iris.unipa.it · Web viewLe parole che Sallustio fa pronunciare a Cesare ritraggono il futuro...

428
1

Transcript of iris.unipa.it · Web viewLe parole che Sallustio fa pronunciare a Cesare ritraggono il futuro...

In copertina: A. Mategna, Trionfo di Cesare- Giulio Cesare sul carro trionfale 1485-1505, Londra, Hampton Court, Royal Collection

PREMESSA

Ma non ci si libera di Cesare così facilmente. Dopo duemila anni il senso della sua esperienza umana e politica fa ancora discutere e, soprattutto ci turba.

G. Zecchini

Fin dai tempi della Querelle des anciens et des modernes che agitò l’ambiente letterario francese della fine del XVII secolo è sempre stata viva la discussione sul debito che la cultura moderna mostra di avere nei confronti di quella classica, debito che è stato persino avvertito da parte di alcuni come peso ingombrante e freno per la creazione di temi innovativi e originali.

In effetti la presenza della cultura classica permea in modo capillare tutti gli ambiti di quella moderna ma raramente il riuso di temi o di autori antichi avviene in modo sterile o improduttivo; piuttosto l’attingere da parte degli autori moderni a temi e figure classici si è spesso rivelato molto fruttuoso se non addirittura sorprendente.

La presente ricerca si muove all’interno dell’ambito della fortuna dell’antico, ambito che, soprattutto in tempi recenti, ha ricevuto grande impulso. È infatti dall’ultimo ventennio dello scorso secolo che il sintagma tradizione classica ha iniziato ad indicare non più solamente lo studio della tramissione dei testi, ma di tutti quei meccanismi, quelle funzioni e quei modi della trasmissione di testi ed immagini dall’antichità ai giorni nostri. A partire dallo studio di E. J. Hobsbawm si è sostituito ad un concetto di tradizione statico, uno dinamico. In tal senso la tradizione diventerebbe un processo di trasmissione nel quale è possibile «l’alterazione, l’ interpretazione e la reinvenzione, il fraintendimento (volontario o involontario), fino al tradimento dei contenuti e delle forme».

Tuttavia non tutti i temi, i miti e i personaggi del mondo antico hanno goduto di un’uguale trasmissione dal medioevo ai giorni nostri; sono i processi storici che condizionano lo sviluppo e la continua ripresa di alcuni temi e figure, piuttosto che altri. I. Toppani ha elaborato a tal proposito il concetto di “modello dinamico” inteso come quel tema dell’antichità che possiede pregnanza, il cui significato raggiunge un grande valore e che è capace di sopravvivere e di influire in un contesto non più suo.

Nella nostra tradizione culturale troviamo alcune figure della cultura classica, appartenenti al mondo della mitologia o a quello della storia, che si sono affermate in modo produttivo nella letteratura e nell’arte, diventando “modelli dinamici” e ispiratori ed entrando, così, a far parte dell’immaginario collettivo di un pubblico vasto. Ulisse, Achille, Medea, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Bruto, Cleopatra hanno assunto nel corso degli anni, a partire da un continuo riutilizzo ad opera di alcuni autori, un valore emblematico: protagonisti scelti di opere letterarie, teatrali e figurative, la loro fama è tale al punto che i loro nomi sono divenuti suggestivi a prescindere dal contesto in cui vengono inseriti e dalla storia che hanno alle spalle.

In particolare, la vita e la personalità di Giulio Cesare sono da sempre stati di grande interesse per storici, biografi e letterati di tutti i tempi. La sua personalità rimane un enigma, interpretata da sempre in modo differente: nell’antichità Cesare fu lodato o condannato in quanto responsabile del passaggio dalla Repubblica al principato; nel Medioevo diventò un personaggio leggendario dai contorni sbiaditi e favolosi; nel Rinascimento, dopo che alla sua persona fu restituita una certa consistenza storica, si guardò a lui alla luce delle nuove teorie politiche e dei nuovi studi sui documenti antichi. Egli ha esercitato un fascino straordinario e pressoché ininterrotto dalla sua morte ad oggi e le sue imprese, ingigantite e rese immortali da una morte violenta ed improvvisa, sono state ri scritte e reinventate nel corso dei secoli: la sua figura, al contempo storica e mitica, è così ricca da non poter essere irrigidita entro schemi fissi. Esso assurgerà, a seconda delle epoche storiche, a paradigma del monarca buono e illuminato, dell’intrepido conquistatore e del tiranno efferato meritevole di morte.

Col fiorire degli studi sulla fortuna dell’antico in generale, il filone di ricerca che ruota intorno all’interpretazione e alla ricezione del personaggio di Giulio Cesare è stato molto produttivo negli ultimi anni, fornendo nuove prospettive e chiavi di lettura sul personaggio.

Nel corso delle diverse epoche storiche la figura di Cesare è stata ripresa dai singoli autori sia per esaltarla sia per sottolinearne i tratti negativi, trasformandosi così una sorta di ‘contenitore’ riempito, a seconda dei casi, di connotati ideologici, agiografici o denigratori. La nostra ricerca si propone di chiarire ‘quale Cesare’ sia stato ereditato dagli autori antichi per poi essere nuovamente trasformato nel medioevo e approdare sui palchi del teatro del XVI secolo.

È chiaro che il nostro lavoro non ha l’intenzione né la presunzione di voler esaurire lo studio della figura di Cesare in tutte le sue poliedriche sfaccettature, né della ricezione del suo operato politico e militare nella letteratura, impresa troppo vasta e generalizzante anche soltanto per quello che riguarda il mondo antico. Quello che si è tentato di fare è stato chiarire quale sia il processo di genesi testuale attraverso il quale il personaggio di Giulio Cesare viene riutilizzato e ricodificato diventando materiale produttivo per un genere letterario, il teatro, che più di qualunque altro garantisce alla sua materia una massima diffusione; ciò al fine di comprendere, da un lato, in che modo le fonti antiche abbiano agito sulla costruzione del Fortleben di uno dei più affascinanti personaggi dell’antichità, dall’altro, in che modo e attraverso quali meccanismi questo personaggio fu riutilizzato in modo fruttuoso durante l’arco temporale oggetto della presente indagine.

In una ricerca che intenda muoversi in un ambito tanto vasto quale il Nachleben di Giulio Cesare, è fondamentale chiarire i criteri di selezione del materiale, il metodo usato per l’analisi dei testi selezionati e il modo in cui si è scelto di articolare i contenuti.

Il terreno diventa assai più sdrucciolevole laddove ci si addentri nelle maglie assai fitte e intricate del reperimento delle fonti dei testi di età moderna: non è per nulla facile distinguere quelle che sono le fonti di prima mano da quello che non deriva direttamente da una fonte antica, ma è una acquisizione culturale della quale si sono perse le fonti. L’Europa tutta nella sua parte intellettuale è ormai divenuta una grande famiglia, i cui membri distinti hanno un patrimonio comune di ragionamento e fanno tra loro un commercio d’idee di cui nessuno ha la proprietà ma tutti l’uso.

Per favorire una maggiore praticità nella consultazione e per continuità di contenuto si è scelto di articolare la tesi in due sezioni entrambe precedute da una introduzione e suddivise in piccoli capitoli: nella prima vengono analizzate le rappresentazioni etico-culturali che nell’antichità sono state convogliate in quella sorta di ‘contenitore’ rappresentato dalla figura di Cesare, e finalizzate a produrre una raffigurazione ideale del personaggio; la seconda parte è, invece, dedicata all’analisi delle prime esperienze teatrali che portano sulla scena Cesare come protagonista.

PARTE PRIMA

INTRODUZIONE

Illa, inquam, illa vita est tua, quae vigebit memoria saeculorum omnium, quam posteritas alet, quam ipsa aeternitas sempre tuebitur. […]Obstupescent posteri certe imperia, provincias, Rhenum, Oceanum, Nilum, pugnas innumerabiles, incredibiles victorias, monumenta, munera, triumphos audientes et legentes tuos.[…]Erit inter eos etiam, qui nasceretur, sicut inter nos fuit, magna dissensio, cum alii fortasse aliquid requirentur.

(Cic. Marc.28-29 passim)

In questa prima parte vengono analizzate tutte quelle rappresentazioni etico-culturali che nell’antichità sono state convogliate in quel ‘contenitore’ che è stato e continua ad essere la figura di Cesare.

È per questo, infatti, che nell’analisi delle fonti antiche qui condotta vengono presi in considerazione soltanto quei testi in cui emerge con maggiore evidenza una interpretazione del personaggio; si è quindi scelto di eliminare il resoconto che Cesare stesso ha lasciato di sé nei suoi Commentarii.

Già gli autori a lui contemporanei o di poco posteriori erano divisi su linee interpretative talvolta anche del tutto divergenti. Così, fin da subito, la ricezione ed interpretazione del suo operato politico risultò problematica e talvolta contraddittoria; alcuni autori (per esempio Sallustio) scelsero di esaltare i tratti più positivi del suo carattere, la clementia e l’humanitas, considerate ancor più straordinarie in chi, nel giro di poco tempo, aveva ottenuto numerosissime e gloriose conquiste; altri, invece, ritennero che queste doti, osannate e fruttuosamente usate dalla sua pubblicistica andassero in ogni caso subordinate al suo status di efferato tiranno, guidato in ogni sua azione dalla brama di potere (è il caso di Lucano); altri ancora, dopo aver cercato per tutta la sua vita di ricondurlo entro il solco del modello di princeps clemens, e dopo esser rimasti a lungo incerti se fosse in lui prevalente la clementia ‹‹dote divina›› o il fare tirannico nemico della libertas e della res publica, solo dopo la sua morte osarono affermare che il vero ed unico interesse del dittatore era stato il regnum (si tratta di Cicerone).

Di fondamentale importanza è la testimonianza di Cicerone, la cui produzione, dal momento in cui Cesare sale al potere, si rivela intrisa di riflessioni sulla sua politica, nonostante risenta spesso degli umori dell’autore e delle circostanze particolari in cui furono scritte le singole opere. Molto problematica mi sembra, dunque, l’interpretazione che ci forniscono di Cesare i testi ciceroniani.

Ma la figura di Cesare è stata ridisegnata nel tempo, a partire dalla prima mediazione che ne fece il suo successore; la memoria di Cesare, ma soprattutto la manipolazione di questa memoria, furono indispensabili per tutta l’epoca triumvirale al giovane Ottaviano, e poi ad Augusto: l’uomo era morto, ma la sua immagine giocava ancora un ruolo molto importante all’interno di Roma. La riscrittura di Cesare fatta in età augustea nel corso degli anni, influenzò ‹‹non soltanto la storiografia contemporanea ma tutta la seguente determinazione di una linea vincente che assumeva a torto o a ragione Cesare come punto di partenza››.

La storia della vita e delle guerre di Cesare è stata narrata dalla maggior parte degli storici antichi a lui contemporanei o successivi, sia in forma monografica sia all’interno di narrazioni storiografiche di più ampio respiro. Gli storici antichi che scrissero di Cesare, nel raccontarne le gloriose imprese e la tragica fine, colsero e amplificarono di volta in volta alcuni tratti particolari del suo carattere e del suo operato. È molto interessante vedere come, a una o più generazioni di distanza, storici e biografi ci abbiano trasmesso un Cesare diverso a seconda che la loro fonte fosse filocesariana o avversa, e in base allo scopo che aveva la loro narrazione.

Il “nostro” Cesare è principalmente un prodotto della storiografia dei due maggiori biografi dell’antichità, Plutarco e Svetonio, che operarono nel secondo secolo d. C. ma, queste biografie, come tutti i prodotti letterari risentono del periodo in cui sono state scritte; così il Cesare che emerge si confà molto bene all’era di Traiano in cui per l’imperatore era conveniente recuperare la memoria del dittatore che era stata manipolata, se non oscurata, durante il periodo augusteo e dalla dinastia giulio-claudia.

È facilmente comprensibile che l’immagine di Cesare che viene fuori da queste biografie è sostanzialmente quella di un condottiero dinamico e di un grande statista fatto fuori all’apice della sua ascesa politica proprio dal tradimento di quelli che erano più vicini a lui.

L’immagine di Cesare più diffusa in epoca moderna risente molto dell’interpretazione che ne diedero gli storici del II secolo, ben diversa dalla rappresentazione che ne aveva dato la generazione immediatamente successiva alla sua morte e della quale ci rimane ben poco.

Sappiamo che Augusto stesso scrisse una autobiografia che comprendeva anche gli eventi che precedettero la sua ascesa al potere e la morte dello zio. Tra l’altro questa autobiografia fu, con molta probabilità, anche una delle fonti della Vita di Augusto che scrisse un suo contemporaneo, Nicolao di Damasco, che ci è conservata per excerpta, e all’interno della quale una parte, che fortunatamente ci è pervenuta, era dedicata agli eventi che avevano portato alla congiura ai danni di Cesare e ad essa successivi. Da essa emerge una immagine di Cesare discordante dal resto delle fonti.

Anche altri autori scrissero sotto Augusto dei resoconti degli anni compresi tra il 44 e il 42 a. C., ma le loro opere andarono completamente perdute ed insieme ad esse anche la loro importanza nella formazione della tradizione storiografica e del giudizio su Cesare; di questi non ci rimangono che i nomi: Caio Oppio, Calpurnio Bibulo, Valerio Messalla Corvino e Volumnio.

Il Cesare degli storici d’età imperiale è per lo più descritto come condottiero valoroso, protetto dalla fortuna. Alcuni ne parlano nei termini molto sfumati di divus ed exemplum, evitando di dare giudizi sull’operato del dittatore (Velleio Patercolo e Valerio Massimo), altri, pur ammirando le doti del valoroso condottiero, non negano che egli si rese odioso ai difensori della libertà repubblicana per la sua eccessiva brama di potere (Appiano e Dione Cassio), altri ancora mettono il valoroso comandante al centro di una biografia (è il caso di Plutarco e Svetonio) dalla quale traspare l’ambivalenza di alcuni suoi comportamenti. Essi infatti ammirano le doti innegabili dell’ uomo e del condottiero di cui esaltano la clemenza, ma ne riconoscono talvolta l’ipocrisia e criticano l’eccessiva brama di dominatio che lo portò alla morte . Ciò che tuttavia è certo è che a partire dalla prima età imperiale la figura di Cesare sarà contornata da un alone di eroismo in tutte le sue rappresentazioni.

Nell’ epos di Lucano, infine, Giulio Cesare diventa figura emblematica dell’efferato tiranno, colui che ha privato i Romani dell’antica libertas repubblicana; questo Cesare è un personaggio composito ricavato dalla commistione del modello storiografico con quello del teatro di Seneca. Lucano si serve del modello dell’eroe negativo della tragedia per creare un nuovo Cesare. Niente rimane della caratterizzazione in positivo del dittatore; non più la riflessività dell’accorto comandante, né la clementia: in lui è solo il furor del tiranno.

CAPITOLO PRIMO

Cesare come modello etico

L’operato di Cesare può essere considerato come ultimo stadio di un lungo processo di sconvolgimento che, attraverso le guerre civili, condusse alla sovversione dell’antico ordine repubblicano. Tuttavia questo iter, chiaro agli occhi dei moderni, stentò ad essere riconosciuto dagli autori a lui contemporanei o di poco successivi i quali, anzi, cercarono di inserire Cesare all’interno del sistema delle virtutes repubblicane. Questa situazione politica portò gli scrittori di orientamento filocesariano, come Sallustio, a trasformare Cesare in un modello etico da seguire incanalando quei lati della sua personalità che si distaccavano dal modello repubblicano, all’interno del sistema delle virtutes. Il Cesare di Sallustio è infatti una ‹‹composizione di valori o lineamenti››; come vedremo, lo storico costruisce nel De coniuratione Catilinae il discorso di Cesare in modo tale da far risaltare il suo atteggiamento legalitario e il suo legame con la tradizione. Così il personaggio che Sallustio dipinge è perfettamente in linea con la tradizione repubblicana, che si appella sempre al mos maiorum.

1. 1. Il Cesare di Sallustio, un esempio di virtus

Convinto cesariano moderato, Sallustio aveva grande stima dell’operato politico del dittatore. Questa profonda ammirazione nei confronti di Cesare traspare in filigrana da quasi tutte le opere dello storico, ma il testo da cui essa emerge con maggiore evidenza è il de coniuratione Catilinae.

Al capitolo LI è proprio Cesare a prendere la parola; Sallustio mette in bocca al futuro dittatore un discorso in cui questi, pur condannando l’operato dei catilinari, appellandosi al mos maiorum, cerca di ridurne la pena. Il giovane Cesare, nell’oratio che Sallustio gli fa pronunciare, si fa bandiera di quegli elementi che la sua pubblicistica metteva maggiormente in evidenza: la misericordia, la mansuetudo e l’ iracundiam cohibere. Il Cesare che ne viene fuori si presenta, così, pieno di quelle stesse doti che anche Cicerone nella Pro Marcello, come vedremo, si sforza di attribuirgli.

Nell’appellarsi ai patres conscripti, egli li ammonisce a che, nel deliberare, si mostrino immuni da tutte le passioni: ab odio, amicitia, ira, atque misericordia vacuos esset decet (LI, 1).

Per conferire maggiore concretezza a quanto detto, Cesare introduce come esempio il celebre episodio in cui, alla fine dalla guerra macedonica, i Romani (maiores nostri) dimostrarono grande clementia nei confronti dei Rodesi: impunitos eos dimisere.

Durante tutto il suo discorso egli si appella costantemente a modelli di clemenza, giustizia ed equilibrio, indicando a chi detiene il potere una strada da perseguire:

Ita in maxima fortuna minima licentia est: neque studere neque odisse, sed minime irasci decet. Quae apud alios iracundia dicitur, ea in imperio superbia atque crudelitas appellatur.

( LI, 13-14)

Obiettivo principale di chi governa, dunque, deve essere quello di contenere tutte le passioni, sia positive sia negative: tra queste, in posizione di rilievo, sottolineata dalla climax ascendente, al § 14 è l’ira: minime irasci decet.

Come appare evidente, tutta la prima parte del discorso di Cesare è incentrata su un postulato: chi, nello svolgimento dell’ufficio di governo, è chiamato a deliberare, non deve assolutamente, al momento della decisione, subire l’influenza dell’ira. La seconda sezione del lungo discorso ruota intorno all’argomento della ricerca della legalità repubblicana. Così la sententia perorata da D. Silano poco prima parrà a Cesare aliena a re pubblica nostra. Egli fa riferimento a leggi che vietavano di mettere a morte i condannati: ecco come colui che dopo la morte diverrà l’incarnazione del potere tirannico si mostra qui attento al rispetto della legalità repubblicana.

Tuttavia l’argomentazione di Cesare non si ferma solamente alla constatazione della poca legalità ed eccessiva crudeltà della pena in discussione; egli prosegue indagando le conseguenze che potrebbero derivare dall’approvazione di una tale proposta, citando degli esempi di come un precedente legittimo possa autorizzare degli abusi. Tra questi esempi negativi non manca quello di Silla che, come avremo modo di evidenziare anche in seguito, è citato spesso come esempio di governo fondato sul timor e di vittoria crudele.

Infine a chiusura della sua oratio Cesare si appella nuovamente e circolarmente al mos maiorum:

maiores nostri, patres conscripti, neque consili neque audaciae umquam eguere. […]Postquam res publica adoleuit et multitudine civium factiones valuere, circumvenire innocentes, alia huiusce modi fieri coepere, tum lex Porcia aliaeque leges paratae sunt, quibus legibus exilium damnatis permissum est. Hanc ego causam, patres conscripti, quo minus novum consilium capiamus, in primis magnam puto.

(LI, 37; 40-41)

In tal senso appare evidente lo sforzo di Sallustio di descrivere Cesare come difensore degli ideali del mos maiorum, inserendolo così all’interno di quelli che erano i valori repubblicani.

Le parole che Sallustio fa pronunciare a Cesare ritraggono il futuro dittatore come uno dei personaggi più in vista del suo tempo che si distingue da tutti gli altri per le molteplici qualità positive, le quali fanno sì che egli venga considerato modello etico per i suoi contemporanei. Tuttavia, dal successivo discorso di Catone ci derivano interessanti suggestioni che possono far luce su cosa pensavano alcuni contemporanei di Cesare, di schieramento opposto, riguardo alla politica basata su quella che passerà alla storia come clementia Caesaris.

Hic mihi quisquam mansuetudinem et miscericordiam nominat? Iampridem equidem nos vera vocabula rerum amisimus: quia bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur, eo res publica in estremo sita est.

(LII, 11)

Mansuetudo et misericordia sono le due qualità che, come afferma lo stesso Sallustio nel § LIII, resero clarus Cesare. Catone sostiene che il reale significato di questi due termini sia andato perduto. Una simile interpretazione ci fornisce Cicerone nel De Officiis, quando tratta dei tipi di beneficia iniusta. Se quello descritto dall’Arpinate è il Cesare degli optimates, tale non è di certo anche quello di Sallustio, e lo storico non si accontenta di lasciare al lettore il compito di decodificare il “suo Cesare”: è egli stesso a fornire una valida chiave interpretativa nella synkrisis tra Cesare e Catone, che colloca poco dopo la conclusione del discorso di quest’ultimo. Sallustio dà un gran rilievo ad entrambi i due personaggi poiché li considera i maggiori del suo tempo:

multis tempestatibus haud sane quisquam Romae virtute magnus fuit. Sed memoria mea ingegni, virtute, divorsis moribus fuere viri duo, M. Cato et Caesar.

(LIII, 6)

Nel paragrafo LIV lo storico fa una interessante descrizione etica del dittatore, la quale verte su due aspetti principali del suo carattere e si può dividere in due sezioni; lo storico mette in risalto da un lato la liberalità e magnanimità di Cesare, dall’altro le doti che gli garantirono i successi militari: la tenacia nel lavoro e la brama di gloria.

[54] Igitur eis genus aetas eloquentia prope aequalia fuere, magnitudo animi par, item gloria, sed alia alii. Caesar beneficiis ac munificentia magnus habebatur, integritate vitae Cato. Ille mansuetudine et misericordia clarus factus, huic seueritas dignitatem addiderat. Caesar dando subleuando ignoscendo, Cato nihil largiendo gloriam adeptus est. In altero miseris perfugium erat, in altero malis pernicies. Illius facilitas, huius constantia laudabatur. Postremo Caesar in animum induxerat laborare, vigilare; negotiis amicorum intentus sua neglegere, nihil denegare quod dono dignum esset; sibi magnum imperium, exercitum, bellum novum exoptabat, ubi virtus enitescere posset.

(LIV, 1-5)

L’elogio indirizzato a Cesare mira a mettere in luce come tutte le sue azioni siano rivolte a vantaggio degli altri e mai vi sia in esse un risvolto egoistico.

Tutte le virtutes enumerate da Sallustio sono legate semanticamente al beneficium, al munus e al donum, termini tutti afferenti alla sfera linguistica dello scambio. Va notato che egli non usa mai, in relazione a Cesare, il termine clementia, seguendo in questo l’uso dello stesso dittatore e della sua pubblicistica. Il termine clementia, infatti, descrive una relazione di tipo verticale e quindi, applicata a Cesare avrebbe potuto ventilare il pericolo di uno stravolgimento dell’ordinamento politico repubblicano. Per questo vengono preferiti termini come amicitia, misericordia, lenitas che alludono a relazioni di tipo orizzontale. In questo modo Cesare a buon diritto può essere collocato in una posizione di continuità culturale rispetto al modello tradizionale.

Da Sallustio viene fugata ogni possibilità che il futuro dittatore potesse avere secondi fini e che questo suo comportamento potesse costituire una tattica politica piuttosto che un vero e proprio modo di essere: lo storico tiene a precisare che il suo incessante impegno nel laborare e vigilare derivava dalla volontà di salvaguardare gli interessi altrui trascurando i propri.

Dunque, tutte le qualità per le quali Cesare viene esaltato rafforzano quell’immagine di uomo clemente e liberale che egli stesso si era creato. Così anche la brama di imperium che in altri autori è a ragione interpretata come unico e vero profondo motore di ogni sua azione, in Sallustio viene mitigata e interpretata come modo attraverso il quale Cesare vuole manifestare la sua virtus.

1. 2. Le Epistulae ad Caesarem, la prospettiva del cesarianesimo moderato

Nonostante la paternità sallustiana sia incerta, le Epistulae ad Caesarem contenute in un manoscritto del IX o X sec. d.C. conservato nella biblioteca Vaticana (Vat. Lat. 3864) e unico testimone, sono di fondamentale importanza per avere un’idea di quella che si può intendere come l’interpretazione positiva che dell’operato politico di Cesare viene data dai suoi contemporanei. Così, se di epistole scritte da Sallustio in gioventù si tratta, esse costituirebbero un’importante testimonianza di quello che fu il pensiero dell’autore prima che si accingesse a scrivere opere storiche; se, invece, sono esercitazioni tarde, esse rappresentano comunque un utile documento di quelli che furono i temi e le idee più diffuse di un cesarianesimo moderato: le esercitazioni, infatti tendono sempre a riprodurre fedelmente sia lo stile sia le idee dell’autore che si sta imitando. In entrambi i casi, dunque, esse si rivelano prezioso strumento per ricostruire l’idea che di Cesare hanno veicolato gli antichi.

Le due lettere si presentano come manifesti politici in cui vengono esposti i punti nodali di un programma di ricostruzione della res publica e di moralizzazione della classe dirigente romana, ormai corrotta.

Nella prima delle Epistole in ordine cronologico (quella cioè che figura come seconda nel manoscritto) l’autore dichiara di aver scelto di rivolgersi a Cesare come colui che avrebbe potuto salvare lo stato, non già perché quello, vincitore delle Gallie , disponeva di truppe e mezzi abbondanti, ma poiché in lui vedeva la straordinaria capacità di avere animo maggiore nelle avversità più che nella prosperità, cosa che riteneva essere praeter ceteras artem unam egregie mirabilem.

Tuttavia, delle due lettere, la più interessante, ai fini della nostra indagine, è quella tramandataci per prima dal codice, la più recente: l’autore si rivolge ad un Cesare già vincitore della guerra civile in uno stato dove i costumi e la vita politica e sociale sono ammalati.

Viene, dunque, presa in considerazione la politica di riconciliazione che Cesare vincitore sta mettendo in atto nei confronti dei vinti. In primo piano non può che esserci la clemenza del vincitore: l’autore suggerisce a Cesare dei provvedimenti che vadano nella direzione della moralizzazione dei costumi, senza la quale la sua politica riconciliatrice si rivelerebbe insufficiente e illustra un piano di riforme, che, accennate già nella lettera precedente, devono adesso essere attuate partendo dall’ambito morale per poi influenzare quello politico e sociale. Con l’attuazione di queste riforme Cesare riuscirebbe a legittimare agli occhi di tutti il suo potere, che altrimenti rischia di essere inviso alla nobilitas (2,6,1), in quanto sta, di fatto, anche se non nominalmente, trasformando profondamente la repubblica. La clementia di Cesare, da poco vincitore, non viene, come invece solitamente accade, elogiata come virtus da lui posseduta fin dalla giovinezza: piuttosto viene caldamente consigliata dall’autore a colui che è il solo capace di sanare e componere rem publicam in quanto diverso da coloro che sono definiti plerique rerum potentes; egli è bonus atque strenuus e riuscirà a rendere migliori i cittadini. Compito imprescindibile per il futuro dittatore è adesso quello di componere victoriam avvalendosi come strumento della clementia. Dunque qui l’autore propone a Cesare quello che, come vedremo, anche Cicerone, nella Pro Marcello, gli prospetterà come ratio vincendi: il perseverare nella clementia. Da evitare assolutamente è il modello di governo che si fonda sulla crudelitas e sul metus:

Equidem ego cuncta imperia crudelia magis acerba quam diuturna arbitror, neque quemquam multis metuendum esse, quin ad eum ex multis formido reccidat: eam vitam bellum aeternum et anceps gerere, quoniam neque adversus neque ab tergo aut lateribus tutus sis, semper in periculo aut metu agites. Contra qui benignitate et clementia imperium temperavere, iis laeta et candida omnia visa, etiam hostes aequiores quam aliis cives. Haud scio an qui me his dictis corruptorem victoriae tuae nimisque in victos bona voluntate praedicent. Scilicet quod ea , quae externis nationibus natura nobis hostibus nosque maioresque nostri saepe tribuere, ea civibus danda arbitror neque barbaro ritu caede caedem et sanguinem sanguine expianda.

(I, 3, 2)

Ciò cui adesso il vincitore deve tendere è benignitate et clementia imperium temperare: questo renderà hostes aequiores. Per avvalorare la sua tesi l’autore fa riferimento all’uso della clementia da parte dei maiores nei confronti delle popolazioni straniere; dunque anche in questo caso, come nel De coniuratione Catilinae, la clementia viene inserita nel novero delle pratiche degli antichi.

A questo punto lo pseudo-Sallustio introduce sapientemente per differentiam gli esempi negativi di Pompeo e delle modalità della vittoria di Silla che operò molte stragi di cittadini. Dopo la vittoria sillana, nella città perdurò la condizione di belligeranza e il timore era diffuso: a differenza di allora il nuovo vincitore dovrà orientare tutto il suo operato verso un solo obiettivo: firmare pacem, concetto che, peraltro, viene ripetuto per ben due volte in questa seconda sezione della lettera.

Il componere e il firmare (i due leitmotive di questa prima epistula) si configurano così come azioni inevitabili da parte di chi voglia restaurare e pacificare lo stato sconvolto dalle guerre civili: armis parta componere (I, 7), firmanda res publica (I, 8) victoriam composueris (I, 10), qui ea compositurus es (3, 2), de pace firmanda (5, 1), illam firmam efficis (6, 2).

Come abbiamo già osservato, agli occhi dell’autore della lettera Cesare appare il solo capace di riuscire in questo intento:

quare capesse , per deos, rem publicam et omnia aspera, uti soles, pervade. Namque aut tu mederi potes aut omittenda est cura omnibus.

(I, 6, 3-4)

È interessante notare come il medesimo concetto dell’ unicità di Cesare come risolutore delle questioni politiche, ritorni anche al § 24 della ciceroniana pro Marcello. Lì esso si configura addirittura come officium, ma per altre ragioni che si illustreranno di seguito.

Appare dunque evidente che anche secondo l’autore della lettera, il vincitore della guerra civile non può che essere un modello per l’eccezionalità delle sue doti, pur inserite nel solco della tradizione repubblicana.

CAPITOLO SECONDO

La contraddittoria posizione di Cicerone

È difficile definire con esattezza l’immagine che di Cesare ebbe Cicerone: la sua riflessione sulla figura del dittatore appare assai problematica e talvolta perfino contraddittoria. Non troppo distante dalla concezione sallustiana si colloca, un ‘certo’ Cicerone, quello delle lettere a Cesare e delle orazioni cesariane; l’oratore non elogia Cesare in quanto esempio di eticità, ma piuttosto cerca di proporgli un modello comportamentale al quale ancorarlo per evitare che la sua azione politica possa essere troppo dirompente, e tenta di inserirlo lungo il solco delle virtutes repubblicane, forzando tuttavia alcuni caratteri tradizionali di queste.

Ma, mentre nelle cesariane l’interpretazione che l’oratore fornisce di Cesare sembra essere positiva, nelle opere scritte dopo la morte del dittatore si registra un netto cambiamento di toni, e Cesare assume i tratti, quasi ferini, del tiranno che compie beneficia iniusta. Questa contraddizione è in realtà solo apparente in quanto, mentre in un primo periodo l’oratore, guardando con occhio preoccupato all’immenso potere che Cesare ha ottenuto, crede ancora possibile dare un volto umano al potere assoluto, proponendo al dittatore nella Pro Marcello un modello etico, in un secondo momento, dopo le Idi di Marzo, egli riconsidera gli eventi e, constatando che il dittatore non aderì mai a questo modello, opera una decostruzione della sua immagine; così, assimilandolo spesso ai più efferati tiranni, lo demonizza, nel vano tentativo di scongiurare il pericolo futuro di nuove dittature.

Ciò che si è cercato di fare in questo capitolo è di elaborare una riflessione che mettesse in luce la stessa evoluzione delle idee ciceroniane: si è partiti dall’analisi delle orazioni cesariane, che costituiscono il tentativo di imporre al dittatore la maschera del benefattore e si è passati, poi, all’analisi delle opere scritte dopo la morte del dittatore, in cui l’Arpinate opera una progressiva destrutturazione delle connotazioni che potevano consentire l’operazione tentata nelle orazioni, giungendo, infine, a rovesciare l’identificazione della persona del benefattore.

2. 1. Il tentativo di Cicerone di eticizzare ed umanizzare il tiranno

Prendiamo le mosse dal testo che maggiormente ha suscitato e continua a suscitare polemiche: la Pro Marcello. Questa orazione si presenta, fin dall’inizio, sotto le vesti esteriori di una gratiarum actio. Cesare ha compiuto un summum beneficium: ha graziato Marco Marcello e lo ha restituito allo stato. Con ciò egli ha ripristinato l’autorevolezza del senato e ha reso alla comunità e alla repubblica la sua parola di oratore: meam vocem et auctoritatem vobis et rei publicam conservata ac restitutam puto (§2). … te auctoritatem huius ordinis dignitatemque rei publicae tuis vel doloribus vel suspicionibus anteferre (§3). Dunque se da un lato Cesare viene considerato il benefattore cui va il merito di aver cambiato di segno una relazione prima improntata all’ostilità e adesso alla gratitudine, dall’altro lato questo gesto si configura come restituzione di qualcosa precedentemente sottratta. Da qui il movimento all’indietro impresso dall’uso ripetuto di verbi con il prefisso re- utilizzati nell’orazione per descrivere il gesto del benefattore.

Sembra dunque che Cicerone stia quasi prospettando l’ipotesi di un possibile ritorno all’indietro, al pristinus mos, reso possibile dall’atto del reddere che Cesare ha appena compiuto.

Se lo scopo di questa ricerca è quello di raccogliere le rappresentazioni di Cesare che si sono andate formando nel tempo, in realtà a proposito di questa orazione si può parlare più di un modello ideale elaborato da Cicerone e proposto a Cesare, cui egli si dovrebbe uniformare. Si parla dunque, di un “Cesare ideale” più che reale, ma la cui creazione affonda le radici nei suoi stessi comportamenti e nelle dichiarazioni sue e della sua pubblicistica.

Cesare, infatti, aveva adoperato come strategia di vittoria la clementia attraverso la quale aveva mostrato la sua indole moderata e aveva evitato la morte a innumerevoli cittadini romani, che durante la guerra civile si erano schierati dalla parte di Pompeo.

Così, anche nel caso di Marcello, come durante tutta la guerra civile, Cesare aveva preferito la clementia all’ira, vincendo così la stessa vittoria, che per natura è eccessiva ed arrogante ( …victoria, quae natura insolens et superba est §9) e aveva dunque scelto di vestire i panni del benefattore. Cicerone, partendo da un argomento cardine della pubblicistica cesariana - quello di un Cesare clemente che mira a victoriam componere - propone al suo vero interlocutore un modello di relazione che si rivelerebbe conveniente per tutti e su tutti i fronti: Cesare deve continuare ad indossare la maschera del benefattore, che egli stesso e la sua pubblicistica hanno costruito, abbandonando del tutto l’iracundia.

Quello dell’ira è un tema ricorrente in tutta la Pro Marcello insieme alla clementia, alla quale si contrappone; infatti Cicerone propone a Cesare la via della clementia come nova ratio vincendi contrapposta alla via dell’ira che, associata alla vittoria, richiama subito alla memoria il negativo modello sillano. L’oratore ricorda al suo interlocutore le azioni che egli ha già compiuto e di cui si è reso benemerito e lo invita a persistere lungo questa direttrice di azione.

Primo compito sarà quello di sanare la repubblica che giace prostrata a causa della guerra civile. Infatti, come l’autore teorizzerà nel De Officiis, è la patria quella che si deve in primo luogo beneficare; verso di essa ogni cittadino ha degli obblighi e, in particolare, Cesare ha contratto con essa un duplice debito: non solo, infatti, egli deve compiere un dovere, in seguito alla carica che ricopre ma, soprattutto in quanto responsabile della guerra civile, è investito dell’officium di impegnarsi ut rem publicam constituat. Dunque questa missione deve compierla solamente lui (Caesar unus) al quale, fin dall’inizio dell’orazione, Cicerone affida il compito di restaurare, con le sue virtutes (prima fra tutte la clementia) la res publica. Per questo egli indica a Cesare le basilari direttrici del modello etico da perseguire per temperare victoriam. Tutta la sua azione deve essere ispirata alla clementia, dote, egli dice, posseduta in sommo grado da Cesare come virtù personale e quindi annoverata all’interno di un sistema di virtutes (mansuetudo, clementia, modus, sapientia, iustitia, lenitas etc.) che si configurano non soltanto come politiche, ma più in generale come civiche, assumendo così un valore universalmente etico, che bene si inserisce all’interno della tradizione romana (cfr. Pro Marc. 1-9-12). La rappresentazione che sembra dare qui Cicerone di Cesare è quella di un uomo dalle innumerevoli virtù personali, prima tra tutte, ovviamente, la clementia.

A ben vedere, Cicerone aveva certamente chiaro come la clementia fosse uno strumento utilitaristico di Cesare – che di fatto ne aveva modificato l’uso rispetto alla tradizione culturale romana trasformando in virtù di un singolo l’antica clementia populi– e potenzialmente eversivo (altrove egli la considera infatti insidiosa), ma cerca di usarla come strumento di controllo dell’operato del dittatore, il quale d’ora in poi, sembra suggerire Cicerone, non dovrà più abbandonare la maschera di clemente benefattore, che con la Pro Marcello gli è stata fatta indossare, pena la perdita di credibilità. Infatti, se così facesse, si renderebbe assai inviso ai più per i quali sarebbe facile fare un’associazione con le modalità d’azione sillane.

In tale direzione vanno anche le altre due cesariane, in cui l’oratore riprende tutti i temi, i consigli e i moniti forniti in quest’orazione in modo coerente e con un efficacissimo gioco di rimandi interni che mira, nella retorica ciceroniana, al condizionamento dell’agire del dittatore.

Nella Pro Ligario appare chiaro fin dall’incipit che Cicerone voglia indirizzare tutta l’orazione alla clementia Caesaris e il richiamo di Cesare all’esercizio della clemenza diventa dominante, soprattutto nell’ultima parte, con estrema abilità retorica. In questo testo l’appello alla clementia mira a far leva su una modalità comportamentale già collaudata e che fino a quel momento era stata fruttuosa: il dittatore, infatti, aveva già mostrato più volte la sua misericordia verso tutti coloro i quali, spinti da un error e non da culpa aliqua, si erano schierati durante la guerra civile tra le fila dei pompeiani: Cicerone ne è un esempio, ma esempio ancora più lampante doveva apparire quello di Marcello che, sebbene avversario, la clemenza del dittatore aveva da poco graziato.

Ancora una volta questa dote quasi divina viene contrapposta all’iracundia e questo stadio emozionale viene subito associato al modello sillano:

.

At istud [scil. vita privare] ne apud eum quidem dictatorem qui omnis quos oderat morte multabat, quisquam egit isto modo. Ipse iubebat occidi; nullo postulante, praemiis inuitabat; quae tamen crudelitas ab hoc eodem aliquot annis post, quem tu nunc crudelem esse uis, uindicata est.

(Lig. 12)

Silla e le modalità della sua vittoria sono da Cicerone costantemente citati come esempio negativo. Sicuramente quello della dittatura sillana era per i Romani il più recente esempio di vittoria crudele; ma non è l’unico motivo per cui Cicerone cita esplicitamente questo modello. Se leggiamo il § 12 in rapporto ad un altro testo, esso potrebbe caricarsi di nuovi e interessanti significati.

Così scrive Cesare nella lettera inviata ad Oppio e Balbo il 15 marzo:

[…] quondam reliqui crudelitate odium effugere non potuerunt neque victoriam diutius tenere praeter unum L. Sullam quem imitaturus non sum. haec nova sit ratio vincendi ut misericordia et liberalitate nos muniamus.

(Att. 9, 7)

Cesare, dunque, dopo gli avvenimenti di Corfinio dichiara apertamente di non voler essere imitatore di Silla, ma piuttosto di essere intenzionato a praticare un nuovo metodo di vittoria (nova ratio vincendi ) che abbia come capisaldi la misericordia e la liberalitas, non fa uso del termine clementia.

Alla luce di queste affermazioni il monito di Cicerone si caricherebbe di un'ulteriore coloritura: Cesare non può non concedere la grazia a Ligario, perché assecondando i desideri dell’accusatore (privare Ligario della vita), si comporterebbe in modo ancor peggiore di colui dal quale ha dichiarato di volersi tenere lontano (Silla) e del quale aveva egli stesso abolito le leggi nel 64. Cicerone sembra voler qui indirizzare Cesare a comportarsi in modo tale da dimostrare che la ratio vincendi sillana, non è quella propria della sua natura: la sua vittoria si era distinta, fino a questo momento, da quella sillana, perché non aveva causato la morte di nessuno (§19 victoria in qua occiderit nemo nisi armatus) e in tal senso avrebbe quindi dovuto continuare ad operare.

Cicerone avvisa il dittatore di cosa potrebbe arrecargli l’assecondare la richiesta di Tuberone, che implicherebbe il rifiuto del modello etico da lui stesso perseguito all’inizio della carriera e di cui l’oratore aveva indicato le principali direttrici nell’orazione precedente, quando gli era sembrato necessario interrompere il diuturnum silentium.

Ma il modello sillano dell’iracundia continua a comparire in filigrana anche nel §15, in cui l’oratore esaltando la lenitas del dittatore, prospetta anche le conseguenze che deriverebbero da una vittoria priva di questo tratto e quindi traboccante di acerbissimus luctus. A ben vedere, le conseguenze di un tale comportamento non sarebbero dolorose soltanto per chi subirebbe un comportamento spietato da parte del dittatore, ma anche per lo stesso Cesare. Se egli infatti istaurasse un rapporto basato sull’iracundia e sul timor, dovrebbe allora temere anche per la sua salvezza poiché, non ricevendo il dono della vita (summum beneficium), i nemici rimarrebbero tali e non sarebbero più amicissimi: la suspicio di Cesare cui Cicerone fa riferimento nella pro Marcello sarebbe in quel caso fondata.

Cesare, infatti, è riuscito a guadagnarsi la popularitas grazie a due delle sue virtutes: la bonitas e la misericordia. Quest’ultima non soltanto lo rende gratior al popolo, ma lo rende proprius deo conferendogli il potere di dare salutem hominibus. È dunque necessario perché il modello relazionale continui a funzionare in modo positivo che Cesare continui a perseguire la strada della misericordia e della clementia.

Nell’ultima cesariana, la Pro rege Deiotaro Cicerone usa toni molto forti, talvolta quasi minacciosi; questi sono giustificati dal fatto che, secondo l’ipotesi di lettura indicata in precedenza, questa orazione rappresenterebbe l’estremo, disperato tentativo di Cicerone di forzare Cesare entro i limiti imposti dalla sua maschera di benefattore.

All’interno del primo paragrafo l’oratore dichiara che il timor lo priva della facultas. Viene in questo modo rovesciata la situazione che era presentata nella Pro Marcello: lì Cicerone dichiarava che il suo silentium era stato causato non timore aliquo, ragion per cui aveva posto fine al suo diuturnum silentium, qui invece è proprio il timor che gli impedisce di parlare. Si registra dunque già da queste prime battute dell’orazione un radicale cambiamento di prospettiva: cosa è mutato nel così breve tempo che separa questa dalle due orazioni precedenti? A capirlo ci aiutano le modalità e i luoghi in cui viene pronunciata la Pro Deiotaro.

Se infatti nella Pro Marcello, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, la legalità repubblicana era formalmente rispettata, nell’ultima cesariana viene del tutto sovvertita: l’oratore si rivolge solo a Cesare, unico interlocutore che riunisce in sé la duplice funzione di parte lesa e di giudice ma, cosa ancora più sorprendente, non soltanto la giuria è assente, bensì tutta l’orazione è pronunciata intra domesticos parietes della casa privata del dittatore e non più nel Foro. Dunque, ogni forma dell’antica legalità repubblicana presente, anche se solo in apparenza, nelle altre due cesariane, è stata completamente sovvertita: è per questo motivo che il tema che domina tutta l’orazione è il timor. Bisogna che il dittatore stia attento a scegliere le sue modalità comportamentali perché questo condizionerà l’altrui iudicium su di lui: [4] Non enim tam timeo quid tu de rege Deiotaro, quam intellego quid de te ceteros velis iudicare.

L’oratore dichiara di riuscire ad allontanare il suo timor e la sua perturbatio non appena egli pensi alla sapientia, che già in passato Cesare ha mostrato di annoverare tra le sue doti. Essa saprà rendere questa circostanza, di per sé iniqua, aequissima. La praestans singularisque natura riuscirà a diminuire la paura dell’oratore, ma l’uso del verbo minuo (metum minuit) è spia semantica dell’impossibilità di scongiurarla del tutto. Cicerone dichiara in questo paragrafo di non temere la decisione del dittatore in merito al re Deiotaro: Cesare sa bene che, perché gli altri diano un giudizio positivo sul suo conto, non può che agire in un’unica direzione, compiendo anche questo beneficium. È Cesare con la sua decisione che deve metu liberare: ancora una volta vengono contrapposti i due modelli comportamentali dell’ira e della clementia.

Anche coloro i quali un beneficium elargito aveva liberato dal metus, un beneficium negato potrebbe far cadere in una sollicitudo sempiterna e far ricominciare a timere.

Dunque in tutta l’orazione si registra un esasperato tentativo di ricondurre Cesare all’interno degli schemi relazionali proposti fin dalla prima oratio. Il tentativo di Cicerone è quello di utilizzare la clementia con funzione ‘addomesticatrice’, il cui scopo sarebbe proprio quello di mansuescere il volto di un potere che altrimenti ai suoi occhi apparirebbe disumano, intollerabile. Essa, in quanto strumento di moderazione dell’azione politica di Cesare, si propone di forzarne il comportamento, incanalandolo entro le linee tracciate dalla sua stessa propaganda e costringendolo, così, a rimanere fedele al suo modello etico.

2. 2. Da benefattore a tiranno

La produzione letteraria di Cicerone subito successiva alla conclusione della guerra civile, come abbiamo visto, mostra il tentativo di strumentalizzare il modello del benefattore per far rientrare le naturali tendenze degenerative che la posizione politica di Cesare comporta. Tuttavia di fronte al mancato riscontro dell’aderenza del dittatore al modello che l’oratore ha tentato di proporre nelle tre cesariane, Cicerone si trova a fare i conti con la necessità di ridefinire una morale comune per cercare da un lato di riportare la pratica del beneficium entro le coordinate della tradizione, e dall’altro di togliere la maschera di benefattore al tiranno giungendo infine all’identificazione della persona del benefattore dal tiranno al tirannicida, cercando in questo modo di scongiurare l’avvento di un nuovo tiranno.

Come abbiamo già anticipato, dopo le Idi di Marzo, Cicerone riconsidera il comportamento e l’operato del dittatore e si rende conto, o forse semplicemente può dire apertamente, che quello non aveva mai aderito completamente alla maschera del benefattore propostagli nella Pro Marcello. ‹‹E’ solo il destino di morte che permette di inserire Cesare, a posteriori, nel numero dei tiranni: è solo la sua morte che ne svela la natura malvagia e tirannica; che rivela che gli altri non avevano per lui affetto ma soltanto timore››.

Quindi, se nelle orazioni cesariane l’oratore era stato prodigo di lodi nei confronti di Cesare, del suo modo di gestire la vittoria e delle sue innumerevoli virtutes, nei testi successivi alle idi di marzo la sua prospettiva appare completamente rovesciata. Cicerone incomincia a riconsiderare la storia appena recente giungendo perfino a scrivere in una lettera ad Attico il 18 aprile, ‹‹il tiranno è morto ma la tirannia sussiste ancora››; è dunque chiaro da questa affermazione che colui che voleva mostrarsi come benefattore, in realtà agli occhi di Cicerone era un tiranno. Per di più, morto il tiranno, il pericolo della tirannide non era stato scongiurato: i due nuovi consoli miravano al raggiungimento del potere personale. Parve dunque necessario all’anziano oratore una ridefinizione dei modelli etici e comportamentali: dopo quasi un secolo di guerre civili la classe dirigente aveva perduto di vista il giusto cammino verso la gloria e non conosceva più il reale significato di dignitas. Allora l’obiettivo che egli si propone è quello di destrutturare la memoria di Cesare, incarnazione del desiderio di regnum.

Il dittatore da questo momento in poi assumerà nelle opere di Cicerone i tratti del tiranno e gli verranno attribuite tutte quelle rappresentazioni topiche che a questa figura sono connesse. Tutte le Filippiche, ma soprattutto le prime due, sono infatti dominate dalla figura di Cesare, anche quando Cicerone sembra rivolgersi solamente ai suoi seguaci o ad Antonio.

L’apparente intento della prima Filippica è quello di richiamare i consoli con toni amichevoli dalla cattiva strada in cui si erano messi, ma in realtà l’oratore oltre a fare il punto sulla precedente tirannide, ventila il pericolo che si possa riverificare una situazione simile. È per questo motivo, infatti che inizia l’orazione con una lode nei confronti di Antonio che, dopo la riconciliazione dei Liberalia aveva eliminato sia il regno sia la paura di esso cum dictatoris nomen, quod saepe iustum fuisset, propter perpetuae dictaturae recentem memoriam funditus ex re publica sustulisset.

Calzante appare a questo proposito il paragone con l’Atreus di Accio ‹‹in cui la figura del protagonista era caratterizzata dalla mutatio da bona initia a mali eventus››. Cicerone mette in guardia il suo nuovo avversario: non è conveniente per lui rimanere iratum e armatum (27), ma soprattutto non lo è preferire metui a civibus quam diligi, come ben dimostra la storia recentissima:

[…] Illud magis vereor, ne, ignorans verum iter gloriae, gloriosum putes plus te unum posse quam omnes et metui a civibus tuis quam diligi malis. Quod si ita putas, totam ignoras viam gloriae. Carum esse civem, bene de re publica mereri, laudari, coli, diligi gloriosum est; metui vero et in odio esse invidiosum, detestabile, imbecillum, caducum. Quod videmus etiam in fabula illi ipsi, qui 'Oderint, dum metuant' dixerit, perniciosum fuisse.

(Phil. I, 33-34)

Per rendere più efficace il suo discorso, Cicerone non si accontenta delle sue, pur sapientissime, parole. Egli esplicita la sua affermazione con un esempio (l’exitus Caesaris) che culmina con una lapidaria sentenza. Cesare assurge qui ad esempio di relazione fondata sul timor, quello stesso che Cicerone aveva manifestato nell’ultima cesariana e che, a differenza da quanto aveva dichiarato l’oratore, era tutt’altro che infondato.

Nella Seconda Filippica l’oratore tornerà nuovamente sull’argomento: con toni ancora più accesi, paragona Antonio al defunto Cesare contestualmente richiamando alla mente del primo l’exitus di quello. Nonostante la figura del dittatore morto esca vincitrice da questo confronto, egli viene ritratto a tinte fosche. Infatti, ancora una volta la dittatura cesariana viene presa come esempio di governo che preferisce, alla benevolentia dei cittadini, il loro metus; vengono dunque messi in evidenza i processi mentali sui quali il dittatore faceva leva (metu partim patientia) e gli effetti che questo tipo di relazione governante/governati aveva causato. Proprio in questa seconda Filippica (§ 116), Cicerone, nel delineare un paradossale ritratto di Cesare, ne svela, come osserva molto bene Canfora, l’ipocrisia della sua clementia, che qui diventa clementiae species.

Ma non è soltanto nelle Filippiche che Cicerone ricorda il governo di Cesare come esempio di dittatura basata sul metus: il riferimento a Cesare come modello negativo è presente soprattutto nel De Officiis. In questo trattato filosofico il riferimento a Cesare come tiranno è costante ed è sempre fatto in termini tutt’altro che pacati: Cesare dittatore viene associato alla figura dei più efferati tiranni come Alessandro di Fere e Falaride e ‹‹quasi anticipando Lucano, Cicerone si accanisce a disegnare il ritratto di Cesare come un essere quasi mostruoso, sovvertitore, per brama di potere, di tutte le leggi divine ed umane (off. I, 26), spesso assetato del male per puro piacere anche in mancanza di ogni altra motivazione›› (il riferimento è a II, 84: tanta in eo peccandi libido fuit, ut hoc ipsum eum delectaret peccare, etiam si causa non esset).

Il De Officiis è dunque l’opera filosofica di Cicerone che più risente delle vicende politiche subito precedenti alla sua stesura: ‹‹l’esperienza della dittatura di Cesare ispira uno dei temi principali del De Officiis, la ricerca di impedire che un singolo uomo politico acquisti eccessiva potenza e rompa la solidarietà dell’oligarchia dirigente››. Tutto il trattato è percorso dal ricordo quasi minaccioso del tiranno da poco ucciso.

Il tyrannus–Cesare ha sconvolto per brama di potere, onore e gloria, tutte le leggi umane e divine (I, 26) e ha acquisito la ferocia delle belve sotto l’aspetto umano (III, 32). Egli ha acquisito una ferinitas che rende ogni tiranno estraneo al consorzio umano e dunque ne legittima l’uccisione:

Nulla est enim societas nobis cum tyrannis et potius summa distractio est, neque est contra naturam spoliare eum, si possis, quem est honestum necare, atque hoc omne genus pestiferum atque impium ex hominum communitate exterminandum est. Etenim, ut membra quaedam amputantur, si et ipsa sanguine et tamquam spiritu carere coeperunt et nocent reliquis partibus corporis, sic ista in figura hominis feritas et immanitas belvae a communi tamquam humanitatis corpore segregando est.

(off. III, 32)

Il tirannicidio di Cesare si configura, secondo l’interpretazione di Cicerone, come atto degno di lode: egli, in quanto tiranno, era una belva appartenente ad una genia pestifera atque impia e dunque meritevole di morte.

Altra caratteristica topica del tiranno è proprio la sua impietas. Egli sovverte l’ordine cosmico, nega la potenza degli dei e, sovvertendo tutte le loro leggi, ad essi vuole sostituirsi. L’aggettivo impius è più volte riferito da Cicerone a Cesare e talora è esteso a tutti i populares:

[…] Ergo in illo [scil. Silla] secuta est honestam causam non honesta victoria. Est enim ausus dicere hasta posita, cum bona in foro venderet et bonorum virorum et locupletium et certe civium, praedam se suam vendere. Secutus est, qui in causa impia, victoria etiam foediore, non singulorum civium bona publicaret, sed universas provincias regionesque uno calamitatis iure comprehenderet.

(off. II, 27)

In questo passo, ancora una volta, i due dittatori, Silla e Cesare, sono messi a confronto. Nessuno stupore: già nell’orazione Pro Ligario (§12) Cicerone aveva ventilato un simile pericolo, ma lì lo aveva subito sapientemente mistificato sotto le false spoglie dell’incredulità.

Se il tratto pertinente che nella Pro Marcello caratterizzava la figura di Cesare tratteggiata da Cicerone era la clementia, che lo rendeva simillimus deo, nelle opere che l’Arpinate scrive dopo le idi di marzo il dittatore acquista una ferinitas ed impietas che lo estromettono dal consorzio umano caratterizzandolo come crudele ed efferato tiranno la cui uccisione non può che essere definita atto degno di lode. Scompare del tutto la figura del benefattore clemens che viene piuttosto sostituita da quella assai più inquietante, soprattutto per i romani, del tiranno che sostituisce ad una relazione basata sulla prassi del beneficium (quella verso la quale Cicerone avrebbe voluto indirizzarlo), una basata sul metus.

Toni ancora più feroci verranno utilizzati da Lucano che trasforma Cesare e lo trasfigura rendendolo un essere quasi mostruoso.

CAPITOLO TERZO

L’età augustea

3.1 Cesare diventa una divinità

Non erano ancora finiti i riti per la morte di Cesare, quando ebbe già inizio la sua glorificazione, che assumeva le forme dell’apoteosi. Cesare, diventando un dio, viene privato della sua consistenza storica e della sua materialità, viene trasformato in un mito, in un simbolo.

‹‹Una volta morto Cesare divenne dio e mito, passando dal campo della storia a quello della letteratura e della leggenda, della declamazione a della propaganda››.

Colui che ricevette l’eredità di Cesare fu Ottaviano, suo nipote. Questi si presentò al popolo e al senato come il restauratore della tradizione repubblicana e della legalità, ma in quanto erede di Cesare portava addosso il peso delle sue azioni politiche, che avrebbero potuto influire sul giudizio riguardo al suo governo. Augusto, invece, preoccupato di conservare, almeno formalmente, i valori della vecchia repubblica e di conquistare la benevolenza degli ex pompeiani, da un lato favorì il crearsi di un’ immagine positiva di un Pompeo conquistatore dell’oriente e fautore della grandezza della repubblica, dall’altro ridimensionò la figura del Cesare soppressore delle libertà repubblicane e fondatore dell’impero, esaltandone solo alcuni aspetti e cristallizzandolo in una immagine divina. Egli si presentò non come l’erede di Cesare dittatore bensì del divus Iulius. Se per il giovane Ottavio la figura di Cesare fu utile per la sua ascesa al potere, per Augusto, colui che aveva garantito la restituito rei publicae, la figura del dittatore era diventata imbarazzante.

In due modi Cesare fu sfruttato da Augusto: toccava al suo figlio adottivo vendicarne la morte, e questi assunse il titolo di divi filius a consacrazione del dominatore di Roma. Tutto quello che egli teneva ad ereditare da Cesare era proprio questo alone divino. Utile era il dio, non il dittatore; e Augusto fu attento a fare una netta distinzione fra dictator e princeps. Cesare doveva essere commemorato come divus ma dimenticato come uomo politico e così, a partire dai primi anni del principato di Augusto, la figura di Cesare fu spersonalizzata attraverso la sua deificazione e privata di ogni umana concretezza di uomo politico per oltre un secolo. Si può dire poco del trattamento di cui godette Cesare negli scritti di Augusto, perché ben poco ci è rimasto: della sua Autobiografia in tredici libri non ci sono rimasti che pochi frammenti. Sappiamo però che il primo libro copriva con molta probabilità il periodo di tempo fino alle idi di marzo e, possibilmente, includeva anche un excursus che aveva Cesare come protagonista negl ultimi mesi di vita.

Non ci sono pervenute fonti storiografiche che contribuiscano a chiarire in che modo fu tratteggiata la figura di Giulio Cesare in età triumvirale e augustea: un buon numero di suoi contemporanei avevano scritto su di lui e sulla sua epoca ma i loro lavori, probabilmente molto importanti per comprendere a fondo la ricezione del dittatore nell’epoca subito successiva alla sua morte, sono quasi del tutto perduti.

In età triumvirale Diodoro Siculo scrive la Bibliotheca Historica e, nonostante egli escluda dalla sua narrazione la parte più importante della vita di Cesare, la sua figura permea molte parti dell’opera: basti pensare al ruolo di preminenza che ha in tutta la narrazione e, in particolar modo, nei primi libri la clemenza (È per la loro clemenza e per aver dispensato doni che Eracle e Dioniso sono onorati come divinità dall’umanità e, a parte altre figure mitologiche delle quali viene menzionata la deificazione, Giulio Cesare è l’unico personaggio storico di cui si menziona la venerazione.

Diodoro più volte dichiara che il fine della sua opera è quello di narrare le benemerenze e gli atti di generosità e dei grandi benefattori perché ritiene che ciò possa indurre l’umanità a seguire il loro esempio. Infatti la storia è più durevole del semplice riconoscimento di una divinità da parte degli uomini.

Nel descrivere la distruzione della città di Corinto, coglie l’occasione per raccontare che la città fu ricostruita un secolo più tardi da Cesare, il quale viene chiamato dio per le sue opere e al quale vengono innalzate preghiere per la sua .

Diodoro Siculo XXXII 27 [exc. De Virt. et Vit., pp.293-294]

Appare assai strano il fatto che, nonostante lo storico dimostri una particolare ammirazione per Giulio Cesare, egli non scriva degli eventi dei tempi del dittatore: la sua storia si ferma infatti al 60 d.C.

Forse Diodoro aveva originariamente programmato di fornire un resoconto della carriera di Cesare, verso il quale nutriva una profonda ammirazione, e avrà deciso poi durante il corso della stesura dell’opera di fermarsi al 60, data cui fa riferimento nel proemio; comunemente si ritiene che il 46 sia l’anno in cui Diodoro, finite le ricerche iniziò a scrivere la sua Bibliotheca e forse gli eventi successivi a quella data gli dovettero far cambiare idea e indurlo a ritenere inopportuno per lui, un greco emigrato privo di legami o di una carriera senatoria alle spalle, scrivere di argomenti che in epoca triumvirale dovevano apparire assai scottanti.

Per una comprensione completa del trattamento di Cesare in età augustea ci sarebbero bastate le storie di Asinio Pollione o i libri di Livio che comprendevano il periodo della dittatura di Cesare e della guerra civile subito precedente. La storia di Pollione doveva con molta probabilità coprire un periodo temporale compreso tra il 60 e il 42 a. C. e Cesare doveva molto probabilmente costituire un punto focale all’interno della sua narrazione. Possiamo avere un’idea di quello che Asinio pensava di Cesare attraverso quello che di lui scrivono altri autori, soprattutto Cicerone nelle Epistulae: se da un lato Pollione stimava e amava l’amico (Caesarem vero… dilexi summa cum pietate et fide, Cic. Fam. 10, 31,3), non esitava a criticarne delle azioni che egli riteneva sbagliate. Così quando L. Cornelio Balbo agirà in modo anticostituzionale, Pollione gli rimprovererà il tentativo di emulare il comportamento di Cesare verso Roma (Cic. Fam. 10, 32, 1-2); Pollione lamentava, tuttavia, il compromesso della sua etica personale che l’amicizia con Cesare gli imponeva (Cic. Fam. 10, 31, 3). A parte queste testimonianze provenienti dall’epistolario ciceroniano,che tuttavia non ci dicono nulla sul trattamento di Cesare nell’opera di Asinio, altra testimonianza troviamo in Svetonio (Iul. 56.4) il quale riporta il giudizio di Asinio sui Commentari di Cesare. Stando al biografo, Pollione aveva messo in rilievo come il conquistatore delle Gallie avesse composto con scarsa cura questi resoconti riportando in modo inesatto le imprese altrui e le proprie vel consulto vel etiam memoria lapsus. Pierre Fabre ha sottolineato che, con molta probabilità una rivalità letteraria tra Asinio e Cesare doveva essere responsabile dell’inasprimento dei toni del giudizio dei primo sui Commentari cesariani.

L’altro storico di questo periodo che scrisse su Giulio Cesare, è Livio e anche per lui la situazione è assai vaga: i libri 103-116, che parlavano di Giulio Cesare, sono andati perduti e le periochae di questi libri non contengono alcunché di significante riguardo la rappresentazione del dittatore nella storiografia liviana. Così l’idea di ciò che Livio pensava di Cesare ci deriva principalmente da due affermazioni che troviamo in due autori tardi. Tacito scrive negli Annales che Cremuzio Cordo, sotto Tiberio, fu processato per aver elogiato nelle sue storie Bruto e chiamato Cassio l’ultimo dei Romani; a proposito della stessa vicenda racconta che Cordo nella sua difesa in senato aveva detto di Livio, per giustificarsi:

Titus Livius, eloquentiae ac fidei praeclarus in primis, Cn. Pompeium tantis laudi bus tulit, ut Pompeianum eum Augustus appellaret; neque id amicitiae eorum offecit. Scipionem, Afranium, hunc ipsum Cassium, hunc Brutum nusquam latrones et parricidas, quae nunc vocabula imponuntur, saepe ut insignis viros nominat.

(Tac. Ann. IV, 34, 3)

Molti studiosi hanno interpretato l’appellativo Pompeianus,usato in questo passo, come una spia di una opposizione di Livio a Cesare e della stesura della sua Storia da una prospettiva filo repubblicana; qualcuno ha rilevato, invece che l’ultima frase potrebbe significare che gli assassini di Cesare non ricevettero un trattamento pari a quello che lo storico riservò a Pompeo.

Nelle Naturales Quaestiones (V, 18, 4), Seneca riferisce agli effetti del vento quanto Livio aveva detto di Cesare: in incerto esse utrum illum magis nasci an non nasci reipublicae profuerit. Nonostante questi due passi siano stati i principali argomenti a sostegno della tesi di un Livio avverso a Cesare, è assai difficile darne una interpretazione univoca e sicura, poiché, mancando il contesto all’interno del quale erano inseriti, non è possibile dire con certezza cosa l’autore volesse dire.

Le opere in prosa scritte in lingua greca durante l’età augustea ebbero maggiore fortuna di quelle in latino nella trasmissione arrivandoci in quasi complete: le Antichtà Romane di Dionisio di Alicarnasso, la Geografia di Strabone e la Vita di Augusto di Nicolao di Damasco.

Purtroppo né Dionisio né Strabone parlano direttamente di Cesare, tuttavia a lui si riferiscono in alcuni punti della narrazione. Dionisio si ferma alla prima guerra Punica e quindi non parla direttamente di Cesare, ma lo cita solamente in due luoghi (AR 8, 80, 2-3 e 87,7-8) dalla scarsa rilevanza.

È assai difficile, dunque, dire qualcosa sul trattamento di Cesare in età augustea utilizzando unicamente le fonti che ci provengono dalla storiografia coeva: la prosa di questo periodo, infatti, ci dice assai poco e spesso i frammenti rimasti sono di difficile interpretazione. L’unico dato certo che si può rilevare è che a Roma la memoria di Cesare non era caduta nell’oblio: al periodo cesariano Livio ha dedicato quattordici libri delle sue Storie, Asinio Pollione ne aveva scritti ben diciassette sul periodo della guerra civile e lo stesso Augusto aveva dedicato il primo libro della sua biografia al padre.

La nostra principale fonte su ciò che i contemporanei di Augusto pensavano di Cesare è costituita dalla poesia, che presenta degli aspetti molto diversi rispetto a quelli degli scritti storiografici, ma ci è pervenuta quasi per intero.

In età augustea il culto del divus Iulius è una acquisizione politica e la superiorità di Augusto sul padre è indiscussa, e i poeti non possono fare a meno di sottolinearla ogni qual volta ne abbiano la possibilità di farlo: Augusto è il Padre Fondatore e il suo stesso nome, Augustus, ne sottolinea l’eccezionalità; egli è l’inizio di una nuova éra, mentre il padre è la conclusione di un ciclo. Forse solo a partire da Svetonio il ruolo di Cesare viene in tal senso riabilitato e Cesare inizierà ad essere considerato il vero iniziatore di un nuovo periodo storico o il responsabile della fine della repubblica.

Secondo Syme l’atteggiamento dei poeti augustei nei confronti di Cesare deriva dal disagio di Augusto nei suoi confronti e allo stesso tempo rientra all’interno di una strategia di condizionamento dell’opinione pubblica: l’erede di Cesare non si limitò a rinnegare il ricordo di Cesare ma fece cancellare dalla versione ufficiale della storia la precedente dittatura e il triumvirato, tentando in questo modo di riabilitare la storia dell’ultima generazione repubblicana. L’interpretazione proposta da Syme è molto forte e negli ultimi anni molti studiosi hanno cercato di fare chiarezza sullo stato della questione.

Tuttavia la tesi di Syme ha avuto nel corso degli studi un ampio seguito e qualcuno ha parlato, a proposito del trattamento di Cesare in età augustea, di una sorta di damnatio memoriae: si è argomentato infatti che Cesare compare nella poesia augustea meno di quanto dovrebbe. Peter White è colui che si è speso maggiormente nel confutare la tesi sostenuta da Syme e, prima di lui, da Johann Kaspar von Orelli argomentando che, se si confronta il numero dei passi della poesia augustea che si riferiscono a Cesare con quelli in cui compaiono altri esponenti della politica di quel tempo, i riferimenti a Cesare sono di gran lunga superiori numericamente.

Tuttavia, anche se il dato numerico è reale, questa si può considerare, a buon diritto, solo un’evidenza apparente: se si esaminano i singoli passi rubricati da Peter White si può vedere che del personaggio storico ben poco è rimasto e tutti i riferimenti sono al divus e non all’uomo. La figura di Cesare appare scissa: mentre da un lato si esalta il Iulium sidus e il divino padre di Augusto, dall’altro l’uomo, il conquistatore della Gallia, il dittatore, compare assai sporadicamente negli scritti dei poeti che danno una versione della storia mai troppo approfondita.

Così eccezion fatta per alcuni limitati accenni, Virgilio non parla di Cesare e non lo inserisce nella storia di Roma incisa sullo scudo di Enea. In Ecl. 9. 46-50 il riferimento è alla stella di Cesare del cui influsso benevolo godono le messi; in Georg. 1. 466-497 Virgilio descrive i prodigi che si verificarono alla morte di Cesare e nel mostrare un sincero rammarico per colui sotto la cui leggenda aveva trascorso la sua giovinezza, cerca di creare nel lettore il senso di spavento che si diffuse a Roma e in tutte le province al diffondersi della notizia della morte di colui che aveva non solo conquistato Gallia e Germania, ma anche saputo instaurare rapporti personali di amicizia con gli abitanti di quei luoghi.

Il significato dei versi di Aen. I 286-288 è ambiguo: non è chiaro se il Cesare nominato sia Cesare Augusto o il padre. Giove predice il potere di Giulio Cesare o di Cesare Augusto? Virgilio è il primo dei poeti augustei a fare i conti con tale ambiguità o ad approfittarne. Tuttavia, non sono i poeti, ma lo stesso Augusto, con l’appropriazione del nome del padre, a scegliere, e forse consapevolmente, se non addirittura strategicamente, di creare queste anfibologie.

Dopo di lui, per tutta l’età imperiale, il nome di Cesare rimarrà vivo negli imperatori che, con l’assunzione del titolo ne prendevano anche il nome. Il cognomen Cesare diventa il nome dell’impero facendo risuonare quasi profetica la battuta che secondo Svetonio Cesare avrebbe rivolto alla folla che nel 44 lo acclamava rex.

In Aen. VI 792 nulla è rimasto del Cesare uomo, oscurato ormai dalla grandezza del figlio e cristallizzato nella formula Divi genus :

Huc geminas nunc flecte acies, hanc aspice gentem

Romanosque tuos. Hic Caesar et omnis Iuli

Progenies magnum caeli ventura sub axem.

Hic vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis,

Augustus Caesar, divi genus,aurea condet

Saecula qui rursus Latio regnata per arva

Saturno quondam…

(Verg. Aen. VI, vv.788-795)

L’accenno a Cesare è funzionale a far risaltare ulteriormente la figura del figlio Augusto, che appartiene alla progenies Iuli ed è divi genus.

Virgilio non può far a meno di inserire un riferimento, anche se circoscritto, alla guerra civile tra Cesare e Pompeo e lo fa non chiamandoli per nome, ma identificandoli attraverso il legame di parentela, socer e gener (Aen. VI 826-835). È stato messo l’accento sul fatto che Virgilio scelga di nominare i due protagonisti della guerra civile non per nome , ma per il legame che li unisce per amplificare la mostruosità della vicenda e Syme vi scorge un tono anti-cesariano. A ben vedere, forse il messaggio che Virgilio vorrebbe dare attraverso questo passo va al di là dell’interpretazione del singolo episodio: si potrebbe ipotizzare che i termini socer e gener, pur riferendosi a Cesare e Pompeo, vogliano simbolicamente alludere al fatto che la guerra di cui si sta parlando è una guerra civile, combattuta tra fratelli. Virgilio riconosce ad entrambi i combattenti uguali capacità militari e meriti, non meraviglia che egli possa fare questo e possa anche scegliere di porre Catone come giudice integro tra le anime dell’oltretomba (Aen. VIII 670): cambiati sono i tempi e l’applicazione della clementia Caesaris è stata accettata completamente da Augusto. E proprio alla clementia, che era stata ampiamente usata da Cesare nella guerra civile e da lui adottata come signum distintivo del suo nuovo modo di concepire la guerra, Virgilio si riferisce ai vv. 834-835:

Tuque prior, tu parce, genus qui ducis Olimpo,

Proice tela manu, sanguis meus!

(Verg. Aen. VI, vv.834-835)

Anche Augusto aveva posto il suo governo sotto il segno della clementia che aveva reso esplicita, nei confronti delle popolazioni straniere, nel Monumentum Ancyrarum.

Infine in Aen. VIII 680-681, come in molti altri luoghi della poesia augustea, di Cesare è rimasta solo l’accenno alla sua stella (patriumque…sidus) .

Come Virgilio, nemmeno Orazio nelle sue Odi fa mai menzione del Cesare dittatore ma parla più in generale del Iulium sidus, offuscando l’identità del dittatore in un impersonale alone di divinità: micat inter omnis/ Iulium sidus velut inter ignis/ luna minores, scrive il poeta in Carm. I 12, 46-48 e in Serm. I 3,5 ricorda il primo Cesare in quanto padre dell’altro, e assai più importante, Cesare che viene nominato al v. 4.

In Carm. I 2, 44 il poeta di Venosa immagina che Mercurio si sia incarnato in Ottaviano per vendicare l’uccisione di Cesare. Nessuna meraviglia: questa è la prima missione che racconterà lo stesso Ottaviano di aver compiuto nelle sue Res gestae. Ciò che stupisce è invece il fatto che, pur facendo riferimento all’uccisione di Cesare, i poeti augustei non accennano alle cause storiche che ad essa portarono, al massimo si addebita, come vedremo, la responsabilità ad un fato ineluttabile.

Solo in Serm. I 7, 33-35 si può scorgere un riferimento alla storia recente e Orazio riprende la battuta che aveva pronunciato Cesare in occasione dei Lupercali e di cui ci riferisce Svetonio: al popolo che lo acclamava re aveva risposto che egli era Caesar non Rex giocando sull’esistenza del cognome Rex; qui viene fatto il medesimo gioco di parole e Persio rivolgendosi a Bruto gli dirà … per magnos, Brute , deos te/ oro, qui reges consueris tollere, cur non/ hunc Regem iugulas? Operum hoc, mihi crede, tuorum est. Bruto che è solito far fuori i re deve togliere di mezzo uno appartenente alla famiglia Re.

Lo stesso atteggiamento che abbiamo riscontrato in Virgilio e Orazio lo troviamo anche negli altri poeti augustei, quali Ovidio, Tibullo, Properzio, Manilio: nessuno di loro parla del Cesare dittatore, del conquistatore delle Gallie, ma tutti preferiscono narrare dei prodigi avvenuti dopo la sua morte con chiari intenti adulatori nei confronti del figlio.

Tibullo in II 5, 71-78 descrive i prodigi che preannunziarono e accompagnarono la guerra civile e la morte di Cesare. Properzio in III 18, 34 ricorda l’apoteosi di Cesare che prese la via degli astri e in IV 6, 59-60 Cesare guarda la terra dall’astro Idalio, quello di Venere progenitrice della gens Iulia. Un breve accenno a fatti storici lo troviamo in III 11, 33-38, dove il poeta si riferisce alla guerra di Cesare contro l’Egitto e si rammarica per il fatto che Pompeo, ucciso a tradimento da Tolomeo, non poté celebrare il suo triplice trionfo in Africa, Spagna e Ponto: sarebbe stato meglio morire quando si ammalò a Napoli o sottomettersi al suocero Cesare. Tuttavia, a ben vedere questo non è un riferimento diretto a Cesare, ma Properzio parla principalmente di Pompeo.

Gli Astronomica di Manilio, anche se pubblicati sotto Tiberio, a buon diritto si possono considerare un prodotto dell’età augustea. È chiaro che per la natura dell’opera l’interesse del poeta sia principalmente nei confronti di Cesare come astro.

Fin dal proemio (I 9) troviamo un accenno a Cesare in quanto deus padre di Augusto, riferimento funzionale a metter in luce la natura divina di tutta la gens Iulia, che, discesa dal cielo, ad esso è destinata a tornare. Così in I 798-799, dopo una carrellata di illustri trapassati che ormai da tempo abitano il Paradiso della Via Lattea, Manilio esplicitamente afferma che la gens Iulia è destinata, di discendente in discendente, ad essere assunta in Cielo. In I 925-926 è ambiguo se sia Augusto a dover essere consegnato al cielo non appena abbia finito il suo compito sulla terra o Cesare che è stato consegnato al cielo dal figlio Augusto: sit pater invictus patriae, sit Roma sub illo,/ cumque deum caelo dederit non quaerat in orbe.

Al topos augusteo della ultio paterna Manilio fa riferimento in I 913 (perque patris pater Augustus vestigia vicit), e in IV 57-62, a proposito del modo illogico in cui spesso agisce il fato, racconta dell’assassinio di Cesare: egli, dopo aver composto i conflitti civili, mentre reggeva lo stato in pace, cadde vittima delle ferite che più volte gli erano state predette così che i fati potessero avere la meglio. Assai interessante questa interpretazione dell’assassinio di Cesare il quale emerge sconfitto non da uomini, ma dal fato, forza che nemmeno gli dei possono contrastare.

Tra tutti i poeti Augustei, quello in cui Cesare compare più frequentemente è Ovidio.

In Pont. I 1, 23- 26 il poeta ci fornisce un dato interessante per comprendere quale fosse il trattamento sotto il principato di Augusto dei personaggi politici della storia subito precedente. A Roma – come il poeta ci informa – venivano letti sia gli scritti di Antonio, sia quelli di Bruto; a buon diritto, dunque, Ovidio chiede ospitalità nell’Urbe per le sue epistole: a differenza di quelli, dice, saeva deos contra non tamen arma tuli.

Nella maggior parte dei luoghi ovidiani in cui compare, Cesare è citato poiché padre di Augusto o perché dio. Così in Pont. II 2, 84 Ovidio fa riferimento al tempio del divus Iulius che sorge vicino a quello di Castore e Polluce; in Am. III 8, 52 si fa un breve accenno al fatto che Cesare, come anche Quirino ed Ercole, abbia il suo tempio; in Fasti II 144 entrambi i Cesari sono divini (celestem fecit te pater ille patre).

I Fasti danno l’occasione ad Ovidio di far riferimento ad alcuni avvenimenti della storia recente così in IV 569-577 racconta la vendetta del numen paterno portata a buon fine da Augusto; in I 603-4 Cesare è ancor più che magnus, poiché vinse colui che per le sue imprese si era guadagnato quel nome; in III 155-166 Ovidio fa riferimento al cambiamento apportato da Giulio Cesare al calendario, ma anche in questo contesto il poeta esiliato non manca l’occasione di fare un tributo ad Augusto e Cesare, deus, è soprattutto tantae propaginis auctor; in III 697–710 a proposito del 15 marzo Ovidio dice che, nonostante egli stesse per tacere l’assassinio di Cesare, Vesta lo incoraggiò invece a ricordarlo dicendo che in realtà non fu il vero Cesare ad essere pugnalato, ma la sua ombra: l’uomo fu dalla dea portato in cielo. Ovidio coglie l’occasione per ricordare in che modo l’altro Cesare, ai suoi esordi, a Filippi vendicò la morte del padre uccidendo i suoi assassini.

A proposito di congiure, in Met. I 200-203 resta incerto quale sia il referente concreto dell’aggettivo Caesareo: il poeta potrebbe alludere anche qui alla congiura delle idi di marzo, oppure potrebbe riferirsi ad una ipotetica cospirazione (molte volte dallo stesso Augusto paventata) ai danni del nuovo Cesare. Questa ambiguità trova un precedente celebre in Virgilio che in Aen. I 286 , come si è già detto, usa per la prima volta Caesar creando una ambiguità che ha delle conseguenze su tutta l’interpretazione del passo.

Nelle Metamorfosi Ovidio dedica l’ultimo centinaio di versi del poema al racconto della trasformazione di Giulio Cesare in astro (Met. XV 745-870). Sono molto significativi sia l’estensione che egli riserva a questo racconto sia la posizione in cui lo colloca (subito prima del congedo finale).

E la lunga sequenza si apre con l’elencazione di alcune conquiste e vittorie ottenute da Cesare, che adesso è venerato come un dio nella sua città natale:

Hic tamen accessit delubris advena nostris:

745

Caesar in urbe sua deus est; quem Marte togaque

praecipuum non bella magis finita triumphis

resque domi gestae properataque gloria rerum

in sidus vertere novum stellamque comantem,

quam sua progenies; neque enim de Caesaris actis 750

ullum maius opus, quam quod pater exstitit huius:

scilicet aequoreos plus est domuisse Britannos

perque papyriferi septemflua flumina Nili

victrices egisse rates Numidasque rebelles

Cinyphiumque Iubam Mithridateisque tumentem

755

nominibus Pontum populo adiecisse Quirini

et multos meruisse, aliquos egisse triumphos,

quam tantum genuisse virum, quo praeside rerum

humano generi, superi, favistis abunde!

ne foret hic igitur mortali semine cretus,

760

ille deus faciendus erat;

(Met. XV 745-761)

Questo è l’unico riferimento alle imprese di Cesare che troviamo in tutta la poesia augustea. È interessante il modo in cui ad esse si accenna, e forse questo ci dice molto sul trattamento della figura di Cesare nell’età di Augusto. Tutte le imprese belliche e le conquiste fatte da Cesare in vita non sono, dice Ovidio con intento non celatamente adulatorio e allo stesso tempo assai iperbolico, ciò che guadagnarono il cielo all’ormai divus Iulius: esse scompaiono di fronte al merito più grande, ovvero la paternità di un tale figlio il quale, come si dirà più avanti (vv. 852-854), nonostante rifiuti per modestia un simile elogio, ha superato con le sue gesta quelle del padre.

Dal verso 761 inizia il racconto della morte di Cesare, ma anziché narrare in che modo si svolsero i fatti a Roma, Ovidio preferisce descrivere la reazione degli dei, prima tra tutti Venere, Aeneae genetrix.

[...] quod ut aurea vidit

Aeneae genetrix, vidit quoque triste parari

pontifici letum et coniurata arma moveri,

palluit et cunctis, ut cuique erat obvia, divis

'adspice,' dicebat 'quanta mihi mole parentur

765

insidiae, quantaque caput cum fraude petatur,

quod de Dardanio solum mihi restat Iulo.

solane semper ero iustis exercita curis?

(Met. XV 761-768)

La dea cercò di evitare che il discendente della sua stirpe venisse così barbaramente ucciso, ma, nonostante fosse riuscita a commuovere gli dei, essi nulla poterono fare contro il destino di Cesare, che era stato già inequivocabilmente deciso dalle Parche.

[...] in me acui sceleratos cernitis enses?

quos prohibete, precor, facinusque repellite neve

caede sacerdotis flammas exstinguite Vestae!'

Talia nequiquam toto Venus anxia caelo

verba iacit superosque movet, qui rumpere quamquam 780

ferrea non possunt veterum decreta sororum,

signa tamen luctus dant haut incerta futuri;

arma ferunt inter nigras crepitantia nubes

terribilesque tubas auditaque cornua caelo

praemonuisse nefas; solis quoque tristis imago

785

lurida sollicitis praebebat lumina terris;

[…]

non tamen insidias venturaque vincere fata

praemonitus potuere deum, strictique feruntur

800

in templum gladii: neque enim locus ullus in urbe

ad facinus diramque placet nisi curia caedem.

(Met. XV 776-786, 799-802)

Contro i decreti delle tre sorelle nessuno, neanche gli dei, può porre un veto. Il cielo poté soltanto mandare segnali di lutto per preannunciare ciò che stava per compiersi. Questo passo di Ovidio è l’unica fonte antica che narri i prodigi che anticiparono e non seguirono la morte di Cesare. Esso è funzionale a rimarcare l’ineluttabilità del fato: nonostante gli avvisi inviati dagli dei, i presagi negativi e lo sconvolgimento generale che colpì Roma alla vigilia dell’uccisione di Cesare, niente poté evitare che si compisse quell’orribile nefas che era stabilito dal fatum. Ovidio sottolinea con insistenza il fatto che l’uccisione di Cesare fosse inevitabile e che avesse uno scopo ben preciso: quello di preparare la via al suo successore. Con queste parole, infatti, Giove parla a Venere:

[…] 'sola insuperabile fatum,

nata, movere paras? intres licet ipsa sororum

tecta trium: cernes illic molimine vasto

ex aere et solido rerum tabularia ferro,

810

quae neque concursum caeli neque fulminis iram

nec metuunt ullas tuta atque aeterna ruinas;

invenies illic incisa adamante perenni

fata tui generis: legi ipse animoque notavi

et referam, ne sis etiamnum ignara futuri.

815

hic sua conplevit, pro quo, Cytherea, laboras,

tempora, perfectis, quos terrae debuit, annis.

ut deus accedat caelo templisque colatur,

tu facies natusque suus, qui nominis heres

inpositum feret unus onus caesique parentis

820

nos in bella suos fortissimus ultor habebit.

(Met. XV 807-821)

È chiaro dunque che tutto l’episodio narrato da Ovidio vada nella stessa direzione delle altre fonti augustee. Anche qui, come in Manilio, la morte di Giulio Cesare appare determinata unicamente dal fato; nessuna responsabilità hanno quindi né Cesare, né gli dei. Simile interpretazione dell’accaduto dà anche Nicolao di Damasco, che attribuisce una parte della responsabilità dell’accaduto alla tÚch.

È probabile che questa sia l’interpretazione ufficiale del tirannicidio che veniva data dalla pubblicistica augustea: essere il diretto discendente di un dittatore ucciso da notabili di Roma che vedevano in lui una minaccia per la repubblica aveva ben altro peso che essere figlio di un padre ucciso perché il fato aveva così decretato.

Credo sia chiaro a questo punto che il problema del trattamento di Giulio Cesare in età Augustea non consiste tanto nel fatto che se ne parli o meno, ma nel modo in cui ciò viene fatto. Il Cesare dittatore è quasi completamente rimosso, a parte qualche sporadico accenno alle sue imprese, che tuttavia sono dichiarate inferiori a quelle compiute dal figlio, e l’uomo Cesare ha lasciato il posto al divus Iulius un astro che ha il duplice merito di avere per figlio Augusto e di conferire al figlio una ascendenza divina. Insomma il figlio ha oscurato del tutto la memoria reale del padre e ben poco rimane della consistenza storica di Cesare che viene annebbiata dall’alone di divinità che la sua evocazione porta con sé.

Se è dunque inesatto affermare che si riscontra una generale assenza di Cesare nelle opere letterarie di età augustea, è altrettanto errato enfatizzarne la sua presenza.

Bisognerebbe fare piuttosto una distinzione tra il reale personaggio storico, del quale ben poco si parla, e l’incon