto. Di fronte all'indefinibile grandezza e poten­za di quei conquistatori l'osservatore si avvede che si tratta soltanto di mezzi in vista d'un'intenzione che in loro si manifesta e tuttavia si nascon­de ai loro occhi. È come se da essi sortisse un volere magico, tanto rapida­mente e enigmaticamente si stringono ad essi le forze più deboli e si tra­sformano mirabilmente per l'improvviso gonfiarsi di quella slavina di vio­lenza sotto l'incantamento di quel nucleo creativo, in un'affinità fino a quel momento disconosciuta.

Se ora noi osserviamo quanto poco si inquietano per quell'atroce origine dello Stato coloro che vi sono sottomessi, sicché a ben vedere non ci sono

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in alcun modo avvenimenti su cui la storia ci ammaestri peggio che sul con­figurarsi di quelle usurpazioni improvvise, violente, sanguinose e per lo meno su di un punto inspiegabili; se piuttosto noi vediamo come i cuori senza volerlo si schiudano alla magia dello Stato in divenire, con il presen­timento d'un'intenzione invisibile e profonda là dove l'intelletto calcolato­re è capace di scorgere soltanto un'addizione di forze; se pensiamo che ora lo Stato è con ardore considerato addirittura come se fosse lo scopo e l'api­ce dei sacrifici e dei doveri dei singoli: allora da tutto ciò emerge la stermi­nata necessità dello Stato, senza la quale alla natura non sarebbe concesso di pervenire, attraverso la società, alla propria redenzione, nell'apparenza, nello specchio del genio. Quante conoscenze possono essere superate dall'i­stintivo piacere dello Stato! Eppure si dovrebbe pensare che chi ha guarda­to a fondo in quella che è l'origine dello Stato, d'ora in avanti cercherà la sua salvezza solo nell'allontanarsene disgustato; dove, del resto, non si ve­dono monumenti di questa sua origine, terre devastate, città rase al suolo, uomini rinselvatichiti, odio feroce tra i popoli? Lo Stato, dall'origine igno­miniosa, fonte straripante di angoscia per la maggior parte degli uomini, fiamma divorante del genere umano in epoche spesso ricorrenti — e tutta­via un'eco che ci fa dimenticare di noi stessi, un grido di guerra che ha ispi­rato infinite azioni veramente eroiche, forse l'oggetto più alto e degno d'o­nore per la massa cieca ed egoistica, la quale soltanto nei momenti eccezio­nali della vita dello Stato reca sul volto una singolare espressione di gran­dezza!

Però noi già a priori dobbiamo figurarci i Greci come «uomini politici in sé», in riferimento alla loro arte d'un'altezza e d'un'unicità solari; e in ef­fetti la storia non conosce un altro esempio d'una così terribile esplosione dell'impulso politico e di un così incondizionato sacrificio di tutti gli altri interessi al servizio di questo istinto dello Stato — a meno che non si voglia designare con lo stesso titolo, per analogia e su basi simili, gli uomini del rinascimento italiano. Quell'impulso è presso i Greci così prepotente, ch'esso sempre di nuovo ricomincia a infierire contro se stesso e pianta i denti nella propria carne. Questa rivalità sanguinosa di una città contro l'altra, di un partito contro l'altro, questa brama omicida di tutte quelle

• piccole guerre con quel trionfo da tigri sul cadavere del nemico atterrato, in breve il rinnovarsi senza fine di quelle scene troiane di battaglie e di atrocità nella cui contemplazione Omero da autentico greco si immerge pieno di piacere, — questa ingenua barbarie dello Stato greco che cosa mai significa e donde trae giustificazione davanti al tribunale della giustizia eterna? Orgoglioso e sereno si fa avanti dinanzi ad esso lo Stato e conduce per mano una magnifica donna fiorente, la società greca. Per questa Elena esso ha fatto tutte quelle guerre — e quale canuto giudice potrebbe in tal caso condannarlo?

In questa relazione misteriosa, che qui noi presentiamo, tra Stato e arte, brama politica e produzione artistica, campo di battaglia e opera d'arte, come già osservato, lo Stato si dà a conoscere soltanto per quella morsa di ferro che tiene sotto controllo il processo di formazione della società: del resto senza Stato, nel naturale bellum omnium contro omnes, la società in generale non può penetrare con le sue radici in una vasta area e comunque non al di là del dominio della famiglia. Ora, dopo che la formazione degli Stati si è generalmente diffusa, quella tendenza del bellum omnium contro omnes si concentra nelle nubi delle atroci guerre dei popoli di tanto in tan­to e si abbatte per così dire in più radi ma ben più forti tuoni e fulmini. Nelle pause è dato tempo alla società, sotto l'effetto concentrato e rivolto all'interno di quel bellum, di germinare e di verdeggiare ovunque, così che

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non appena si danno giorni più caldi, i fiori del genio possono sbocciare splendidamente.

Rispetto al mondo politico dei Greci, non voglio nascondere in quali fe­nomeni del presente credo di riconoscere gravi forme degenerative della sfera politica, pericolose sia per l'arte sia per la società. Se devono esserci uomini che per la loro stessa nascita sono sottratti per così dire agli istinti del popolo e dello Stato, e che perciò ammettono lo Stato solo a misura che possono comprenderlo nel loro stesso interesse: allora uomini del gene­re si rappresenteranno necessariamente come scopo supremo dello Stato una coesistenza il più possibile indisturbata di grandi comunità politiche, nelle quali fosse loro concesso di perseguire i propri progetti senza condi­zionamenti. Con questa idea in merito essi promuoveranno la politica che offra ai loro progetti la massima sicurezza, mentre è impensabile ch'essi, contro i loro progetti e guidati da una sorta di istinto inconscio, debbano offrirsi in sacrificio a ciò cui tende lo Stato; impensabile dal momento ch'essi appunto non hanno quell'istinto. Tutti gli altri cittadini sono all'o­scuro di ciò che la natura persegue in essi con quel loro istinto dello Stato e seguono ciecamente; soltanto coloro che stanno al di fuori di questo istinto sanno quel che vogliono dallo Stato e quel che lo Stato deve garantire loro. Perciò è senz'altro inevitabile che tali uomini esercitino grande influenza sullo Stato, perché essi sono in grado di trattarlo come mezzo, mentre tutti gli altri, sottoposti alla potenza di quell'inconscia intenzione dello Stato stesso, non sono che mezzi in vista dello scopo che lo Stato si prefigge. Quindi per soddisfare per mezzo dello Stato la più alta esigenza dei propri scopi egoistici, è anzitutto necessario che lo Stato venga liberato da quegli atroci e non prevedibili spasimi della guerra, in modo che se ne possa dare un uso razionale; e in modo che essi possano tendere, quanto più coscien­temente è possibile, a una situazione in cui la guerra è impossibile. A que­sto proposito si tratta anzitutto di troncare e di depotenziare il più possibi­le gli impulsi politici particolari e, attraverso la costituzione di grandi corpi statali equilibrati e di reciproche garanzie, di rendere il più possibile inve­rosimile l'esito favorevole di una guerra di aggressione e quindi la guerra stessa: d'altra parte essi cercano di sottrarre la questione della guerra e del­la pace alla decisione dei singoli che detengono il potere per appellarsi piut­tosto all'egoismo della massa o dei suoi rappresentanti: perciò essi devono di nuovo dissolvere lentamente gli istinti monarchici dei popoli. A questo scopo essi corrispondono tramite la diffusione universale della concezione del mondo liberale e ottimistica, la quale ha le sue radici nelle dottrine del­l'illuminismo francese e della rivoluzione, cioè in una filosofia assoluta­mente non germanica, tipicamente latina, piatta e antimetafisica. Nel pre­sente e dominante movimento delle nazionalità e nella contemporanea dif­fusione del suffragio universale non posso fare a meno di vedere anzitutto gli effetti della paura della guerra; e, sullo sfondo di questi movimenti, non posso anzi fare a meno di scorgere come i veramente timorosi della guerra quei solitari del denaro davvero internazionali e senza patria, i quali, in virtù della loro naturale mancanza di istinto statale, hanno imparato a sfruttare la politica come strumento della borsa e lo Stato e la società come apparato di arricchimento personale. Contro la diversione, che per questo verso è da temere, dalla tendenza dello Stato alla tendenza del denaro, l'u­nico rimedio è la guerra, nuovamente la guerra: nel cui sollevamento per lo meno diventa molto chiaro che lo Stato non è fondato sulla paura del de­mone della guerra, quasi organismo di difesa di egoistici individui, ma pro­duce piuttosto nell'amore per la patria e per i princìpi uno slancio etico che

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si riferisce a un destino molto più elevato. Se dunque io designo come ca­ratteristica pericolosa del nostro modo di far politica l'utilizzazione dei pensieri della rivoluzione al servizio di una aristocrazia del denaro egoistica e priva di senso dello Stato, se io concepisco nello stesso tempo l'enorme diffusione dell'ottimismo liberale come risultato di una moderna economia del denaro tutta nelle mani di pochi, e se io vedo tutto il male della situa­zione sociale, insieme con la necessaria decadenza dell'arte, o come sorta da quella radice o come concresciuta con essa: allora mi si terrà per buono il mio occasionale peana intonato alla guerra. Terribile risuona il suo arco d'argento: e anche se sopraggiunge come la notte, è tuttavia Apollo, il vero dio della consacrazione e della purificazione dello Stato. Ma anzitutto, co­me sta scritto all'inizio del'Iliade, egli scaglia il dardo contro i muli e i ca­ni. Subito però colpisce anche gli uomini, e dappertutto cataste di legna ar­dono con sopra cadaveri. Sia perciò chiaro che la guerra è una necessità per lo Stato così come lo schiavo lo è per la società: e chi potrà mai sottrar­si a queste conoscenze, non appena si interroghi onestamente sulle ragioni dell'insuperata perfezione dell'arte greca?

Chi consideri la guerra e la sua possibilità in divisa, cioè la classe dei sol­dati, in rapporto alla fin qui tratteggiata essenza dello Stato, deve convin­cersi che attraverso la figura della guerra e della classe dei soldati ci vien posta davanti agli occhi un'immagine o forse addirittura l'archetipo dello Stato. Qui noi vediamo, come effetto più generale della tendenza alla guer­ra, una immediata divisione e un immediato smembramento della massa caotica in caste militari, dalle quali si eleva la costruzione della «società guerriera», a forma di piramide basata su di un infimo e vastissimo strato di schiavi. L'inconscio scopo dell'intero movimento costringe ciascun indi­viduo sotto il suo giogo e produce anche in nature eterogenee una sorta di trasformazione chimica delle loro proprietà, finché esse non vengono rese congeniali a quel fine. Nelle caste superiori si intuisce già di più ciò di cui in fondo si tratta in questo processo interno, ossia della produzione del ge­nio militare — che noi già abbiamo imparato a conoscere come il fonda­mento originario dello Stato. In alcuni Stati, come per esempio nella legi­slazione spartana di Licurgo, si può percepire con chiarezza l'impronta dell'idea fondamentale dello Stato, cioè appunto la produzione del genio militare. Se ora noi pensiamo all'originario Stato militare nella sua inten­sissima attività e nel suo specifico «lavoro» e ci portiamo davanti agli occhi l'intera tecnica della guerra, non potremo fare a meno di correggere i no­stri concetti, sorbiti da ogni parte, circa la «dignità dell'uomo» e la «digni­tà del lavoro», e ciò attraverso la questione se il concetto di dignità spetti anche a quel lavoro che ha come scopo la negazione dell'uomo «pieno di dignità» e anche a quell'uomo che si occupa di quel lavoro «pieno di digni­tà», oppure se in questo compito guerriero dello Stato tali concetti non si sopprimano l'un l'altro, eome vicendevolmente contraddittori. Io devo pensare che l'uomo di guerra sia uno strumento del genio militare, così co­me anche il suo lavoro; e che a lui, non in quanto uomo in assoluto e non genio, ma in quanto strumento del genio — che può anche gradire la sua soppressione come strumento dell'opera d'arte guerriera — convenga un grado di dignità, e cioè quella dignità di essere apprezzato come strumento del genio. Ma ciò che qui è proposto in un singolo esempio, vale anche nel senso più generale: ciascun uomo, considerato nella globalità del suo agire, ha dignità solo in quanto, Io sappia o no, è strumento del genio, dal che si deve trarre subito la conseguenza etica che l'«uomo in sé», l'uomo in asso­luto, non possiede né dignità, né diritti, né doveri: solo come essere intera-

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mente condizionato e al servizio di fini inconsapevoli, l'uomo, può giustifi­care la sua esistenza.

Lo Stato perfetto di Platone sulla base di queste osservazioni è certa­mente qualcosa di ancor più grande di quanto credono i più accesi tra i suoi sostenitori, per non parlare dell'ironica espressione di superiorità con cui i nostri intellettuali «storicisti» sanno mettere da parte un tale frutto dell'antichità. L'autentico fine dello Stato, l'esistenza olimpica e la sempre rinnovata generazione e preparazione del genio, a fronte della quale tutto il resto non è che strumento, sussidio e condizione, è qui trovato con una intuizione poetica e vigorosamente dipinto. Platone penetrò con lo sguar­do nell'Erma orrendamente devastata della vita statale di allora e colse nel suo intimo ancora qualcosa di divino. Egli perciò credette che si potesse ancora tirar fuori quest'immagine divina e che il lato esteriore, crudamente e barbaramente distorto, non appartenesse all'essenza dello Stato: tutta l'esaltazione e la sublimità della sua passione politica si buttarono su quel­la fede, su quel desiderio — e di quella vampa arse. Che egli nel suo Stato perfetto non abbia posto alla sommità il genio nel suo concetto generale ma soltanto il genio della sapienza e della conoscenza, ch'egli anzi abbia in generale bandito dal suo Stato l'artista geniale, ciò fu una rigida conse­guenza del giudizio socratico sull'arte, che Platone, in lotta con se stesso, aveva fatto suo. Questa lacuna piuttosto estrinseca e quasi casuale non ci deve impedire di riconoscere, nella concezione generale dello Stato in Pla­tone, il geroglifico straordinariamente grande di una profonda e ancora tutta da interpretare dottrina segreta della connessione tra Stato e genio: ciò che noi di questa dottrina segreta abbiamo creduto di intuire, l'abbia­mo detto in questa prefazione.

4. Il rapporto della filosofia schopenhaueriana con una certa cultura tedesca

Nella cara e infame Germania, la cultura è così decaduta da finir sulle strade, l'invidia per tutte le cose grandi regna così spudoratamente e Io strepito di tutti coloro che corrono verso la «felicità» risuona in modo così rintronante, che si deve possedere una fede ben robusta, quasi nel senso del credo quia absurdum est, per sperare ancora in un futuro della cultura e per poter ancora prima di tutto lavorare per essa — insegnando pubblica­mente in antitesi alla «opinione pubblica» della stampa. Coloro cui sta a cuore l'immortale zelo per il popolo, si devono liberare con la forza dalle incalzanti impressioni di ciò che proprio ora è presente e ha valore e devo­no far mostra di tenere tutto ciò nel conto delle cose indifferenti. Devono far questo perché vogliono pensare e perché una visione ripugnante e un rumore confuso e mischiato ai suoni di tromba della gloria guerriera turba il loro pensiero, ma soprattutto perché essi vogliono credere nella germani-tà, e, perdendo con questa fede perderebbero anche le loro forze. Non vi irritino questi fedeli, quando molto di lontano e dall'alto in basso guarda­no alla terra delle loro promesse! Essi hanno paura di quelle esperienze cui si abbandona il benevolo straniero, quando vivendo tra tedeschi si meravi­glia di quanto poco la vita ora in Germania corrisponda a quelle grandi in­dividualità, opere e gesti che nella sua benevolenza aveva imparato a ono­rare come specificamente tedeschi. Dove il tedesco non può innalzarsi alle cose grandi, egli dà di sé un'immagine poco meno che mediocre. La stessa famosa scienza tedesca, nella quale molte delle più utili virtù domestiche e familiari, ossia fedeltà, autodisciplina, diligenza, modestia, politezza ap-

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paiono tradotte in una atmosfera più libera e come trasfigurate, non è pe­raltro in alcun modo il risultato di queste virtù; visto da vicino, il motivo della spinta verso un conoscere illimitato, in Germania sembra piuttosto una mancanza, un difetto, una lacuna, che non uno straripare di forze, quasi l'effetto di una vita fiacca, povera e informe e anzi un'evasione di fronte alla meschineria e alla malvagità, di cui il tedesco senza tali diversio­ni sarebbe preda e che in ogni caso, nonostante la scienza, proprio nella scienza emergono ripetutamente. Quanto alla disciplina, nel vivere come nel conoscere e nel giudicare, i tedeschi si danno a conoscere come autenti­ci virtuosi del filisteismo; ma se qualcuno vuole innalzarli al di sopra di lo­ro stessi verso il sublime, allora si fanno pesanti come il piombo, e appunto come pesi di piombo si appendono ai loro veri grandi, per tirarli giù dall'e­tere verso di loro e verso la loro miseranda miseria. Può darsi che questa giovialità di tipo filisteo non sia che una degenerazione di virtù autentica­mente tedesche — una sorta di immersione nell'intimo di ciò che è singolo, piccolo, prossimo e nei misteri dell'individuo — ma questa virtù avvizzita è oggi più trista del vizio più sbandierato; e ciò in particolare da quando di questa proprietà si è preso allegramente coscienza, fino all'autoglorifica-zione letteraria. Ora gli «intellettuali», tra i tedeschi notoriamente molto colti, e i «filistei», tra i tedeschi notoriamente molto incolti, si danno aper­tamente la mano e stringono un patto gli uni gli altri sul come, d'ora in avanti, scrivere, poetare, dipingere, far musica e addirittura filosofare e, perché no, governare, per non star troppo lontani dalla «cultura» degli uni e per non avvicinarsi troppo alla «giovialità» degli altri. Questo ora lo si chiama «la cultura tedesca di oggi». Al che ci sarebbe soltanto più da chie­dersi, da quale segno è riconoscibile quell'«intellettuale», dal momento che noi sappiamo che il suo fratello di latte, il filisteo tedesco, senza vergogna, quasi avesse perduto l'innocenza, si dà a conoscere come tale in giro per il mondo.

L'intellettuale oggi ha anzitutto una cultura storica: attraverso la sua co­scienza storica egli si sottrae al sublime; cosa che al filisteo è possibile me­diante la sua «giovialità». Non più l'entusiasmo, che la storia suscita — come ancora Goethe poteva pensare — ma precisamente lo spegnimento di ogni entusiasmo è ora il fine di questi ammiratori del nil admirarì, quando cercano di comprendere tutto storicamente; ma a loro bisogna rispondere: «Siete voi i matti di tutti i secoli! La storia vi farà solo quelle confessioni che sono degne di voi! In ogni tempo il mondo fu pieno di banalità e di quisquilie: appunto queste e soltanto queste si sveleranno alla vostra cupi­digia storica. Potete precipitarvi a migliaia sopra una determinata epoca — resterete affamati come prima e gloriosi d'una salute che consiste nella fa­me. lllam ipsam quam iactant sanitatem non firmitate sed ieiunio conse-quuntur. (Dial. de orator., e. 25.) Tutto ciò che è essenziale la storia non ha voluto rivelarvelo, ponendosi piuttosto, senza essere vista, accanto a voi e deridendovi, col mettere nelle mani dell'uno un'azione politica, in quelle dell'altro una relazione diplomatica, in quelle di un altro ancora una data o un'etimologia o una ragnatela di fatti. Credete voi davvero di potere fare i conti con la storia come se si trattasse di fare un'addizione e a questo pro­posito voi tenete abbastanza per buona la vostra piatta intelligenza e la vo­stra cultura matematica? Come dev'essere seccante per voi sentire che altri parlano di cose, tratte da periodi storici noti a tutti, ma che voi non riusci­rete assolutamente mai a concepire».

Quando poi a questa cultura vuota d'ogni ispirazione che si chiama sto­rica e a quel filisteismo astioso e nemico di ogni cosa grande si unisce an-

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che quella terza compagnia brutale ed esaltata — la compagnia di quelli che rincorrono la «felicità» — ecco allora in swnma un gridare così confu­so e un tumulto così capace di storcere le membra che il pensatore con gli orecchi tappati e gli occhi chiusi se ne fugge nel deserto più solitario, là de­ve può vedere ciò che quelli non potranno mai vedere, ciò che risuona a lui dalle profondità della natura e dalle stelle. Qui egli si confronta con i gran­di problemi che gli vagano appresso, le cui voci hanno un tono tanto terri­bile e privo di giovialità quanto eterno e antistorico. L'effeminato è ricac­ciato indietro dal loro freddo respiro, mentre il calcolatore passa in mezzo a loro senza coglierne la presenza. Però è con l'«intellettuale» che le cose vanno nel modo peggiore, quando costui si aggira intorno a questi proble­mi, a suo modo, con impegno e serietà. Per lui questi fantasmi si trasfor­mano in grovigli di concetti e in vuote figure sonore. Inseguendoli per af­ferrarli egli crede di tenere in pugno la filosofia e cercandoli si arrampica su per la cosiddetta storia della filosofia — e quando infine ha raccolto e accatastato un'intera nuvola di astrazioni e di nozioni, gli può accadere che un vero pensatore gli si pari davanti sulla strada e faccia piazza pulita di tutto ciò. Veramente un brutto affare, occuparsi di filosofia da «intellet­tuale». Di tanto in tanto si convince che è diventato possibile l'impossibile legame della filosofia con ciò che ora si vanta d'essere la «cultura tedesca»; una sorta di creatura ibrida si gingilla e strizza l'occhio tra le due sfere e da una parte e dall'altra confonde la fantasia. Ma per intanto ai tedeschi che non vogliono lasciarsi confondere bisogna dare un consiglio. Essi possono domandarsi, di fronte a tutto ciò ch'essi chiamano «cultura»: è questa l'auspicata cultura tedesca, così seria e creativa, così liberatrice per lo spiri­to tedesco, così purificatrice per le virtù tedesche, che l'unico filosofo di questo secolo, Arthur Schopenhauer, dovrebbe riconoscere per sua?

Qui avete il filosofo — ora cercate la cultura che gli sia propria! E se po­tete presentire quale sia la cultura che corrisponda a un tale filosofo, allora con questo presentimento voi avete già fatto giustizia della vostra cultura e di voi stessi!

5. Certame omerico Quando si parla di umanità, l'idea in fondo riguarda ciò che separa e

contraddistingue l'uomo dalla natura. Ma una tale separazione in realtà non si dà: le qualità «naturali» e quelle che si presumono specificamente «umane» sono cresciute insieme inseparabilmente. L'uomo, nelle sue forze più alte e più nobili, è tutto natura e porta in sé questo suo strano carattere ancipite. Le sue tendenze terribili e ritenute disumane non sono forse che il terreno fertile dal quale soltanto può svilupparsi, nei sentimenti e nelle azioni e nelle opere, tutto ciò che si chiama umanità.

Così i Greci, gli uomini più umani dell'antichità, hanno in sé un tratto di ferocia, di brama distruttiva alla maniera delle tigri — un tratto che è assai visibile anche in colui che è l'immagine speculare del greco ingrandita fino al grottesco e cioè Alessandro Magno — ma che in tutta la loro storia così come nella loro mitologia è per noi, che l'accostiamo per mezzo del nostro edulcorato concetto di umanità, fonte di angoscia. Quando Alessandro fa bucare i piedi del bravo difensore di Gaza, Batis, e lega il suo corpo vivo al suo carro, per portarlo in giro tra lo scherno dei suoi soldati: ecco, questa è la caricatura, che suscita ripulsione, di Achille, il quale di notte strazia il cadavere di Ettore trascinandolo alla stessa maniera; e anche qui c'è per noi qualcosa che offende e ispira orrore. Noi qui penetriamo nell'abisso

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dell'odio. Ed è lo stesso sentimento quello con cui ad esempio ci mettiamo di fronte al dilaniarsi sanguinario e senza fine di due partiti greci come per esempio durante la rivoluzione di Corcira. Quando il vincitore, in una bat­taglia tra città, sulla base del diritto di guerra, passa per le armi tutti i citta­dini maschi e vende come schiavi tutte le donne e i bambini, allora noi os­serviamo nella sanzione di un tale diritto che il greco riteneva seriamente necessaria una piena esplosione del suo odio; in simili momenti il senti­mento compresso e inturgidito defluiva: la tigre balzava fuori e una crudel­tà voluttuosa brillava nei suoi occhi terribili. Perché lo scultore greco dove­va sempre di nuovo ritrarre scene di guerra e di battaglia in infinite ripeti­zioni, corpi d'uomini in tensione, i cui spasimi sono dovuti all'odio o alla tracotanza del trionfo, feriti che si contorcono, morenti che rantolano? Perché tutto il mondo greco giubilava di fronte alle immagini di battaglia deli'Iliade! lo credo che noi queste cose non le intendiamo abbastanza nel senso «greco», anzi, credo che noi inorridiremmo, se mai le intendessimo in questo senso.

Ma cosa c'è dietro il mondo omerico, come una sorta di grembo mater­no di tutto ciò che è greco? In esso, grazie alla determinatezza, alla serenità e alla purezza di linee dello straordinario valore artistico, noi siamo già portati oltre ciò che è semplice commistione: i colori di questo mondo, nel­l'illusione artistica, appaiono più luminosi, più dolci, più caldi, e i suoi uo­mini, in questa calda luminosità cromatica, migliori e più simpatici — ma verso che cosa volgiamo lo sguardo quando, non più accompagnati né pro­tetti dalla mano di Omero, ci riportiamo al mondo preomerico? Soltanto nella notte e nella crudeltà, nei parti di una fantasia abituata a ciò che è mostruoso. Di quale esistenza terrena sono il riflesso queste ripugnanti e terribili teogonie? Una vita sulla quale hanno potere soltanto i figli della notte, la lotta, la brama sessuale, l'inganno, la vecchiaia e la morte. Imma­giniamoci l'aria, per noi già difficile da respirare, della poesia esiodea co­me ancora più torbida e buia e senza quegli addolcimenti e quelle purifica­zioni che da Delfi e dai numerosi santuari si diffondevano su tutta la Gre­cia: mescoliamo poi questa torbida aria di Beozia con la buia lascivia degli Etruschi; allora una tale realtà ci presenterebbe un mondo di miti in cui Urano, Crono e Zeus e le lotte dei Titani dovrebbero apparirci come una li­berazione; in questa atmosfera soffocante la lotta è salute e salvezza, men­tre la crudeltà della vittoria è il culmine della gioia di vivere. E così, come in verità è dall'omicidio e dalla sua espiazione che si è sviluppato il concet­to del diritto greco, allo stesso modo anche la cultura più nobile raccoglie la sua corona di vittoria dall'altare dell'espiazione dell'omicidio. A partire da quell'epoca sanguinaria un solco profondo è stato tracciato nella storia greca. I nomi di Orfeo, di Museo e il loro culto attestano a quali esiti abbia condotto l'idea persistente d'un mondo di lotta e di crudeltà — al disgusto per l'esistenza, alla concezione di questa esistenza come d'una colpa da espiare, alla fede circa l'identità di esistenza e colpa. Certo questi esiti però non sono specificamente ellenici: in essi la Grecia stabilisce una connessió­ne con l'India e in genere con l'Oriente. Il genio greco aveva già pronta un'altra risposta alla domanda: «Qual è lo scopo d'una vita di lotta e di vittoria?», e dette questa risposta lungo tutto il corso della sua storia.

Per comprenderla, noi dobbiamo cominciare dal fatto che il genio greco dette libero corso a quella pulsione che si esprimeva in modo così terribile e la trattò come se fosse giustificata: e ciò mentre nella visione orfica perma­neva l'idea che una vita radicata in tali pulsioni non fosse degna di essere vissuta. La lotta e il piacere della vittoria furono riconosciute: e nulla sepa-

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ra il mondo greco dal nostro, quanto il tono, da qui derivato, di singoli concetti etici come quelli di discordia e di invidia.

Quando il viaggiatore Pausania, durante le sue peregrinazioni attraverso la Grecia, visitò l'Elicona, gli fu mostrato un antichissimo esemplare del primo poema greco a carattere didattico e cioè Le opere e i giorni di Esio­do, inciso su lastre di piombo e gravemente danneggiato dal tempo e dalle intemperie. Egli però si rese ugualmente conto che, diversamente dagli altri esemplari correnti, questo all'inizio non recava quel famoso piccolo inno a Zeus e cominciava invece con la sentenza: «Sulla terra ci sono due dee Eris». Questo è uno dei pensieri greci più degni di nota e degno di essere scolpito per il futuro sul frontone dell'etica greca: «Di tali Eris l'una, se si ha cervello, dovrebbe essere tanto lodata quanto l'altra spregiata; infatti queste due divinità hanno caratteri del tutto diversi. L'una suscita la mala guerra e il litigio, la crudele! Nessun mortale può sopportarla, ma sotto il giogo della necessità, si giunge a onorare questa Eris che dà dura pena, se­condo il decreto degli immortali. Questa, la più vecchia, ha generato la ne­ra notte; l'altra invece, Zeus che domina dall'alto l'ha posta giù nelle radici della terra e tra gli uomini, in quanto è molto migliore. Questa è anche co­lei che spinge al lavoro l'inetto; e quando qualcuno che non ha nessuna proprietà vede un altro che è ricco, allora si affretta in qualche modo a se­minare, a piantare, a far migliorie nella sua casa; il vicino fa a gara con il vicino nel cercare il benessere. Questa Eris è buona per gli uomini. Anche il vasaio è astioso verso il vasaio e il muratore verso il muratore, così come il mendicante invidia il mendicante e il cantore invidia il cantore».

Questi ultimi due versi, che trattano dell'odium figulinum, ai nostri dotti sembrano incomprensibili. Secondo il giudizio di costoro, i predicati «astio» e «invidia» si confanno soltanto alla cattiva Eris; perciò essi non hanno nessuno scrupolo a designare questi versi come fuori di contesto o inseriti qui per sbaglio. Ciò dev'essere avvenuto in quanto un'etica diversa da quella greca li ha inconsapevolmente condizionati: tant'è che Aristotele non percepisce nessuna discordanza nel rapporto di questi versi con la buo­na Eris. E non soltanto Aristotele, ma tutta l'antichità greca la pensa di­versamente da noi circa l'astio e l'invidia e giudica come Esiodo, il quale designa come cattiva una sola Eris, quella cioè che trascina gli uomini gli uni contro gli altri in animose lotte distruttrici, e stima invece buona un'al­tra Eris, che, come gelosia, astio e invidia, sprona gli uomini all'azione, ma non all'azione della lotta distruttrice, bensì a quella del certame. L'uo­mo greco è invidioso, ma non sente questa sua caratteristica come una macchia, bensì come qualcosa che in lui è prodotto da una divinità benefi­ca: quale abisso di giudizio etico fra noi e lui! Poiché è invidioso, egli sente anche, in occasione di qualsiasi eccesso di onore, di ricchezza, di magnifi­cenza, di fortuna, posarsi su di lui l'occhio di un dio invidioso e teme que­sto sguardo; in questo caso egli è come ammonito circa la precarietà di ogni destino umano, e anzi prova ripugnanza per la sua stessa fortuna tan­to da sacrificarne la parte migliore chinando il capo di fronte all'invidia di­vina. Questa idea non lo aliena affatto dai suoi dèi: al contrario è il signifi­cato di questi a risultarne con ciò meglio definito, nel senso che mai con es­si può competere l'uomo, il quale ha un'anima che si accende d'invidia contro qualsiasi altro essere vivente. Nel certame di Tamiri con le Muse o di Marsia con Apollo, nel toccante destino di Niobe viene in luce la terribi­le contrapposizione di due forze che non possono mai combattere tra di lo­ro: uomo e dio.

Ma tanto più grande e tanto più di sentimenti elevati è un uomo greco,

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tanto più intensa si sprigiona da lui la fiamma dell'ambizione, che divora chiunque lo segua. Aristotele una volta ha fatto una lista in grande stile di tali animosi combattenti: qui si trova l'esempio più clamoroso, quello di un morto che può suscitare in un vivo un'invidia divorante. Infatti è in questi termini che Aristotele descrive il rapporto di Senofane di Colofone con Omero. Noi non comprendiamo in tutta la sua portata questo atteg­giamento aggressivo nei confronti dell'eroe nazionale della poesia se non ci rendiamo conto ch'esso ha come radice, cosa che più tardi varrà anche per Platone, il desiderio sconfinato di sostituirsi al poeta rovesciato e di eredi­tarne la gloria. Ogni grande greco passa di mano la fiaccola del certame; ad ogni grande virtù si accende una nuova grandezza. Quando il giovane Temistocle al pensiero degli allori di Milziade non poteva dormire, si scate­nò il suo impulso, precocemente destatosi durante la sua rivalità con Ari­stide, verso quella puramente istintiva e memorabile genialità del suo agire politico, di cui Tucidide ci parla. Come sono caratteristiche, in proposito, questa domanda e questa risposta: quando a un famoso avversario di Peri­cle fu chiesto chi dei due fosse il miglior lottatore della città, egli infatti ri­spose: «Anche se io lo buttassi a terra, lui negherebbe di essere caduto, raggiungerebbe il suo scopo e persuaderebbe coloro che lo hanno visto ca­dere».

Se si vuole osservare questo sentimento veramente svelato nelle sue ma­nifestazioni ingenue, il sentimento della necessità del certame come ciò su cui lo Stato basa la sua salvezza, si pensi al senso originario dell'ostraci­smo: così come l'hanno espresso per esempio gli Efesii quando hanno esi­liato Ermodoro: «Tra noi nessuno dev'essere il migliore; se qualcuno lo è, lo sia altrove e presso altri». Ora, perché nessuno dev'essere il migliore? Perché se qualcuno lo fosse il certame si esaurirebbe e l'eterno fondamento di vita dello Stato greco sarebbe messo in pericolo. Più tardi l'ostracismo viene a configurarsi diversamente nei confronti del certame: lo si usa quan­do è evidente il pericolo che uno dei grandi antagonisti o capi di partito in competizione si sentano spinti, nell'ardore della lotta, verso mezzi nocivi e distruttivi o verso pericolosi colpi di Stato. Il senso originario di questa sin­golare istituzione non è però quello di una valvola di scarico, bensì quello di uno stimolatore: si mette da parte l'individuo che emerge, per ridestare nuovamente il gioco agonistico delle forze: pensiero, questo, contrario al-l'«esclusività» del genio in senso moderno, ma tale da presupporre che, in un ordine naturale di cose, ci siano sempre più geni che si spronano all'a­zione l'un contro l'altro e che, vicendevolmente, si mantengono nei limiti della misura. Questo è il nocciolo dell'idea greca di certame: essa non sop­porta la signoria di un singolo e ne teme i pericoli, e invece auspica come contraccettivo al genio — un secondo genio.

È nella lotta che qualsiasi dote deve formarsi, così ordina la pedagogia popolare greca: gli educatóri moderni, invece, di niente hanno così paura come dello scatenamento della cosiddetta ambizione. Qui si teme l'egoi­smo come se fosse il «male in sé» — con eccezione dei Gesuiti che in ciò vanno d'accordo con gli antichi e che perciò sono davvero i più efficaci educatori del nostro tempo. Essi sembrano credere che l'egoismo ossia ciò che è individuale non sia che il motore più potente, ma che il suo essere «buono» o «cattivo» gli derivi soltanto dagli scopi a partire dai quali esso si qualifica. Per gli antichi invece lo scopo dell'educazione agonistica era la prosperità delta società, dello Stato. Ciascun ateniese per esempio doveva promuovere lo sviluppo di sé attraverso la competitivita fino al punto d'es­sere massimamente utile ad Atene e portarle il minimo danno. Non si potè-

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CINQUE PREFAZIONI PER CINQUE LIBRI NON SCRITTI 91

va parlare di ambizione smisurata e al di fuori di ogni misurabilità, come invece accade per l'ambizione modernamente intesa: il giovane pensava al bene della sua città madre, quando gareggiava nella corsa, nei lanci o nel canto; era per la gloria della città ch'egli voleva accrescere la sua; dedicava agli dèi della sua città la corona che i giudici gli ponevano sul capo per onorarlo. Ciascun greco fin dalla fanciullezza sentiva il desiderio bruciante di essere, nella lotta fra città, uno strumento di salvezza per la propria: di ciò si infiammava il suo egoismo e in ciò trovava un freno e un limite. Per­ciò gli individui nell'antichità erano più liberi, in quanto i loro fini erano più prossimi e più raggiungibili. Invece l'uomo moderno ha per lo più la via ovunque sbarrata dall'infinità, come il pie veloce Achille nell'immagine di Zenone di Elea: l'infinità lo trattiene, e lui non può raggiungere la tarta­ruga neppure una volta.

Ma allo stesso modo in cui gli educandi venivano educati a gareggiare tra loro, anche gli educatori a loro volta erano in competizione. Diffidenti e gelosi si presentavano i grandi maestri musicali, Pindaro e Simonide, l'u­no accanto all'altro; in atteggiamento di sfida il sofista, cioè il maestro del­l'antichità di più alto grado, si fa incontro al sofista; lo stesso tipo più ge­nerale di insegnamento, per mezzo del dramma, veniva impartito al popolo sotto forma di una lotta senza quartiere tra i grandi artisti musicali e quelli drammatici. Incredibile! «Anche l'artista ha del rancore verso l'artista.» E se l'uomo moderno non teme niente in un artista più della personale ten­denza alla lotta, l'uomo greco invece conosce l'artista solo nella lotta per­sonale. Là dove l'uomo moderno subodora qualcosa di debole in un'opera d'arte, l'uomo greco cerca la fonte della sua qualità più potente! Ciò che per esempio nei Dialoghi di Platone ha una rilevanza artistica particolare, è per lo più il risultato di una competizione con l'arte dei retori, dei sofisti, dei drammaturgi del suo tempo, perseguito allo scopo di poter infine affer­mare: «Guardate, io sono in grado di fare anche ciò che possono fare i miei grandi rivali; sì, e addirittura meglio di loro. Nessun Protagora ha im­maginato miti belli come quelli che ho immaginato io, nessun drammatur­go un insieme così vivace e avvincente come il Simposio, nessun retore ha concepito un discorso come quello che io presento nel Gorgia — e io ora mi sbarazzo di tutto ciò e liquido ogni arte imitativa! Soltanto il certame ha fatto di me un poeta, un sofista, un retore!». Quale problema ci si para davanti, se noi ci interroghiamo sul rapporto che intercorre tra il certame e la concezione dell'opera d'arte!

Togliamo invece il certame della vita greca, subito ci affacceremo su quell'abisso preomerico che è il feroce stato selvaggio di odio e di voglia d'annientamento. Questo fenomeno si mostra disgraziatamente piuttosto di frequente, quando una grande personalità a causa di un'azione straordi­nariamente esaltante è sottratta alla competizione e, in base al suo giudizio e a quello dei suoi stessi concittadini, messa hors de concours. L'effetto, quasi senza eccezione, è devastante; e se da quest'effetto in genere si ricava la conclusione che il greco non è stato in grado di sopportare la gloria e la felicità, si dovrebbe con più precisione dire ch'egli non è stato in grado di sopportare la gloria senza un certame ulteriore ossia la felicità alla fine di un certame. Non c'è esempio più chiaro di quello fornito dal compimento del destino di Milziade. Posto a un'altezza solitaria dall'incredibile succes­so di Maratona e molto al di sopra di tutti gli altri combattenti, egli sente ridestarsi in sé un volgare desiderio di vendetta contro un cittadino pario, per il quale nutriva inimicizia da molto tempo.

Per soddisfare questa voglia, abusa della sua fama, dei beni dello Stato,

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della sua dignità di cittadino e si disonora. Sentendo di non riuscire, si ab­bassa a macchinazioni indegne. Egli intraprende una relazione intima e sa­crilega con la sacerdotessa di Demetra, Timo, e di notte penetra nel sacro tempio dal quale ogni uomo era escluso. Appena ha scavalcato il recinto e si è avvicinato al sacrario della dea, lo coglie improvvisamente il pauroso raccapriccio di un terrore panico: quasi schiantando e senza rendersene conto si sente respinto e saltando di nuovo al di là del recinto, precipita giù storpiato e gravemente ferito. Le macchinazioni devono essere abbandona­te, lo aspetta il tribunale popolare, e una morte vergognosa imprime il suo suggello a una vita magnifica ed eroica, oscurandola per tutta la posterità. Dopo l'impresa di Maratona l'invidia dei celesti lo ha afferrato. E questa invidia divina si accende quando l'uomo è sorpreso in una gloria solitaria senza nessun antagonista che lo contrasti. In quel momento egli ha solo gli dèi accanto a sé — e dunque egli li ha contro di sé. Ma questi lo spingono a un'azione di hybris, e sotto di essa egli cade.

Osserviamo ora che, così come perisce Milziade, periscono anche i più nobili Stati greci quando, per merito e per fortuna, dal campo di battaglia si sono portati al tempio di Nike. Atene, che aveva distrutto l'indipenden­za dei suoi alleati e aveva punito con durezza le rivolte degli assoggettati, e Sparta, che dopo l'impresa di Egospotami fece valere in modo ancora più pesante e crudele il suo predominio sulla Grecia, hanno allo stesso modo, sulla scorta dell'esempio di Milziade, affrettato la fine con azioni di hy­bris, a dimostrazione che senza invidia, gelosia e ambizione battagliera sia lo Stato sia l'uomo greco degeneravano. Tanto l'uno che l'altro diventano cattivi e crudeli, rancorosi e sacrileghi, insomma «preomerici» — e perciò è sufficiente un terrore panico per farli cadere e farli sfracellare. Sparta e Atene si consegnano ai Persiani, come avevano fatto Temistocle e Alcibia­de; essi tradiscono ciò che è propriamente ellenico, dopo aver rinunziato alla più nobile delle fondamentali idee greche, ossia l'idea di certame: e Alessandro, copia rozza e sunto della storia greca, inventa allora il Greco cosmopolita e il cosiddetto «ellenismo».

Finito il 29 dicembre 1872

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Su verità e menzogna in senso extramorale

i. In un qualche angolo remoto dell'universo che fiammeggia e si estende

in infiniti sistemi solari, c'era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della «storia universale»: e tuttavia non si trattò che di un mi­nuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigidì, e gli animali intelligenti dovettero morire. — Ecco una favola che qualcuno po­trebbe inventare, senza aver però ancora illustrato adeguatamente in che modo penoso, umbratile, fugace, in che modo insensato e arbitrario si sia atteggiato l'intelletto umano nella natura: ci sono state delle eternità, in cui esso non era; e quando nuovamente non sarà più, non sarà successo nien­te. Per quell'intelletto, infatti, non esiste nessuna missione ulteriore, che conduca al di là della vita dell'uomo. Esso è umano, e soltanto il suo pos­sessore e produttore può considerarlo con tanto pàthos, come se in lui gi­rassero i cardini del mondo. Se fosse per noi possibile comunicare con la zanzara, verremmo a scoprire che anch'essa con lo stesso pàthos nuota nel­l'aria dove si sente come il centro che vola di questo mondo. Non c'è nien­te in natura di così spregevole e dappoco che con un piccolo soffio di quel­la facoltà conoscitiva non si possa gonfiare come un otre; e allo stesso mo­do in cui qualsiasi facchino vuol avere i suoi ammiratori, anche il più orgo­glioso degli uomini, il filosofo, è convinto che da ogni lato gli occhi dell'u­niverso siano puntati telescopicamente sul suo fare e sul suo pensare.

È degno di nota che a tanto giunga l'intelletto, qualcosa cioè che è con­cesso proprio solo come strumento ausiliario alle più infelici, alle più fragi­li, alle più transitorie delle creature, per conservarle un minuto nell'esisten­za; giacché esse altrimenti, senza quel supporto, avrebbero tutte le ragioni a volatilizzarsi tanto rapidamente quanto il figlio di Lessing. Quella traco­tanza legata alla conoscenza e alla sensibilità, nebbia accecante che sta da­vanti agli occhi e ai sensi degli uomini, li inganna dunque sul valore dell'e­sistenza, portando in se stessa la valutazione più piena di lusinghe circa la conoscenza. Il suo effetto più generale è l'inganno — ma anche gli effetti più particolari portano con sé qualcosa dello stesso carattere.

L'intelletto, come mezzo per la conservazione dell'individuo, sviluppa le sue forze più importanti nella simulazione; infatti è questo il mezzo attra­verso cui si conservano gli individui più deboli, meno robusti, visto che a loro è negato di condurre la battaglia per l'esistenza con le corna o con i morsi laceranti degli animali feroci. Nell'uomo quest'arte della simulazio­ne tocca il suo culmine: qui l'ingannare, l'adulare, il mentire, e il fingere, lo sparlare dietro le spalle, il rappresentare, il vivere in una magnificenza d'accatto, il mascherarsi, le convenzioni che servono a nascondere, il reci­tare una parte dinanzi agli altri e a se stessi, in una parola l'incessante svo­lazzare intorno a quella fiamma che è la vanità, tutto ciò così spesso è la re-

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gola e la legge che niente è più inconcepibile del fatto che tra gli uomini possa emergere un impulso onesto e puro verso la verità. Essi sono profon­damente immersi in sogni e illusioni, il loro occhio scivola soltanto sulla superficie delle cose e non vede che «forme», in nessun modo la loro sensi­bilità conduce al vero, bastandole di ricevere stimoli ossia di giocare un gioco tattile sul dorso delle cose. Inoltre l'uomo durante la notte, per tutta la vita, si lascia ingannare in sogno, senza che il suo sentimento morale glielo impedisca; mentre devono esserci uomini che grazie alla forza di vo­lontà hanno eliminato il russare. Che cosa sa propriamente l'uomo di sé? Davvero sarebbe capace, anche solo una volta, di avere di sé una percezio­ne completa, come se si trovasse in una vetrina illuminata? Non gli tace la natura quasi tutto, anche riguardo al suo stesso corpo, per confinarlo e im­prigionarlo in una orgogliosa e illusoria coscienza, lontano dal viluppo del­le interiora, dal rapido flusso del sangue, dai nascosti brividi delle fibre? Essa ha gettato via la chiave: e guai all'infausta curiosità di guardare dalla camera della coscienza attraverso una fessura all'esterno e nel basso e guai al presentimento che l'uomo poggi su ciò che è spietato, avido, insaziabile, omicida e stia sospeso in sogno, nella sua beata ignoranza, per così dire sul dorso di una tigre! Dov'è mai, in quale parte del mondo, sotto questa co­stellazione l'impulso alla verità?

In quanto l'individuo vuole conservare se stesso di fronte ad altri indivi­dui, in uno stato di cose naturale egli si serve dell'intelletto per lo più sol­tanto per la simulazione; ma poiché l'uomo vuole anche esistere, sia per bi­sogno sia per noia, socialmente e come in un gregge, stipula un patto di pa­ce e si adopera per cancellare dal suo mondo almeno il più brutale bellum omnium contra omnes. Questo patto di pace porta qualcosa con sé, che è come il primo passo verso il raggiungimento di quell'enigmatico impulso alla verità. A questo punto cioè viene fissato ciò che da allora in poi dovrà essere la «verità», il che significa che si è trovata una connotazione vinco­lante e uniformemente valida delle cose e che la norma linguistica istituisce anche le prime regole della verità; sicché si chiarisce qui per la prima volta il contrasto di verità e menzogna: il mentitore si serve delle connotazioni valide, le parole, per far apparire l'irreale come reale; egli dice per esempio d'essere ricco, mentre in questo caso la connotazione appropriata sarebbe «povero». Stravolge le convenzioni basilari attraverso scambi arbitrari o addirittura inversione dei nomi. Se fa questo a proprio vantaggio e anzi in modo da recare dannò, la società non avrà più fiducia in lui e senz'altro lo bandirà da sé. Gli uomini qui fuggono non tanto il fatto di essere truffati, quanto il fatto di essere danneggiati attraverso la truffa. In fondo non è l'inganno che in questo caso essi detestano, bensì le brutte e nocive conse­guenze di certi generi di inganni. Soltanto in un senso ristretto come questo l'uomo vuole anche la verità. Egli desidera gli effetti piacevoli, e atti a con­servare la vita, della verità; verso la conoscenza pura, priva di conseguen­ze, egli è indifferente, ed ha addirittura un atteggiamento ostile verso le ve­rità che possono essere dannose e distruttrici. Inoltre: che ne è delle con­venzioni linguistiche? Sono forse strumenti della conoscenza, del senso della verità, nel senso che le connotazioni e le cose coincidono? Il linguag­gio è allora l'espressione adeguata di tutte le realtà?

Soltanto uno smemorato può giungere a credere questo: che l'uomo è capace di una verità nel grado sopra descritto. S'egli non s'accontenta del­la verità in forma di tautologia e cioè di gusci vuoti, finirà sempre per prendere le illusioni per delle verità. Che cos'è una parola? Il riflesso sono­ro di uno stimolo nervoso. Ma dedurre dallo stimolo nervoso l'esistenza

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d'una causa fuori di noi, è già il risultato d'una falsa e indebita applicazio­ne del principio di causalità. Posto che nella genesi del linguaggio decisiva sia stata soltanto la verità, così come il punto di vista della certezza nelle connotazioni, come possiamo noi ancora dire: «La pietra è dura», come se per noi la «durezza» fosse altrimenti nota e non soltanto uno stimolo del tutto soggettivo? Noi suddividiamo le cose in generi, designiamo l'albero come maschile, la pianta come femminile: che trasposizioni arbitrarie! E quanto al di là del canone della certezza! Noi parliamo di un serpente: la connotazione non tocca che il muoversi torcendosi e quindi potrebbe anche adattarsi al verme. Quali abbreviazioni arbitrarie, e che preferenze unilate­rali per questa o per quella proprietà di una cosa! Le diverse lingue poste l'una accanto all'altra dimostrano che nelle parole non è mai la verità che importa o l'adeguatezza dell'espressione: diversamente, infatti, non ci sa­rebbero così tante lingue. La «cosa in sé» (il che appunto sarebbe la pura verità senza scopo) risulta del resto del tutto inconcepibile all'inventore di un linguaggio e assolutamente non degna d'essere perseguita. Costui con­nota soltanto le relazioni delle cose con gli uomini, per l'espressione delle quali egli si serve delle più ardite metafore. Uno stimolo nervoso tradotto anzitutto in immagine! prima metafora. L'immagine nuovamente ripla­smata in un suono! seconda metafora. E ogni volta un completo salto di orizzonte, dentro uno nuovo e del tutto diverso. Si può pensare a un uomo completamente sordo e che non abbia mai avuto percezione alcuna del suono e della musica: come costui osserva meravigliato sulla sabbia cose come le figure sonore di Chladni poi scopre che la loro causa è nel vibrare della corda e infine è pronto a giurare ormai di sapere cos'è ciò che gli uo­mini chiamano suono, così di tutti noi per quel che riguarda il linguaggio. Noi crediamo di sapere qualcosa delle cose stesse, quando parliamo di al­beri, colori, neve e fiori e tuttavia non disponiamo che di metafore delle cose, che non esprimono in nessun modo le essenze originarie. Allo stesso modo in cui il suono prende l'aspetto di figura tracciata sulla sabbia, così l'enigmatica X della cosa in sé prende l'aspetto di uno stimolo nervoso, poi di un'immagine, infine di un suono. Dunque non c'è niente di logico nel­l'origine del linguaggio e tutto il materiale su cui e con cui più tardi l'uomo della verità, il ricercatore, il filosofo lavora e costruisce, vien fuori, se non proprio dal paese delle nuvole, certo in nessun caso dall'essenza delle cose. Riflettiamo in particolare sulla formazione dei concetti: ogni parola divie­ne senz'altro concetto, dal momento che essa non deve servire come ricor­do per una esperienza originaria del tutto singolare e individualizzata, cui deve il suo sorgere, ma piuttosto deve adattarsi a innumerevoli casi più o meno simili e cioè, in senso stretto, mai identici, quindi a casi puramente diseguali. Ciascun concetto sorge dall'eguagliare il non eguale. Certamente mai una foglia è del tutto eguale a un'altra, e certamente il concetto di fo­glia è formato attraverso il lasciar cadere queste differenze individuali os­sia attraverso la dimenticanza di ciò che distingue, sicché spunta l'idea che nella natura al di là delle foglie ci sia qualcosa come la «foglia», una sorta di forma originaria, sulla base della quale tutte le foglie sarebbero plasma­te, disegnate, sfumate, colorate, graffite, dipinte, ma da mani inesperte, tanto che nessun esemplare possa riuscire corretto e sicuro come riflesso fedele della forma originaria. Noi chiamiamo un uomo «onesto»; perché costui oggi si è comportato così onestamente? Poniamo la questione. La nostra risposta tende a essere: a causa della sua onestà. L'onestà! è come dire di nuovo: la foglia è la causa delle foglie. Noi non sappiamo nulla di una tale qualità essenziale, che si chiama onestà, ma certo conosciamo in-

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numerevoli azioni individuali e perciò disuguali, che noi attraverso la sop­pressione delle disuguaglianze paragoniamo e allora definiamo come azio­ni oneste; infine a partire da queste noi formuliamo.una qualitas occulta cui diamo nome: onestà.

La dimenticanza di ciò che è reale e individuale ci dà il concetto così co­me anche la forma, là dove invece la natura non conosce né forme né con­cetti, e neppure generi, bensì soltanto una X per noi inattingibile. Del resto anche la nostra contrapposizione di individuo e genere è antropomorfica e non scaturisce dalla natura della cosa, anche se noi non ci arrischiamo a di­re che non la esprime: questa infatti sarebbe un'affermazione dogmatica e in quanto tale non dimostrabile, come quella che le si oppone.

Che cos'è dunque la verità? Un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lun­ga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le ve­rità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che il­lusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in consi­derazione soltanto come metallo, non più come monete. Noi continuiamo a non sapere da dove scaturisca l'impulso alla verità: giacché noi finora ab­biamo preso atto del dovere, che la società impone per esistere, di essere sinceri, e cioè di usare le metafore secondo le consuetudini; il che significa, da un punto di vista morale: noi abbiamo preso atto del dovere di mentire secondo una salda convenzione, di mentire cioè tutti insieme in uno stile vincolante per tutti. Ora, certamente l'uomo si dimentica che le cose stan­no così; dunque egli mente nel modo indicato, incoscientemente e per con­suetudini secolari — e proprio attraverso questa incoscienza, proprio attra­verso questo dimenticare egli perviene al sentimento della verità. Insieme con il sentimento d'essere obbligato a designare una cosa come rossa, una seconda come fredda e una terza come muta, sorge in lui un impulso che ha per scopo la verità: per contrasto con il mentitore, cui nessuno crede e che tutti escludono, l'uomo si convince della dignità, della fidatezza e del­l'utilità della verità. Egli pone ora il suo agire, in quanto essere razionale, sotto il dominio delle astrazioni: non sopporta più di lasciarsi trascinare dalle impressioni in concetti tiepidi e incolori, per legare ad essi il carro del­la sua vita e del suo agire. Tutto ciò che separa l'uomo dall'animale dipen­de da questa capacità di piegare ad uno schema le metafore intuitive, quin­di di risolvere un'immagine in un concetto; infatti nell'ambito di tale sche­matismo è possibile ciò che non lo sarebbe mai con le prime impressioni in­tuitive: costruire un ordinamento piramidale secondo caste e gradi, creare un nuovo mondo di leggi, privilegi, sottodivisioni, limitazioni che stia di fronte all'altro mondo delle prime impressioni come ciò che è più solido, più generale, più conoscibile e dunque come ciò che è più perentorio e im­perativo. Mentre ciascuna metafora intuitiva è individuale e senza niente di eguale a sé tanto da saper sottrarsi a qualsiasi catalogazione, la grande co­struzione dei concetti attesta la rigida regolarità di un columbarium roma­no e ispira alla logica quel rigore e quella freddezza che sono propri della matematica. Chi si ispiri a questo rigore, potrà credere a malapena che an­che il concetto, fatto d'osso come un dado a otto facce e rovesciabile come questo, tuttavia non persiste che come il residuo di una metafora, e che l'il­lusione della artistica trasposizione di uno stimolo nervoso in immagine, se non è la madre certo è la progenitrice del concetto. Però all'interno di que­sto gioco di dadi dei concetti è «verità» l'uso di qualsiasi dado conforme-

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mente alle prescrizioni: contare con precisione i punti segnati, tenere cata­loghi esatti e non sovvertire mai l'ordine gerarchico e la successione delle classi. Come i romani e gli etruschi spartivano il cielo per mezzo di rigide linee matematiche e in ciascuno spazio così delimitato confinavano un dio, così ciascun popolo ha sopra di sé un tale cielo concettuale spartito mate­maticamente e capisce che se si vuol giungere alla verità ciascun dio concet­tuale debba essere ricercato soltanto nella sua sfera. Qui si può di certo ammirare l'uomo come un potente genio della costruzione, capace di erge­re su fondamenta mobili e per così dire sull'acqua corrente un arco concet­tuale infinitamente complicato; e di certo per trovare stabilità su tali basi bisogna che la costruzione sia fatta di ragnatele, così leggera da lasciarsi trasportare dalle onde e così salda da non essere soffiata via dal vento. In questo modo l'uomo, come genio costruttivo, s'innalza al di sopra delle api: queste costruiscono sulla cera, ch'esse raccolgono dalla natura, egli in­vece sulla più sottile materia dei concetti, che deve fabbricarsi da sé. Egli è da ammirare — ma non a causa del suo impulso verso la verità, verso la conoscenza pura delle cose. Se qualcuno nasconde un oggetto dietro un ce­spuglio, e poi torna lì a cercarlo e lo trova, non è che per lui ci sia molta gloria in questo cercare e trovare: ma proprio così stanno le cose quanto al­la ricerca e alla scoperta della «verità» entro l'ambito della ragione. Se io produco la definizione di un mammifero e poi dichiaro, alla vista di un cammello: guarda, un mammifero! certo con questo una verità viene por­tata alla luce, ma essa è di valore limitato, mi pare; in tutto e per tutto essa è antropomorfica e non contiene un solo singolo punto che sia «vero in sé», reale e universalmente valido, al di là della prospettiva dell'uomo. Il ricercatore di simili verità in fondo non cerca che la metamorfosi del mon­do nell'uomo; egli si affatica per comprendere il mondo come cosa umana e nel migliore dei casi consegue con la sua lotta il sentimento di un'assimi­lazione. Allo stesso modo in cui l'astrologo considera le stelle al servizio dell'uomo e le tratta in connessione con la sua felicità e il suo dolore, così un tal ricercatore tratta tutto il mondo come asservito all'uomo, come l'e­co infinitamente ripetuta di un suono originario, come il riflesso moltipli­cato di un'immagine originaria, ossia dell'uomo. Il suo procedimento è questo: considerare l'uomo come misura di tutte le cose, dove però si inco­mincia con un errore, che consiste nel ritenere che all'uomo queste cose siano date immediatamente, come puri oggetti. Egli dimentica dunque le metafore intuitive che stanno alla base in quanto metafore, e le prende per le cose stesse.

Soltanto attraverso la dimenticanza di quel primitivo mondo di metafo­re, soltanto attraverso l'indurimento e l'irrigidimento di una originaria massa di immagini sgorgante con flusso impetuoso da quella facoltà origi­naria che è la fantasia umana, solo attraverso la fede invincibile che questo sole, questa finestra, questo tavolo siano delle verità in sé, in breve solo se l'uomo si dimentica di sé come soggetto e anzi come soggetto che crea arti­sticamente, egli può vivere con tranquillità, con sicurezza e con coerenza; se gli fosse possibile uscire solo per un attimo dalle pareti di questa fede che lo tiene prigioniero, immediatamente della sua «autocoscienza» non ne sarebbe più nulla. Già gli costa molta fatica ammettere che l'insetto o l'uc­cello percepiscono un mondo del tutto diverso rispetto a quello dell'uomo, e che chiedersi quale sia la più giusta delle due percezioni è assolutamente privo di senso, poiché qui si dovrebbe misurare in base al paradigma della giusta percezione e cioè in base a un paradigma che non esiste. Ma in gene­rale a me sembra che la giusta percezione — il che significherebbe l'espres-

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sione adeguata di un oggetto nel soggetto — sia un'assurdità contradditto­ria: infatti tra due sfere assolutamente separate come tra soggetto e oggetto non c'è nessuna causalità, ma semmai una relazione estetica, ossia, secon­do me, una trasposizione allusiva, una traduzione che tenta di fare il verso in un linguaggio del tutto estraneo. Ma a tale fine ci vorrebbe comunque una sfera intermedia e una forza intermedia in cui liberamente poetare e inventare. La parola apparenza contiene molte seduzioni, perciò io la evito il più possibile: infatti non è vero che l'essenza delle cose si manifesti nel mondo empirico. Un pittore, cui mancassero le mani e che volesse esprime­re con il canto l'immagine che gli si agita di fronte, svelerà sempre qualco­sa in più con questo scambio di ambiti di quanto il mondo empirico non sveli dell'essenza delle cose. Perfino il rapporto tra uno stimolo nervoso e l'immagine che ne è ricavata non è necessario; quando però la stessa imma­gine è ricavata milioni di volte e trasmessa per molte generazioni, finendo con l'apparire sempre a tutti gli uomini come lo stesso esito d'uno stesso principio, allora finisce per acquistare per tutti lo stesso significato, quasi che fosse l'unica immagine necessaria e quasi che quel rapporto tra l'origi­nario stimolo nervoso e l'immagine indotta sia uno stretto rapporto di cau­salità; così come un sogno, che si ripetesse eternamente, sarebbe senz'altro sentito e giudicato come realtà. Ma l'indurimento e l'irrigidimento di una metafora non accreditano per niente la necessarietà e l'inconfutabile giu­stezza di questa metafora.

Chiunque abbia familiarità con riflessioni del genere, ha provato una profonda diffidenza: contro una simile forma di idealismo, ogni volta che si è perfettamente convinto dell'eterna coerenza, della generale validità e dell'infallibilità delle leggi di natura; sicché ne ha tratto questa conclusio­ne: qui tutto, per quanto noi penetriamo nelle altezze del mondo telescopi­co e nelle profondità di quello microscopico, è sicuro, architettato, infini­to, fatto con misura e senza lacune; la scienza avrà eternamente da scavare in questi pozzi con successo e tutto ciò che si troverà sarà messo in connes­sione senza che si contraddica. Come tutto ciò somiglia poco ai prodotti della fantasia: se infatti si trattasse di questo, da qualche parte l'apparenza e l'irrealtà dovrebbero venir fuori. Invece bisogna proprio dire: se ciascuno di noi avesse, per sé, una diversa percezione, se noi potessimo percepire ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante, oppure sulla base dello stesso stimolo nervoso uno di noi vedesse rosso e l'altro blu, e a un terzo la stessa cosa apparisse un suono, allora nessuno parlerebbe a proposito della natura di conformità alla legge, ma la si concepirebbe piuttosto, questa conformità, come una creazione del tutto soggettiva. Inoltre: cos'è per noi in generale una legge di natura? In sé non ci è nota, bensì soltanto nella sua relazione con altre leggi di natura, le quali a loro volta ci sono note soltan­to come relazioni. Tutte queste relazioni dunque non fanno che rimandare le une alle altre, mentre le loro essenze in tutto e per tutto risultano a noi incomprensibili; soltanto ciò che noi vi aggiungiamo, il tempo, lo spazio, dunque i rapporti di successione e i numeri, ci sono realmente noti. Tutto ciò che di prodigioso noi ammiriamo nelle leggi di natura ed esige da noi spiegazione e potrebbe portarci a diffidare dell'idealismo, sta proprio tutto e soltanto nel rigore matematico e nell'insuperabilità delle rappresentazio­ni spaziali e temporali. Queste siamo noi a produrle in noi stessi e da noi stessi con quella necessità con cui il ragno tesse la tela; se noi siamo costret­ti a concepire tutte le cose soltanto sotto queste forme, allora non c'è da meravigliarsi che noi in tutte le cose propriamente percepiamo soltanto queste forme: tutte infatti devono portare in sé le leggi del numero e il nu-

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mero è proprio la cosa più prodigiosa nelle cose. Tutta la conformità alle leggi, che ci fa impressione sia nel corso degli astri sia nel processo chimi­co, in fondo coincide con quelle proprietà che noi introduciamo nelle cose, sicché siamo noi a impressionare noi stessi. Da ciò risulta allora che quel­l'artistica formazione di metafore, con la quale in noi comincia qualsiasi forma di sensazione presuppone già quelle forme e dunque è in esse che si realizza. Soltanto in virtù della salda persistenza delle forme originarie si spiega la possibilità che l'edificio concettuale debba poi a sua volta costi­tuirsi in base alle metafore stesse. Si tratta infatti di un'imitazione dei rap­porti spaziali, temporali e numerici nel campo delle metafore.

2.

Alla elaborazione dei concetti lavora originariamente, come abbiamo vi­sto, il linguaggio, e in tempi successivi la scienza. Allo stesso modo in cui l'ape allestisce le sue celle e nello stesso tempo le riempie di miele, così la scienza lavora instancabilmente a quel grande columbarium dei concetti che è il cimitero delle intuizioni, e vi costruisce sempre nuovi e più alti pia­ni, e puntella, ripulisce, rinnova le antiche celle e anzitutto s'adopera per riempire quello smisurato edificio a compartimenti e collocarvi in ordine l'intero mondo empirico, ossia il mondo antropomorfico. Se già l'uomo d'azione vincola la sua vita alla ragione e ai suoi concetti, per non essere spazzato via e per non perdersi, a sua volta il ricercatore costruisce la sua capanna proprio sotto la torre della scienza, per aiutarne lo sviluppo e per trovare un riparo sotto il bastione che già c'è. E di riparo ha bisogno: giac­ché ci sono potenze terribili che continuamente gli si fanno incontro e con­trappongono alla verità scientifica delle «verità» di tutt'altro genere e dalle insegne più varie.

Quell'impulso verso la formazione di metafore, quell'impulso fonda­mentale dell'uomo di cui neppure per un attimo non si può non tenere con­to, perché allora non si terrebbe conto dell'uomo, è in realtà non represso e anzi a malapena controllato, dal momento che con i suoi prodotti evane­scenti, ossia i concetti, viene edificato un nuovo mondo, regolare e saldo come un baluardo. Esso cerca per sé un nuovo ambito d'azione, un nuovo alveo, e lo trova nel mito e in generale nell'arte. Continuamente scompagi­na i cataloghi e gli scomparti dei concetti esibendo nuove trasposizioni, metafore, metonimie; continuamente mostra la bramosia di rifare il mon­do attuale dell'uomo desto in modo variopinto, irregolare, privo di conse­guenze, incoerente, esaltante ed eternamente nuovo come il mondo dei so­gni. Di per sé l'uomo nello stato di veglia è convinto d'essere desto grazie alla rigida e regolare ragnatela dei concetti, ma proprio perciò crede di so­gnare non appena quella ragnatela concettuale viene lacerata dall'arte. Pa­scal ha ragione quando afferma che se sognassimo tutte le notti lo stesso sogno, ne saremmo presi come dalle cose di tutti i giorni: «Se un operaio

• fosse certo di sognare per dodici ore filate tutte le notti di essere un re, io credo — dice Pascal — che sarebbe altrettanto felice di un re il quale so­gnasse tutte le notti dodici ore di essere un operaio». Il giorno di un popolo che viva nell'emozione mitica, come per esempio i Greci più antichi, in vir­tù del prodigio continuamente operante proprio del mito, è in realtà più si­mile al sogno che alla veglia del pensatore scientificamente disincantato. Quando ogni albero può parlare come se in lui ci fosse una ninfa, quando sotto le spoglie di un toro un dio carpisce vergini, quando la stessa dea Atena improvvisamente è vista attraversare le piazze di Atene su di un bel

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cocchio in compagnia di Pisistrato — e gli onesti ateniesi ci credono — al­lora in ogni momento, come in sogno, tutto è possibile, e l'intera natura circonda l'uomo come se essa non fosse che una mascherata di dèi che scherzosamente si sono messi a ingannare gli uomini in tutte le forme.

L'uomo stesso però ha una invincibile inclinazione a lasciarsi ingannare ed è come rapito dalla felicità quando il rapsodo gli racconta per vere delle leggende epiche o quando l'attore a teatro fa la parte del re più regalmente che nella realtà. L'intelletto, quel maestro di simulazione, è libero e solle­vato da quello che invece è il suo ufficio di schiavo, finché può ingannare senza far danno, e così celebra i suoi Saturnali; mai esso è più eccitato, più ricco, più orgoglioso, più agile, più audace. Con piacere temerario esso scompiglia le metafore e smuove le pietre miliari dell'astrazione, e così per esempio designa il fiume come quella via semovente che porta l'uomo là dove altrimenti egli dovrebbe recarsi a piedi. Ora poi esso si è liberato dei segni di servitù; dopo essersi premurato con triste operosità di mostrare la via e gli strumenti a un povero essere desideroso di vivere, dopo essersi da­to a ruberie e a grassazioni come un servo a favore del padrone, ora è di­ventato lui padrone e può togliersi dal volto l'espressione del bisogno. Ri­spetto a ciò che faceva allora, ciò che fa ora porta il segno della simulazio­ne, così come ciò che faceva allora portava il segno della deformazione. Egli copia la vita umana, ma la prende per una cosa seria e dà mostra di trovarcisi a suo agio. Quella smisurata struttura concettuale appigliandosi alla quale quel miserabile che è l'uomo si salva durante la sua vita, è per l'intelletto liberato nient'altro che un sostegno o un giocattolo per le sue te­merarie attività artistiche: e quando esso distrugge queste cose, le scompa­gina e poi con ironia le rimette insieme, accoppiando le cose più estranee e separando le cose più affini, allora è chiaro ch'esso non ha più bisogno di quei sotterfugi della miseria e non è più guidato da concetti bensì da intui­zioni. Non c'è una strada regolare che da queste intuizioni conduca nella terra degli schemi spettrali, delle astrazioni: la parola non è fatta per que­ste cose, tant'è che l'uomo di fronte ad esse ammutolisce e si mette a parla­re con metafore che sono semplicemente proibite o con concetti inverosi­mili, per corrispondere creativamente all'impressione della forte intuizione con cui ha a che fare almeno attraverso la distruzione e l'irrisione delle vec­chie costruzioni concettuali.

Ci sono epoche nelle quali l'uomo razionale e l'uomo intuitivo stanno l'uno accanto all'altro, il primo col terrore dell'intuizione, il secondo con lo scherno per l'astrazione: tanto restio alla ragione quest'ultimo, quanto all'arte il primo. Entrambi vogliono dominare la vita: l'uno, in quanto sa affrontare le principali necessità con accortezza, intelligenza e coerenza, l'altro in quanto è una sorta di «eroe traboccante di gioia» che non vede quelle necessità e considera reale solo la vita che la simulazione trasforma in apparenza e in bellezza. Quando l'uomo intuitivo, come per esempio nella Grecia più antica, adopera le sue armi in maniera più vigorosa e vin­cente del suo antagonista, in caso favorevole può prender forma una civil­tà e può istituirsi il dominio dell'arte sulla vita; quella simulazione, quel ri­pudio della miseria, quella magnificenza delle intuizioni metaforiche e in generale quell'immediatezza dell'inganno accompagnano tutti gli eventi di una tale vita. Né la casa, né il passo, né la veste, né il vaso d'argilla attesta­no d'essere stati inventati dal bisogno; ma piuttosto è come se in essi do­vesse esprimersi una sublime felicità e una serenità olimpica e in un certo senso un giocare con ciò che è serio. Mentre l'uomo guidato da concetti e da astrazioni grazie a questi respinge solo l'infelicità senza però procurarsi

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la felicità dalle sue astrazioni, mentre egli mira il più possibile alla libera­zione dal dolore, l'uomo intuitivo a sua volta stando nel cuore di una civil­tà, dalle sue intuizioni ottiene non solo una protezione dal male, ma anche, in flusso continuo, rischiaramento, serenità, redenzione. Certo egli soffre più intensamente, quando soffre; anzi, egli soffre più di frequente, perché non accetta di imparare dall'esperienza e sempre di nuovo cade nel medesi­mo tranello. Nel dolore egli è tanto irragionevole quanto nella felicità, giacché grida ad alta voce e non si dà pace. Quanto diversamente si com­porta lo stoico, in una disgrazia analoga, ammaestrato com'è dall'espe­rienza, lui, che si domina grazie al concetto! Egli, che in altre occasioni cerca unicamente la rettitudine, la verità, la liberazione dagli inganni e la difesa dalle seducenti sorprese, esibisce ora, nell'infelicità, il capolavoro della simulazione allo stesso modo in cui il suo antagonista l'aveva esibito nella felicità; non mostra un volto che si contrae e si scompone, ma per co­sì dire una maschera con tratti di dignitoso equilibrio, e non grida né altera la sua voce. E se un temporale si abbatte su di lui, si avvolge nel suo man­tello e lentamente s'incammina sotto di esso.