135716866 Arnold Hauser Storia Sociale Dell Arte Vol 4

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da Storia sociale dell’arte di Arnold Hauser Storia dell’arte Einaudi 1

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da Storia socialedell’arte

di Arnold Hauser

Storia dell’arte Einaudi 1

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Edizione di riferimento:Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Volume ter-zo. Rococò Neoclassicismo Romanticismo e Volumequarto. Arte moderna e contemporanea, trad. it. diAnna Bovero, Einaudi, Torino 1956 e 1987Titolo originale:Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C. H. Beck,München

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Indice

Storia dell’arte Einaudi 3

ROCOCÒ NEOCLASSICISMO ROMANTICISMO

VI. Il Romanticismo in Germania e nell’Europa occidentale 4

ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA

I. La generazione del 1830 76

II. Il Secondo Impero 141

III. Il romanzo sociale in Inghilterra e in Russia 193

IV. L’impressionismo 261

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Capitolo sesto

Il Romanticismo in Germania e nell’Europa occidentale

Il liberalismo ottocentesco identificò il romanticismocon la Restaurazione e la reazione. Questa connessione,anche se non mancava di qualche legittimità, specie perquel che riguarda la Germania, finí per provocare, ingenerale, un’errata visione storica. Questa poté essererettificata soltanto quando si cominciò a distinguere trail romanticismo tedesco e quello dell’Europa occidenta-le, riconducendo il primo a tendenze reazionarie, ilsecondo a tendenze progressiste. Il quadro che nederivò, benché ancora semplicistico per molti aspetti,risultò assai piú vicino al vero, poiché, politicamente, nél’una né l’altra forma di romanticismo furono chiare ecoerenti. Piú tardi infine, con piú aderenza alla realtà,si distinsero nel romanticismo tedesco, come in quellofrancese e in quello inglese, una fase primitiva e una piútarda, una prima e una seconda generazione. Si constatòche in Germania e nell’Occidente europeo lo svilupposeguiva direzioni diverse e che il romanticismo tedescoda inizi rivoluzionari si svolgeva poi in senso reaziona-rio, mentre quello dell’Europa occidentale da posizionilegittimistiche e conservatrici si accostava progressiva-mente al liberalismo. Il quadro era esatto, ma piuttostoinfruttuoso per una determinazione del concetto diromanticismo. Infatti il movimento romantico ebbe que-sto di caratteristico, che in sé non rappresentava una

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ideologia rivoluzionaria o conservatrice, progressista oreazionaria, ma all’una o all’altra di queste posizionigiungeva per una via irreale, irrazionale, non dialettica.La passione rivoluzionaria restava nel romanticismoqualcosa di estraneo al mondo, esattamente come l’op-posto atteggiamento conservatore; l’entusiasmo per «laRivoluzione, Fichte e il Wilhelm Meister di Goethe» erain esso atteggiamento tanto ingenuo, tanto lontano dallaconoscenza delle vere forze motrici dell’evoluzione,quanto il fanatismo per la Chiesa e il Trono, la cavalle-ria e il feudalesimo. Dappertutto vi furono romanticirivoluzionari e altri devoti all’antico regime e allaRestaurazione. Danton e Robespierre furono astrattidogmatici quanto Chateaubriand e De Maistre, Görrese Adam Müller. Friedrich Schlegel fu un romantico dagiovane, quando si esaltava per Fichte, il Wilhelm Mei-ster e la Rivoluzione, come da vecchio, quando applau-diva Metternich e la Santa Alleanza. Quanto a Metter-nich, non era un romantico, benché tradizionalista econservatore; egli lasciò ai letterati il compito di elabo-rare il mito dello storicismo, del legittimismo e del cle-ricalismo. È un realista chi sa quando lotta per i propriinteressi e quando fa concessioni agli interessi altrui; edè un dialettico chi riconosce che ogni situazione storicacomporta un complesso di motivi e di impegni che nonsi possono eludere. Il romantico, pur con tutta la suacomprensione del passato, ignora la storicità e la dialet-tica del presente; non capisce ch’esso sta fra passato efuturo e presenta un insolubile contrasto di elementi sta-tici e dinamici.

La definizione di Goethe per cui il romanticismoincarna il principio della malattia – un giudizio che, cosícom’era inteso, difficilmente era accettabile – alla lucedella recente psicologia acquista un senso nuovo e rice-ve una nuova conferma. Infatti, se effettivamente ilromanticismo vede solo un lato di una situazione piena

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di tensioni e di contrasti, se non considera che un solofattore della dialettica storica, accentuandolo a spesedell’altro, se infine mostra una tale unilateralità, unareazione cosí esagerata, una mancanza di equilibrio psi-chico, si ha ragione di chiamarlo «morboso». Infatti,perché esagerare e svisare le cose, se non ne siamo tur-bati, impauriti? «Things and actions are what they are,and the consequences of them will be what they will be;why then should we wish to be deceived?» [«Cose eazioni son quel che sono, e le loro conseguenze sarannoquel che saranno; a che dunque volersi illudere?»],domanda il vescovo Butler, caratterizzando cosí nelmiglior modo il sereno e «sano» realismo settecentesco,alieno da ogni illusione1. Da questo punto di vista ilRomanticismo appare sempre una menzogna, un autoin-ganno che, come dice Nietzsche a proposito di Wagner,«non vuol sentire i contrasti come contrasti» e affermaa gran voce proprio quello di cui dubita di piú. La fuganel passato non è la sola forma dell’irrealismo e dell’il-lusionismo romantico; c’è anche una fuga nel futuro,nell’utopia. Quello a cui si aggrappa il romantico è, inultima analisi, senza importanza; quel che importa è lasua paura del presente, dell’imminente cataclisma.

Il romanticismo improntò di sé tutta un’epoca, e neebbe chiara coscienza2. Esso costituí una delle piúimportanti svolte nella storia dello spirito occidentale,e di questa sua funzione storica fu pienamente consa-pevole. Dall’età gotica in poi lo sviluppo della sensibi-lità mai aveva subito impulso piú energico, e il dirittodell’artista a seguire la voce del suo sentimento e dellasua natura non era mai stato accentuato con tale riso-lutezza. Il razionalismo, che a cominciare dal Rinasci-mento aveva senza soste guadagnato terreno, raggiun-gendo nell’età dei lumi una validità universale in tuttoil mondo civile, conobbe il piú grave scacco della suastoria. Dopo la fine del trascendentalismo e del tradi-

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zionalismo medievale mai era accaduto che si parlassecon tanto disprezzo della ragione, della vigile e misu-rata intelligenza, della volontà e della facoltà di domi-narsi. «Those who restrain desire do so because theirsis weak enough to be restrained» [«Coloro che frena-no il desiderio, cosí fanno perché il loro è abbastanzafiacco per essere frenato»], dice persino Blake, che purecertamente non approvava lo sfrenato sentimentalismodi un Wordsworth. Se come principio della scienza edella pratica il razionalismo ha potuto presto riaversidagli attacchi romantici, l’arte occidentale è però rima-sta «romantica». Il romanticismo non è stato soltantoun generale movimento europeo, che l’una dopo l’altraha conquistato tutte le nazioni, creando infine quell’u-niversale linguaggio letterario, comprensibile in Russiae in Polonia come in Francia e in Inghilterra: al pari delnaturalismo dell’età gotica e del classicismo del Rina-scimento, esso si è rivelato uno di quei movimenti cherimangono come fattori costanti dell’evoluzione stori-ca. Effettivamente non c’è prodotto dell’arte moderna,né impulso sentimentale, né impressione o stato d’ani-mo dell’uomo della nostra epoca, che non debba la suasottigliezza e ricchezza di sfumature a quell’eccitabilitàche nel romanticismo ha la sua prima origine. E adesso risalgono tutta l’esuberanza, l’anarchia e la vio-lenza dell’arte moderna, il suo ebbro e balbettante liri-smo, l’esibizionismo senza freno né riguardo. E questoatteggiamento soggettivo, egocentrico, è diventato pernoi cosí naturale, cosí inevitabile, che non possiamoneppure esporre un astratto sviluppo di idee senza par-lare delle nostre sensazioni3. La passione intellettuale,il pathos della ragione, la fecondità artistica del razio-nalismo sono cosí completamente caduti in oblio, cheanche l’arte classica la possiamo intendere soltantocome espressione di un sentimento romantico. «Seulsles romantiques savent lire les ouvrages classiques,

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parce qu’ils les lisent comme ils ont été ecrits, roman-tiquement» [«Solo i romantici san leggere le opere clas-siche, perché le leggono come sono state scritte, roman-ticamente»], dice Marcel Proust4.

Artisticamente tutto l’Ottocento dipende dal roman-ticismo, ma questo a sua volta era un prodotto del Set-tecento, e non aveva mai perduto la coscienza del suocarattere di transizione e della sua problematica posi-zione storica. L’Occidente conobbe molte altre crisi,analoghe e piú gravi, ma non ebbe mai cosí vivo il sensodi trovarsi a una svolta della storia. Certo non era laprima volta che una generazione assumeva un atteggia-mento critico di fronte al proprio tempo e rifiutava leforme tradizionali della cultura, perché in esse non pote-va esprimere il proprio mondo spirituale. Anche in epo-che anteriori era accaduto che si avesse il senso di uninvecchiamento e si desiderasse un generale rinnova-mento, ma nessuno aveva mai pensato di porre in dub-bio il significato e la ragion d’essere della propria civiltà,chiedendosi se veramente si potesse giustificare la par-ticolare fisionomia e se rappresentasse un elementonecessario nel complesso della civiltà umana. Il sensoromantico di un risorgimento non era certo cosa nuova;la Rinascita l’aveva ben conosciuto e già il Medioevo erastato agitato da pensieri di rinnovamento e fantasie diresurrezione, il cui oggetto era l’antica Roma. Ma nes-suna generazione ebbe mai cosí forte il senso di essereerede e discendente, né cosí netto il desiderio di restau-rare e richiamare a nuova vita tempi remoti e una per-duta civiltà. Il romanticismo cerca continuamente nellastoria reminiscenze e analogie e trova il piú forte stimoloin ideali, che crede già attuati nel passato. Ma il suo rap-porto con il Medioevo è alquanto diverso da quello delneoclassicismo con l’antichità: il neoclassicismo vedenei Greci e nei Romani semplicemente un esempio, ilromanticismo invece conserva sempre il senso del «déjà

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vécu». Esso ricorda le età remote come una preesisten-za. Questo sentimento per altro non prova affatto cheromanticismo e Medioevo fossero piú affini tra loro diquanto fossero antichità e neoclassicismo, anzi prova ilcontrario. «Quando un benedettino studiava il Medioe-vo, – si dice in una recente, acuta analisi del romantici-smo, – non si domandava a che cosa questo gli servissee se nel Medioevo si vivesse piú felici e piú vicini a Dio.Poiché egli stesso si trovava ancora nell’ambito di quel-la fede e di quell’organizzazione ecclesiastica fonda-mentali per il Medioevo, di fronte alla religione potevaesser miglior critico di un romantico, che si trovava avivere in un secolo rivoluzionario, in cui ogni fede erascossa e tutto posto in discussione»5. Non si può disco-noscere che nell’esperienza storica dei romantici si espri-ma un morboso timore del presente e un tentativo dievasione. Ma non ci fu mai psicosi piú feconda. Ad essai romantici debbono la loro sottigliezza e chiaroveggen-za di fronte alla storia, la loro sensibilità nel cogliere lepiú remote analogie, nel tentare le piú difficili inter-pretazioni. Senza questa iperestesia, il romanticismonon sarebbe riuscito a stabilire i grandi nessi nella sto-ria dello spirito, a definire la civiltà moderna di fronteall’antica, a riconoscere nel cristianesimo la gran cesuradella storia occidentale e a scoprire il comune carattere«romantico» delle civiltà derivate dal cristianesimo,individualistiche, riflesse, piene di problemi.

Senza la coscienza del proprio tempo cosí viva neiromantici, senza il continuo problema del presente chedomina il loro pensiero, tutto lo storicismo dell’Otto-cento sarebbe inconcepibile, e con esso una delle piúprofonde rivoluzioni nella storia dello spirito. Finoall’età romantica, nonostante Eraclito e i sofisti, il nomi-nalismo scolastico e il naturalismo rinascimentale, ildinamismo dell’economia capitalistica e i progressi dellacritica storica nel Settecento, l’Occidente ebbe del

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mondo un’immagine sostanzialmente statica, parmeni-dea, astorica. I fattori determinanti della civiltà umana,i principî razionali dell’ordinamento naturale e sopran-naturale, le leggi morali e logiche, l’idea della verità edel diritto, il destino dell’uomo e il fine delle istituzio-ni sociali furono, in fondo, concepiti come qualcosa diessenzialmente chiaro e immutabile nel suo significato,eterne entelechie, o idee innate. Rispetto alla stabilità diquesti principî, ogni mutamento, ogni sviluppo e diffe-renziazione apparivano irrilevanti ed effimeri; tutto quelche si svolgeva nei tempi storici pareva non toccare chela superficie delle cose. Solo a partire dalla Rivoluzionee dall’età romantica si cominciò a sentire la natura del-l’uomo e della società come essenzialmente dinamica ein continua evoluzione. La concezione che noi e lanostra civiltà siamo coinvolti in un eterno fluire e in unalotta senza fine, il pensiero che la nostra vita spiritualeha il carattere transitorio di un processo, è una scoper-ta del romanticismo e ne costituisce il piú valido con-tributo al pensiero del nostro tempo.

È noto che il «senso storico» già nell’età preroman-tica non solo era vivo e vigile, ma agiva come una forzamotrice dell’evoluzione. E l’illuminismo, che produssestorici quali Montesquieu, Hume, Gibbon, Vico,Winckelmann e Herder, non solo oppose alla rivelazio-ne l’origine storica dei valori civili, ma anche presentila relatività di questi stessi valori. Era certo un pensie-ro corrente per l’estetica del tempo che ci fossero piú tipiequivalenti di bellezza e che il concetto stesso di bellezzafosse variabile come variabili erano gli aspetti della vita,insomma che fosse vero che «un dio cinese ha il ventregrosso come quello di un mandarino»6. Tuttavia la con-cezione storica dell’illuminismo rimane legata all’ideabase che nella storia si dispieghi una ragione sempreidentica a se stessa, in un processo che tende a una metasicura, discernibile fin dagli inizi. Il Settecento dunque

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non fu antistorico, perché indifferente alla storia o igna-ro del carattere storico della civiltà umana, ma perchéfraintese la natura del divenire, immaginandolo come unprocesso continuo e rettilineo7. Friedrich Schlegel è ilprimo a riconoscere che i rapporti storici non sono dinatura logica, e Novalis il primo a sottolineare che «lafilosofia è radicalmente antistorica». Ma soprattutto laconsapevolezza che esiste qualcosa come un destino sto-rico e che «noi siamo quelli che siamo, perché guardia-mo indietro a un tal passato», è una conquista dell’etàromantica. Pensieri di questa specie e lo storicismo cheessi riflettono erano lontanissimi dall’illuminismo. L’i-dea che la natura dello spirito umano, delle istituzionipolitiche, del diritto, del linguaggio, della religione e del-l’arte si possa comprendere solo attraverso la loro sto-ria e che il processo storico rappresenti la sfera in cui talicreazioni appaiono nel modo piú diretto, piú puro e piúreale, sarebbe stata semplicemente inconcepibile primadel romanticismo. Ma dove menasse lo storicismo risul-ta forse nel modo piú chiaro dalla formula acutamenteparadossale di Ortega y Gasset: «L’uomo non ha unanatura, ha solo una storia»8. Sulle prime non suona inco-raggiante; tuttavia anche qui, come sempre nel movi-mento romantico, si tratta di un atteggiamento ambi-valente: ottimismo e pessimismo, attivismo e fatalismopossono ugualmente richiamarvisi.

Insieme con l’arte ermeneutica, la prontezza a coglie-re i nessi storici, la sensibilità per tutto ciò che nella sto-ria è problematico e suscettibile di diversa valutazione,abbiamo ereditato dal romanticismo anche la misticadel concetto, la sua tendenza a personificare e mitolo-gizzare, le forze storiche; in altre parole, l’idea che ifenomeni storici non siano altro che le funzioni, le mani-festazioni e le incarnazioni di principî autonomi. Perquesto modo di pensare è stata escogitata la formulamolto calzante ed espressiva di «logica emanatistica»9

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con la quale si coglie non solo l’astratta concezione sto-rica, ma anche l’inconscia metafisica spesso implicita inun tal metodo. Secondo questa logica la storia apparecome una sfera dominata da potenze anonime, un sub-strato di idee sublimi che solo incompiutamente si espri-mono nei singoli fenomeni storici. E questa metafisicaplatonica si manifesta non solo nelle teorie romanticheormai superate dello spirito popolare, dell’epos popola-re, delle letterature nazionali e dell’arte cristiana, maancora nel concetto dell’«intento artistico» (Kunstwol-len). Infatti anche Riegl è in certa misura ancora affa-scinato dalla mistica del concetto e dalla visione pneu-matica della storia propria del romanticismo. Egli imma-gina l’intento artistico di un’epoca come una personache agisce e realizza il suo proposito spesso contro la piúenergica opposizione, e talvolta riesce a farsi stradasenza che i suoi esponenti ne abbiano coscienza, anziaddirittura contro la loro volontà. Negli scritti di Rieglgli stili ci appaiono come individui a sé stanti, inconfon-dibili e incomparabili, che vivono, muoiono e, soccom-bendo, vengono sostituiti da altri stili ugualmente indi-viduali. La storia dell’arte, come, coesistenza e succes-sione di tali fenomeni stilistici che richiedono di esseregiudicati ognuno secondo una loro propria misura, ehanno il loro valore nella loro stessa individualità, è incerto modo il piú puro esempio della concezione roman-tica della storia, che personifica le forze storiche. Inrealtà le creazioni piú importanti e piú vaste dello spi-rito umano non risultano quasi mai da una simile evo-luzione, che fin dall’inizio procede rettilinea verso unfine prestabilito. L’epos omerico e la tragedia attica, l’ar-chitettura gotica e il teatro shakespeariano non sonocerto l’esplicazione di un intento artistico netto e coe-rente, ma il casuale prodotto di esigenze specifiche,determinate dal tempo e dal luogo, e di una serie dimezzi preesistenti, spesso sostanzialmente estranei e

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inadeguati. Sono, in altre parole, il prodotto di gradua-li innovazioni tecniche che spesso possono deviare daldisegno originario, e altrettanto spesso avvicinarvisi, dieffimeri motivi occasionali, di trovate improvvise, d’e-sperienze personali che a volte non hanno alcun rapportocon il vero compito dell’artista. La teoria dell’«intentoartistico» ipostatizza come idea determinante il risulta-to ultimo di questa evoluzione, che in sé è tutta discon-tinua ed eterogenea. Ma anche la teoria della «storia del-l’arte senza nomi», proprio perché elimina le persona-lità reali come fattori determinanti dell’evoluzione, nonè che una forma di quella metafisica che conferisce alconcetto una realtà e personifica le forze storiche. Inessa la storia dell’arte diventa un processo che si svolgesecondo un suo intimo principio vitale e non tollera l’af-fermarsi dell’autonoma personalità artistica, come unorganismo animale non tollererebbe l’emancipazione deisingoli organi. A posizioni analoghe si può giungere infi-ne anche col materialismo storico. Se con esso sempli-cemente si intende che nelle varie creazioni dello spiri-to non si esprimono se non i caratteri propri dei mezzidi produzione di ogni epoca e si vuol significare che larealtà economica esercita nella storia un dominio nonmeno assoluto di quello dell’«intento artistico» odell’«immanente legge formale» dell’idealismo, è chia-ro che in questo caso non si fa che romanticizzare e sem-plificare il processo storico, in realtà assai piú comples-so; in altre parole si riduce anche la concezione mate-rialistica della storia a una variante della logica emana-tistica. Il vero senso del materialismo storico, e in que-sto esso costituisce il progresso piú significativo dellastoriografia dal romanticismo in poi, sta piuttosto nel-l’intuizione che la storia non nasce da principî formali,da idee, da entità, cioè non da sostanze che nel proces-so storico si dispieghino attraverso semplici «modifica-zioni» della loro natura fondamentalmente astorica; ma

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che invece lo sviluppo storico costituisce un processodialettico in cui ogni fattore è fluido, soggetto a conti-nue trasformazioni. In esso nulla è statico, nulla eter-namente valido e neppure volto a un effetto unilatera-le, ma tutti i fattori, materiali e spirituali, ideali ed eco-nomici, sono inscindibilmente interdipendenti, e, perquanto lontano si risalga nel tempo, non è dato trovaresituazione storicamente definibile che già non risulti daun tal reciproco influsso di fattori. Anche l’economia piúprimitiva è già organizzata; ciò non toglie che la nostraanalisi debba partire dalle premesse materiali che – a dif-ferenza di quanto avviene per le forme dell’organizza-zione intellettuale – sono dati autonomi e comprensibi-li in sé.

Legato a un orientamento completamente nuovodella civiltà, lo storicismo è il risultato di un profondomutamento dell’esistenza e risponde al sovvertimentoche ha scosso le basi della società. La rivoluzione poli-tica aveva abolito le antiche barriere fra le classi, larivoluzione economica aveva reso la vita di gran lungapiú instabile. Il romanticismo fu l’ideologia della nuovasocietà ed espresse l’animo di una generazione che noncredeva piú a valori assoluti, e non avrebbe ormai accet-tato alcun valore senza ricordarsi della sua relatività, delsuo limite storico. Questa generazione vedeva tutto lega-to a premesse storiche poiché si trovava a vivere tra iltramonto dell’antica civiltà e la nascita della nuova e diquesto trapasso storico era partecipe come del suo pro-prio destino. Cosí profonda era nell’epoca romantica laconsapevolezza della storicità in tutta la vita sociale, cheanche i ceti conservatori, quando vollero dare un fon-damento ai loro privilegi, seppero addurre ormai soloargomenti storici e per sostenere le loro pretese nonpoterono che vantare antiche, profonde radici nella sto-ria della civiltà nazionale. Ma, contrariamente a quan-to piú volte è stato detto, la visione storicistica non fu

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creata dai conservatori; questi non fecero che appro-priarsela svolgendola poi in un senso tutto particolare,opposto a quello originario. La borghesia progressistavedeva nell’origine storica delle istituzioni sociali unaprova contro il loro valore assoluto; i ceti conservatori,invece, che per fondare i loro privilegi non potevano cheappellarsi ai «diritti storici», all’antichità e alla priorità,diedero allo storicismo un nuovo senso: velarono il con-trasto tra storicità e validità sovratemporale, ma in cam-bio istituirono una sorta di opposizione fra il prodottodella evoluzione storica, cresciuto e affermatosi lenta-mente, e l’atto di volontà spontaneo, razionale, rifor-matore. In questo modo all’antica opposizione tra iltempo e l’eterno, la storia e l’assoluto, si sostituiva quel-la tra il «divenire organico» e l’arbitrio individuale.

La storia diventa il rifugio di tutti gli elementi inrotta col presente, minacciati nella loro esistenza mate-riale o spirituale; e prima di tutti degli intellettuali, cheora non solo in Germania, ma anche nei paesi dell’Oc-cidente europeo si sentono frustrati nelle loro speranzee defraudati dei loro diritti. L’esclusione da ogni effi-cacia politica, che finora era stata propria dell’intellet-tuale tedesco, ora diviene sorte comune degli intellet-tuali anche nell’Occidente. L’illuminismo e la Rivolu-zione avevano incoraggiato l’individuo a speranze smi-surate; essi sembravano garantire l’illimitato dominiodella ragione, e l’assoluta autorità dei poeti e dei pen-satori. Nel Settecento gli scrittori erano le guide spiri-tuali dell’Occidente; costituivano l’elemento dinamicoche dava vita alle tendenze riformatrici e incarnavanoquell’ideale della personalità a cui tendevano i ceti pro-gressisti. Le cose cambiarono con il concludersi dellaRivoluzione. Ad essi fu imputata di volta in volta laresponsabilità ora del troppo ora del troppo poco che laRivoluzione aveva potuto cambiare, e in questo tempodi ristagno e di confusione non poterono conservare il

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loro prestigio. La soddisfazione morale dei «filosofi» set-tecenteschi rimase loro ignota, anche se erano d’accor-do con la reazione e la servivano lealmente. Ma i piú traloro si vedevano completamente esautorati e si sentiva-no superflui. Cosí si volsero al passato, in cui cercava-no l’adempimento dei loro desideri e dei loro sogni, e dacui eliminavano ogni tensione fra idea e realtà, io emondo, individuo e società. «Nelle sofferenze della vitaha radice il romanticismo, e cosí si troverà tanto piúromantico ed elegiaco un popolo, quanto piú infelice èil suo stato», dice un critico liberale del romanticismotedesco10. I tedeschi erano certo il piú infelice popolod’Europa; ma dopo la Rivoluzione ben presto nessunpopolo dell’Occidente, o almeno gli intellettuali di nes-sun popolo poterono sentirsi protetti e sicuri nel propriopaese. E proprio il senso dell’esilio e della solitudine ful’esperienza cruciale della nuova generazione, che neebbe cosí determinata in modo durevole tutta la visio-ne del mondo. Tale senso di solitudine assunse innu-merevoli forme, e trovò la sua espressione in tutta unaserie di tentativi d’evasione, dei quali il ritorno al pas-sato fu il piú tipico. La fuga nell’utopia e nella favola,nell’inconscio e nell’immaginario, nel sinistro e nelmisterioso, il volgersi all’infanzia e alla natura, al sognoe alla follia, non erano che forme mascherate e piú omeno sublimate di uno stesso sentimento, della medesi-ma aspirazione all’irresponsabilità e all’assenza del dolo-re; tentativi cioè di evasione in quel caos e in quell’a-narchia contro cui il classicismo del Sei e del Settecen-to aveva combattuto ora con tono aspro e preoccupato,ora con spirito e con grazia, ma sempre con la stessa riso-lutezza. Il classicista si sentiva signore della realtà; con-sentiva a lasciarsi imporre delle regole, perché egli sape-va imporle a se stesso e credeva che la vita potesse esse-re regolata. Il romantico invece respingeva ogni vinco-lo esteriore, era incapace di impegnarsi e si sentiva iner-

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me in balia della soverchiante realtà, che perciò spre-giava e, a un tempo, divinizzava. Di fronte ad essa sicomportava con prepotenza oppure le si abbandonavaciecamente e senza resistenza, ma restava inesorabil-mente conscio della propria inferiorità.

Ogni volta che i romantici analizzano la loro visionedell’arte e della vita, s’insinua nelle loro frasi la parolanostalgia o l’idea dell’esilio. Novalis definisce la filoso-fia come «nostalgia», come «l’ansia, dovunque, di esse-re a casa», e la favola come un sogno «di quel paesenatio che è dappertutto e in nessun luogo». In Schilleregli esalta «il senso della patria che non è di questaterra» e Schiller a sua volta chiama i romantici «esuli,che anelano alla patria». Perciò essi parlano tanto divagabondaggio senza meta né fine, del «fiore azzurro»che è irraggiungibile e tale deve restare, della solitudi-ne che si cerca e si fugge, dell’infinito che è tutto e nulla.«Mon cœur désire tout, il veut tout, il contient tout.Que mettre à la place de cet infini qu’exige ma pensée?»[«Il mio cuore desidera tutto, vuole tutto, contienetutto. Che cosa sostituire a quell’infinito che il mio pen-siero esige?»] si dice nell’Obermann di Senancour. Maè evidente che quel «tout» non contiene nulla, equell’«infini» non si trova in nessun luogo. Nostalgia eamor di terra lontana: ecco i sentimenti che si conten-dono l’anima romantica; essa disprezza ciò che è vicino,soffre del suo isolamento fra gli uomini, ma li evita ecerca assiduamente quel che è lontano e ignoto. Soffreperché estraniata dal mondo, ma afferma e vuole que-sta sua condizione. Per Novalis la poesia romantica èquesto: «l’arte di suscitare un piacevole stupore, di fareun oggetto strano, e pure noto e attraente»; per luitutto diventa romantico e poetico «se lo si allontana»,tutto può diventarlo se «si dà al consueto un aspettomisterioso, al noto la dignità dell’ignoto, al finito unsenso infinito». La «dignità dell’ignoto»: ancora una

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generazione prima, anzi ancora pochi anni prima, qualeuomo ragionevole avrebbe detto una simile assurdità? Siparlava della dignità della ragione, della conoscenza, delbuon senso, del saggio e freddo realismo, ma la –«dignità dell’ignoto» a chi sarebbe mai venuta inmente? L’ignoto, si voleva domarlo e renderlo inoffen-sivo; esaltarlo ed elevarlo al di sopra di sé sarebbe statoun suicidio intellettuale, un’autodistruzione. Ma Nova-lis non si limita a dare una definizione di ciò che èromantico; suggerisce anche come essere romantici, per-ché al romantico non basta esser tale, ma del romanti-cismo egli fa una meta e un programma per la vita.Oltre che ritrarla in modo romantico, egli la vuole adat-tare all’arte, cullandosi nell’illusione di una utopisticaesistenza tutta estetica. Questo significa anzitutto ren-dere la vita piú semplice e omogenea, liberarla dalla tor-mentosa dialettica di ogni realtà storica, eliminarne lecontraddizioni insolubili e indebolire le resistenze dellaragione ai desideri irreali e alle fantasie. È vero cheogni opera d’arte è una visione, una trasfigurazionemitica della realtà, dove l’utopia si sostituisce alla vita;ma nel romanticismo questo carattere d’utopia si espri-me piú puro e senza contrasti che altrove.

Il concetto d’«ironia romantica» si fonda essenzial-mente sul riconoscimento che l’arte non è che autosug-gestione e autoinganno, e che si ha sempre chiaracoscienza della sua natura fittizia. La definizione del-l’arte come «consapevole illusione»11 risale al romanti-cismo e a idee come quella espressa da Coleridge di una«willing suspension of disbelief» [«Volontaria sospen-sione dell’incredulità»]12. Ma la scelta consapevole cheè alla base di tale atteggiamento è ancora un tratto clas-sico e razionalistico, che il romanticismo va cancellan-do sostituendovi l’illusione inconscia, lo stordimento el’ebbrezza dei sensi, la rinunzia all’ironia e alla critica.Si è paragonato l’effetto del film a quello dell’alcool e

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dell’oppio, descrivendo la folla dei cinematografi cheesce vacillando nel buio della notte, come degli ubria-chi, storditi dalle droghe, che non sanno né voglionorendersi conto del loro stato. Ma quest’effetto non èesclusivo del film; risale per l’appunto all’arte romanti-ca. Anche il classicismo naturalmente voleva essere sug-gestivo e suscitare nel lettore o nello spettatore senti-menti e illusioni – come del resto ogni arte – ma nellesue immagini c’era sempre un esempio istruttivo, un’a-nalogia illuminante, un simbolo ricco di riferimenti, e adesse il lettore o lo spettatore si trovavano a reagire noncon lacrime, estasi o deliqui, ma con riflessioni, giudizie una piú profonda comprensione dell’uomo e del suodestino.

Il periodo postrivoluzionario fu un tempo di genera-le delusione. Per chi non era profondamente legato alleidee rivoluzionarie la delusione cominciò già con la Con-venzione; per chi piú le amava col Termidoro. Ai primia poco a poco venne in odio tutto ciò che ricordava laRivoluzione; per gli altri, ogni nuovo passo confermavail tradimento dei loro ex alleati. Ma fu un dolorosorisveglio anche per chi fin dal principio aveva subitocome un incubo il sogno rivoluzionario. A tutti il pre-sente appariva ormai squallido e vuoto. Gli intellettua-li si isolavano sempre piú dal resto della società e gliingegni piú fecondi vivevano ormai appartati. Cominciòcosí a formarsi il concetto del filisteo e del piccolo bor-ghese, del bourgeois contrapposto al citoyen; e si ebbe lastrana situazione, fino allora quasi senza esempio, diartisti e poeti pieni di odio e di sprezzo per quella clas-se cui pure dovevano la loro vita intellettuale e mate-riale. Infatti il romanticismo fu un movimento essen-zialmente borghese, anzi il movimento borghese pereccellenza, che mise fine definitivamente alle conven-zioni classiche, all’artificio e alla retorica aulica e nobi-liare, allo stile elevato e al linguaggio scelto. L’arte del-

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l’illuminismo, pur con le sue inclinazioni rivoluzionarie,aveva tuttavia seguito il gusto classicheggiante dell’ari-stocrazia. Non solo Voltaire e Pope, ma anche Prévoste Marivaux, Swift e Sterne erano piú vicini al Seicentoche all’Ottocento. Soltanto con il romanticismo l’artediventa «document humain», grido di confessione, feri-ta scoperta e dolorante. Quando la letteratura illumini-stica celebra il borghese, lo fa sempre con un’intenzio-ne piú o meno polemica verso i ceti superiori; solo conil romanticismo il borghese diventa la naturale misuradell’uomo. Né questo carattere borghese viene sminui-to per l’origine aristocratica di tanti esponenti romanti-ci, né per l’ostilità contro il filisteo, che è nel program-ma culturale del romanticismo. Novalis, Kleist, Arnim,Eichendorff e Chamisso, il visconte di Chateaubriand,Lamartine, de Vigny, de Musset, Bonald, de Maistre eLamennais, lord Byron e Shelley, Leopardi e Manzoni,Pu∫kin e Lermontov appartenevano a famiglie nobili ein parte manifestavano opinioni aristocratiche; ma conl’età romantica la letteratura era ormai esclusivamentedestinata al libero mercato, cioè a un pubblico borghe-se. A un pubblico come questo si potevano magari sug-gerire idee politiche opposte ai suoi veri interessi, manon era piú possibile presentargli il mondo nello stileimpersonale e nelle astratte categorie di pensiero del Set-tecento. La concezione del mondo che questo pubblicosentiva come sua si rivela soprattutto in quell’idea del-l’autonomia dello spirito e dell’immanenza delle singo-le sfere della cultura, che da Kant in poi ha dominato lafilosofia tedesca e sarebbe stata inconcepibile senza l’e-mancipazione della borghesia13. Fino al romanticismo ilconcetto di cultura era rimasto legato all’idea della fun-zione subordinata dello spirito umano: si trattasse dellavisione ecclesiastico-ascetica, o eroico-mondana, o ari-stocratico-assolutistica, lo spirito vi appariva semprecome un mezzo, mai rivolto a fini propri, immanenti.

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Sciolti gli antichi vincoli, svanito il senso dell’assolutanullità di fronte alle gerarchie ecclesiastiche e mondane,ricondotto l’individuo a se stesso, solo allora poté sor-ger l’idea dell’autonomia dello spirito. Essa corrispon-deva alla mentalità del liberalismo economico e politicoe si mantenne finché il socialismo non portò l’idea di unanuova subordinazione distruggendo nuovamente l’au-tonomia dello spirito nel materialismo storico. Que-st’autonomia, come anche l’individualismo romantico,fu dunque una conseguenza, non la causa, del conflittoche scosse la società settecentesca. In sé e per sé nessu-no dei due concetti era veramente nuovo, ma per laprima volta accadde che s’incitasse l’individuo alla rivol-ta contro la struttura sociale e contro tutto ciò che impe-diva la sua felicità14.

I romantici esaltarono il proprio individualismo percompensare l’indifferenza del mondo per le cose dellospirito e proteggersi dall’ostilità dell’ambiente borghe-se e filisteo. Come già i preromantici, essi volevano conl’estetismo isolarsi in una loro sfera esclusiva, dove nes-suna forza estranea potesse interferire. Il classicismoaveva regolato il concetto di bellezza su quello di verità,cioè su un canone universalmente umano che compren-desse tutta la vita. Ma ora Musset invertiva il motto diBoileau proclamando: «Rien n’est vrai que le beau»[«Nulla è vero se non la bellezza»]. I romantici giudi-cavano la vita con i criteri dell’arte, tentando cosí di ele-varsi sul resto dell’umanità quasi come una casta sacer-dotale. Ma anche nel loro rapporto con l’arte si tradival’atteggiamento ambivalente che dominava tutta la loroconcezione. La problematica goethiana intorno allanatura dell’artista continuò e si arricchí nell’epocaromantica; l’arte considerata come un organodell’«intuizione intellettuale», dell’esaltazione religiosae della rivelazione divina, tuttavia si dubitò del suovalore nella vita. «L’arte è un frutto seduttore, proibi-

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to, – diceva già Wackenroder, – chi ne ha gustato unavolta il piú intimo e dolce succo è irreparabilmente per-duto per la vita attiva. Egli si rannicchia sempre piú nelsuo piacere...» E ancora: «Questo è il veleno dell’arte:l’artista diventa un attore, che considera ogni vita comeuna parte da recitare, e vede nella sua scena il mondovero, la polpa, e nella vita reale il guscio, una miserabi-le imitazione raffazzonata»15. Anche la filosofia dell’i-dentità di Schelling fu solo un tentativo di superarequesta contraddizione, e cosí il messaggio di Keats:«Beauty is truth, truth beauty» [«Bellezza è verità,verità è bellezza»]. Tuttavia l’estetismo rimane il carat-tere fondamentale della visione romantica; e giusta-mente Heine riassume classicismo e romanticismo come«l’epoca dell’arte» (Kunstperiode) nella letteratura tede-sca.

Nulla per i romantici era senza conflitto; e in ogniloro manifestazione si riflette la problematica della lorosituazione storica e il loro intimo dissidio sentimentale.La vita morale dell’umanità è tutta una catena di con-trasti e di lotte; quanto piú differenziata la società,tanto piú frequenti e aspri sono gli urti tra l’io e ilmondo, l’istinto e la ragione, il passato e il presente. Manell’età romantica il conflitto diventa forma essenzialedella coscienza. Vita e pensiero, natura e civiltà, storiaed eternità, solitudine e società, rivoluzione e tradizio-ne non appaiono piú come logici correlativi e come alter-native morali, fra cui si debba scegliere, ma come pos-sibilità, che si cerca di attuare contemporaneamente.Certo, essi non vengono ancora contrapposti dialettica-mente, non si cerca una sintesi che ne esprima l’inter-dipendenza; essi sono soltanto oggetto di esperimento edi gioco. Né l’idealismo e lo spiritualismo, né l’irrazio-nalismo e l’individualismo dominano senza contrasti;piuttosto si alternano con una tendenza altrettanto forteal naturalismo e al collettivismo. La schiettezza e la sta-

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bilità delle posizioni filosofiche è cessata; non ci sonopiú che atteggiamenti riflessi, critici, problematici, taliche portano sempre con sé, presente e realizzabile, illoro contrario. Lo spirito umano ha perduto anche quel-l’ultimo resto di spontaneità, che aveva ancora nel Set-tecento. L’intimo dissidio e l’ambivalenza dei rapportispirituali vanno tanto oltre da giustificare l’affermazio-ne che i romantici, o almeno i primi romantici tedeschifecero ogni sforzo per tener lontano da sé proprio quelche era «romantico»16. Friedrich Schlegel e Novalis ten-tarono almeno di superare la propria emotività e, purcosí soggettivi e sensibili, cercarono di fondare la lorofilosofia su qualcosa di saldo e universalmente valido.Ecco appunto la grande, fondamentale differenza frapreromantici e romantici: il sentimentalismo settecen-tesco fu sostituito da un’acuita sensibilità, da un’accre-sciuta «eccitabilità dell’animo» e se è vero che si conti-nuò a versar lacrime, la reazione sentimentale cominciòa perdere il suo valore etico scendendo a strati cultura-li sempre piú bassi.

Nulla riflette con tanta immediatezza ed efficacia ildissidio dell’anima romantica come la figura del «dop-pio», sempre presente al romantico, e che ritorna nellaletteratura in forme e varianti innumerevoli. L’originedi questa che finisce col diventare un’idea fissa è chia-ra: è l’irresistibile impulso all’introspezione, la maniadell’autocontemplazione di chi è spinto a considerarsisempre come un ignoto, un estraneo inquietante e lon-tano. Anche questo naturalmente non è che un tentati-vo di evasione che tradisce l’incapacità del romantico diadattarsi alla propria condizione storica e sociale. Eglisi getta nello sdoppiamento come in tutto quel che èoscuro e ambiguo, caotico ed estatico, demoniaco e dio-nisiaco, cercandovi un rifugio di fronte alla realtà, chela sua ragione non sa dominare. E in questa fuga egli sco-pre l’inconscio, quel che alla ragione è celato, la fonte

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delle fantasie nate dal desiderio e delle soluzioni irra-zionali. Scopre che due anime abitano il suo petto; ch’e-gli ha nell’intimo, diverso da sé, qualcosa che pensa esente; ch’egli porta seco il suo demone e il suo giudice;in breve, scopre i fatti fondamentali della psicanalisi. Aisuoi occhi l’irrazionale ha l’immenso vantaggio di esse-re incontrollabile, quindi egli apprezza gli impulsi oscu-ri e inconsci, gli stati d’animo sognanti ed ebbri, e ricer-ca in essi l’appagamento, che non può dargli la criticaspassionata e fredda della ragione. «La sensibilité n’estguère la qualité d’un grand génie... Ce n’est pas soncœur, c’est sa tête qui fait tout» [«La sensibilità non èaffatto la qualità di un grande genio... Non il suo cuore,ma la sua testa fa tutto»], diceva Diderot17. Ora invecesi attende tutto dal salto mortale della ragione; dondela fede nelle esperienze dirette e negli stati d’animo,l’abbandono all’istante e all’impressione fuggevole equell’adorazione del caos di cui parla Novalis. Quantopiú impenetrabile è il caos, tanto piú splendido si speral’astro che ne uscirà. Di qui il culto del misterioso e delnotturno, del bizzarro e del grottesco, del pauroso edello spettrale, del diabolico e del macabro, del patolo-gico e del perverso. Definire sommariamente, come hafatto Goethe, il romanticismo «poesia da lazzaretto», ècerto una grande ingiustizia, ma un’ingiustizia signifi-cativa, anche se, dicendo questo, non si pensa proprioa Novalis e ai suoi aforismi, secondo cui la vita è unamalattia dello spirito, e sono le malattie che distinguo-no l’uomo dalle piante e dagli animali. Naturalmente,anche la malattia non è che un modo di sfuggire ai com-piti imposti dalla vita alla ragione, un pretesto per sot-trarsi a doveri quotidiani. Affermando che i romanticierano «malati» non si dice gran che; ma quando si rico-nosce che la filosofia della malattia era un elementoessenziale della loro generale concezione, si viene a direqualche cosa di piú. Per loro la malattia rappresentava

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la negazione del consueto, del normale, del ragionevolee portava in sé quel dualismo di vita e morte, natura enon natura, vincolo e dissoluzione, che dominava tuttoil loro mondo. Essa significava la svalutazione di tuttociò che è chiaro e durevole e rispondeva all’ostilitàromantica verso ogni limite, ogni forma salda e defini-tiva.

Come sappiamo, già Goethe parlava di una falsità einsufficienza delle forme e, ripensando alle sue parole,comprendiamo perché i francesi lo abbiano sempreannoverato fra i romantici. Ma per Goethe le circo-scritte forme dell’arte erano false solo di fronte alla con-creta ricchezza della vita; per i romantici invece ognicosa chiara e definitiva era di per sé meno valida del-l’aperta, irrealizzata possibilità a cui essi attribuivano icaratteri dell’infinito divenire, dell’eterno moto, deldinamismo e della fecondità vitale. Ogni forma salda,ogni idea chiara, ogni netta parola per loro era morta ebugiarda; quindi, pur con il loro estetismo, essi eranoinclini a svalutare l’opera d’arte per la sua forma disci-plinata e autosufficiente. In loro le intemperanze e gliarbitrî, la mescolanza e la fusione delle arti, l’espressio-ne improvvisata e frammentaria non erano che sintomidi questa visione dinamica della vita a cui essi doveva-no tutta la loro genialità, la loro sensibilità esasperata ela loro chiaroveggenza storica. Dalla Rivoluzione in poil’individuo aveva perduto ogni appoggio esteriore; dove-va contare su se stesso e in se stesso cercare i punti d’ap-poggio; e appunto nel suo io trovò un oggetto infinita-mente importante, infinitamente interessante. All’espe-rienza del mondo sostituí l’esperienza di sé e la vita inte-riore, il flusso delle idee e dei sentimenti, il moto da unostato d’animo all’altro finirono col sembrargli piú realidella realtà esterna. Considerò il mondo soltanto comemateria prima e substrato delle proprie esperienze e sene valse come di un pretesto per parlar di se stesso.

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«Tutti i casi della nostra vita, – disse Novalis, – sonomateriali, di cui possiamo far quel che vogliamo, ognicosa è un anello in un’infinita catena». Cioè vengonosvalutati tanto l’inizio quanto il termine ultimo dell’e-sperienza, in altre parole il contenuto e la forma dellacreazione artistica. Il mondo diventa soltanto occasionedell’attività spirituale, l’arte un vaso casuale in cui icontenuti dell’esperienza assumono forma per un atti-mo. In altre parole, sorge quel modo di pensare che èstato chiamato occasionalismo romantico18, nel quale larealtà si dissolve in una serie di occasioni senza realesostanza, in sé indeterminate, in puri stimoli alla fecon-dità intellettuale, in situazioni che apparentemente esi-stono solo perché il soggetto possa accertarsi della pro-pria esistenza. Quanto piú indeterminati, cangianti,aerei, «musicali» sono gli stimoli, tanto piú forte è lavibrazione del soggetto; quanto piú inafferrabile, fluido,inconsistente appare il mondo, tanto piú forte, libero,autonomo si sentirà l’io, che lotta per affermarsi. Solouna situazione storica, in cui l’individuo era ormai libe-ro e indipendente, ma si sentiva minacciato e in perico-lo, poteva produrre un tale atteggiamento. L’ostentatosoggettivismo, l’incontenibile impulso all’espansionedella sfera psichica, il lirismo dell’arte nuova, sempreinsoddisfatto e in gara con se stesso, si spiegano solo conquesta intima scissione. Non si intende il romanticismose non si parte da questa disarmonia e dalle ipercom-pensazioni correlative che caratterizzano l’individuoliberato e deluso del periodo postrivoluzionario.

La conversione politica del romanticismo dal libera-lismo al legittimismo conservatore, in Germania; il pro-cesso opposto, in Francia; quello ben piú complicatonelle sue oscillazioni tra Rivoluzione e Restaurazione,ma in complesso simile allo sviluppo francese, in Inghil-terra, furono possibili solo grazie all’atteggiamento delromanticismo, ambivalente anche di fronte alla Rivolu-

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zione, e sempre pronto a rovesciar le sue posizioni. Ilneoclassicismo tedesco aveva simpatizzato con le ideedella Rivoluzione francese, e questa simpatia si feceanche piú profonda nel romanticismo tedesco che, comegià hanno accertato Haym e Dilthey, non fu mai deltutto apolitico19. Solo durante le guerre napoleonicheriuscí alle classi dominanti di guadagnare i romantici allareazione. Fino all’invasione napoleonica, in Germania leforze conservatrici si erano sentite pienamente sicure esi erano mostrate a loro modo «illuminate» e tolleranti;ma ora che il vittorioso esercito francese minacciava didiffondere anche le conquiste della Rivoluzione, deci-sero di reprimere ogni forma di liberalismo e nell’inva-sore combatterono soprattutto l’esponente della Rivo-luzione. Gli elementi davvero progressisti e indipen-denti, come Goethe, non si lasciarono trarre in ingan-no dalla propaganda antinapoleonica; ma nella borghe-sia e nel ceto colto non rappresentavano che una mino-ranza sempre piú esigua. Fin dall’inizio lo spirito rivo-luzionario in Germania era stato diverso da quello fran-cese. L’entusiasmo dei poeti tedeschi per la Rivoluzio-ne era un atteggiamento astratto che travisava i fatti; adessi, come alle classi dominanti, nella loro improvvidatolleranza, sfuggiva il vero significato degli avvenimen-ti. I poeti s’immaginavano la Rivoluzione come una grandiscussione filosofica; e i detentori del potere vi assi-stevano come a uno spettacolo che in Germania, secon-do loro, non sarebbe mai divenuto realtà. Questo spie-ga il completo voltafaccia di tutto il paese durante leguerre di liberazione. Il mutamento di Fichte, il repub-blicano che a un tratto vede nel presente il tempodell’«assoluta empietà», è quanto mai sintomatico. LaRivoluzione, un tempo romanticizzata, è ora tanto piúaspramente respinta, e questo provoca l’identificarsi delromanticismo con la Restaurazione. E tutti i romanticisono già passati al campo legittimista e conservatore,

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quando in Occidente il movimento romantico entranella fase davvero creatrice e rivoluzionaria20.

Il romanticismo francese, che agli inizi era una «let-teratura di emigrati»21, rimase fino dopo il 1820 il por-tavoce della Restaurazione. Ma, tra il 1825 e il 1830,esso si trasforma in un movimento liberale, che formu-la i suoi obbiettivi artistici in termini analoghi a quellidella politica rivoluzionaria. In Inghilterra, come in Ger-mania, il romanticismo dapprima è favorevole alla Rivo-luzione e solo durante la lotta contro Napoleone diven-ta conservatore; tuttavia, dopo la guerra esso prende unanuova piega e si riavvicina agli antichi ideali. In Fran-cia e in Inghilterra esso dunque finisce col rivolgersi con-tro la Restaurazione e la reazione, e in termini assai piúchiari di quanto accada nell’evoluzione politica. Infatti,sebbene le idee liberali apparentemente riescano aimporsi nelle costituzioni e nelle istituzioni dell’Occi-dente, l’Europa moderna, con la sua politica economi-ca filocapitalistica, le sue monarchie militaristiche eimperialistiche, i suoi sistemi amministrativi accentratie burocratici, le Chiese riabilitate e le religioni di stato,è nella stessa misura creazione della Restaurazione edell’illuminismo, e con uguale diritto si può vedere nel-l’Ottocento un periodo di opposizione allo spirito rivo-luzionario, e anche un trionfo del pensiero illuministi-co e liberale22. Se già l’impero napoleonico aveva signi-ficato il dissolversi degli ideali individualistici dellaRivoluzione, la vittoria degli alleati sul Còrso, la SantaAlleanza e il ritorno dei Borboni portarono alla defini-tiva frattura con il Settecento e con l’idea di modellarelo stato e la società sulle esigenze dell’individuo. Ma dalpensiero e dall’esperienza della nuova generazione l’in-dividualismo non poté piú esser bandito; il che spiega lacontraddizione tra la politica reazionaria e le tendenzeliberali dell’arte.

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Per la Restaurazione l’avventura militare di Bona-parte non era che la controparte del delitto politico del1789, e il Primo Impero ne continuava l’illegalità e l’a-narchia. Per i legittimisti tutta l’epoca rivoluzionaria enapoleonica era un unico fenomeno, una metodica dis-soluzione dell’ordine antico, della gerarchia, dei dirittidi proprietà. E l’Impero, pur con le sue tendenze rea-zionarie, era tanto piú pericoloso in quanto pareva con-solidare le conquiste della Rivoluzione e creare un nuovoequilibrio. Di fronte a tutto questo la Restaurazioneaprí una era nuova. Essa salvò il salvabile e tentò di sta-bilire un compromesso fra quanto si poteva restauraredelle antiche istituzioni e quanto delle nuove non sipoteva piú mutare. In questo anche la Restaurazionenon fece che continuare il periodo napoleonico; rappre-sentò essa pure un compromesso fra i principî rivolu-zionari e le idee dell’ancien régime; con la differenzaperò che Napoleone voleva conservare il piú possibiledelle conquiste rivoluzionarie, mentre la Restaurazioneavrebbe voluto, potendo, negare la Rivoluzione. Non sideve sottovalutare questa differenza, sebbene nei primitempi la Restaurazione abbia significato un allentamen-to di quel rigore, che avevano dovuto esercitare sia laRivoluzione sempre in pericolo mortale, sia l’Imperominacciato da destra e da sinistra. Naturalmente nonc’era da parlare di rinascita della libertà civile, dopo ladittatura militare di Napoleone; parve che cosí fosse,solo perché ora si perseguitavano o danneggiavano grup-pi o classi intere anziché individui singoli; tuttavia nelquadro di questo regime classista la libertà, nei limitidella legge, era fino a un certo punto garantita. LaRestaurazione poté permettersi il lusso di esser piú tol-lerante dei suoi predecessori. La reazione era vittoriosain tutta Europa e le idee liberali diventavano innocue;i popoli europei erano stanchi delle imprese rivoluzio-narie e militari e anelavano alla tranquillità. Cosí lo

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scambio delle idee poté avvenire con piú libertà diprima, e non ci furono piú interventi dell’autorità perimporre questo o quel criterio di gusto, benché si sen-tisse molto nettamente lo sfondo politico delle diverseposizioni artistiche.

In Francia da principio i romantici si dichiaranosenza eccezione legittimisti e clericali, mentre la tradi-zione classica nella letteratura è rappresentata princi-palmente dai liberali. Non tutti i classicisti sono libera-li, ma tutti i liberali sono classicisti23. Forse non c’èaltro esempio nella storia dell’arte da cui risulti cosíchiaro che una tendenza politica conservatrice puòbenissimo accordarsi con un atteggiamento innovatorein arte; anzi, che i concetti di conservazione e progres-so sono incommensurabili fra le due sfere. Tra i libera-li di tendenze classiciste e gli ultra romantici non è pos-sibile alcuna intesa, ma fra i legittimisti c’è tutto ungruppo che aderisce alla visione classica, sebbene, a dif-ferenza dei liberali, si ispiri al classicismo del grand siè-cle, non già a quello del Settecento. E nella lotta controi romantici, classicisti liberali e conservatori sono asso-lutamente unanimi; perciò l’Accademia respinge Lamar-tine, benché conservatore. Essa, del resto, non rappre-senta piú il gusto letterario prevalente fra il pubblico;gran parte dei lettori segue i romantici, con una passio-ne finora sconosciuta. Già il successo del Génie du Chri-stianisme fu inaudito nel suo genere, ma mai, né primané poi, era accaduto che una piccola raccolta di lirichefosse accolta con l’entusiasmo con cui furono accolte leMéditations di Lamartine. Dopo il lungo ristagno, comin-cia ora per la letteratura un’epoca viva, fecondissima,ricca d’ingegni eccezionali e di opere riuscite. Il pubbliconon è vasto, ma si appassiona alla letteratura con entu-siasmo e sinceramente24. Si comprano molti libri, i gior-nali seguono con la massima attenzione gli avvenimen-ti letterari, i salotti si riaprono e onorano i nuovi eroi

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dello spirito. La relativa libertà favorisce la differenzia-zione delle aspirazioni letterarie, e l’unità culturale delgrand siècle a poco a poco appare in una mitica lonta-nanza. È vero che anche il Seicento aveva conosciuto unconflitto tra vecchio e nuovo, un contrasto tra la ten-denza accademica di Le Brun e la concezione pittoricadei suoi avversari; e il Settecento l’antagonismo, ben piúaspro, tra l’aulico Rococò e il preromanticismo borghe-se. Ma per tutto l’ancien regime aveva dominato ungusto sostanzialmente omogeneo, un’ortodossia i cuioppositori facevano sempre figura di eretici e di bizzar-ri. Insomma, non c’erano in arte tendenze propriamen-te rivali. Ora invece ci sono due gruppi ugualmenteforti, o almeno ugualmente stimati. Nessuna delle ten-denze in lizza domina incontrastata o prevale negliambienti piú colti; e neppure dopo il trionfo del roman-ticismo c’è un «gusto romantico» che detti legge comeun tempo il gusto neoclassico. È vero che nessuno sfug-ge al suo influsso, ma non è affatto vero che ognuno loproclami, e i primi conflitti interni cominciano quasinello stesso momento del suo trionfo. L’antagonismodelle tendenze è adesso un tratto fondamentale della vitaartistica, non meno che l’intolleranza del pubblico versoi nuovi ingegni. La borghesia fiuta scherno e disprezzoin tutto ciò che non capisce e finisce col respingere perprincipio ogni cosa nuova. La linea che separa l’orto-dossia estetica dall’eresia a poco a poco si perde, e allafine la distinzione non avrà piú senso. Ben presto in let-teratura non ci sono piú che «partiti», e comincia per lelettere quasi un tempo di democrazia. La novità socio-logica del Romanticismo è la politicizzazione dell’arte,non solo nel senso che artisti e scrittori aderiscono a par-titi politici, ma anche che fanno una politica di partitoanche nel campo artistico. «Vous verrez qu’il faudrafinir par avoir une opinion» [«Vedrete che bisogneràfinire per l’avere un’opinione»], dice malinconicamen-

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te un eclettico dell’epoca, e Balzac nelle Illusions per-dues25 descrive cosí la situazione: «Les royalistes sontromantiques, les libéraux classiques... Si vous êtes éclec-tiques, vous n’aurez personne pour vous» [«i monarchicisono romantici, i liberali classici... Se siete eclettici,nessuno vi sosterrà»]. La necessità di prendere posizio-ne nella grande controversia, Balzac la vede giustamen-te, ma la situazione è alquanto piú complicata.

Il principale esponente della «letteratura dell’emigra-zione» è Chateaubriand. Con Rousseau e Byron, egli èuno dei piú autorevoli artefici del nuovo uomo romanti-co, e come tale ha nella storia della letteratura modernauna parte incomparabilmente maggiore di quanto com-porti il valore intrinseco delle sue opere. Egli è l’espo-nente, non il campione o il creatore di un movimento spi-rituale, ch’egli arricchisce soltanto di una nuova formaespressiva, non di un nuovo contenuto d’esperienza. IlSaint-Preux di Rousseau e il Werther di Goethe eranostate le prime incarnazioni del disinganno che aveva datoil tono all’età romantica; il René di Chateaubriand espri-me la disperazione in cui ora il disinganno va trasfor-mandosi. Il sentimentalismo e la malinconia preroman-tica rispondevano allo stato d’animo della borghesiaprima della Rivoluzione; il pessimismo e il taedium vitaedella letteratura degli emigrati riflettono invece lo statod’animo dell’aristocrazia dopo la bufera rivoluzionaria.Questo diventa un generale fenomeno europeo dopo lacaduta di Napoleone ed esprime il sentimento di tuttal’alta società. Rousseau ancora sapeva perché era infeli-ce: soffriva a causa della civiltà moderna, delle conven-zioni sociali inadeguate alle esigenze del suo spirito. Eglisapeva immaginarsi una situazione concreta, non impor-ta se irrealizzabile, nella quale il suo male sarebbe guari-to. Invece la malinconia di René è indefinibile e incura-bile. Per lui tutta la vita è ormai priva di senso; egli provaun infinito, esaltato bisogno di amore, di comunione,

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un’eterna brama di abbracciare l’universo e di scioglier-si in esso; ma sa che non è dato appagarla e che l’animasua rimarrebbe insoddisfatta anche se si adempisse ognisuo desiderio. Nulla è degno di essere desiderato, vanoè ogni sforzo e vana ogni lotta; l’unica azione sensata èil suicidio. E suicidio è già l’assoluta separazione delmondo intimo da quello esterno, della poesia dalla prosaquotidiana; suicidio è la solitudine, il disprezzo delmondo e la misantropia, l’esistenza irreale, astratta,disperatamente egoistica, che menano le nature roman-tiche del nuovo secolo.

Chateaubriand, Madame de Staël, Senancour, Con-stant, Nodier sono tutti vicini a Rousseau e sono vio-lentemente avversi a Voltaire. Ma i piú fra loro si sen-tono in contrasto solo con il razionalismo settecentesco,non con quello del grand siècle. Solo cosí riesce, soprat-tutto a Chateaubriand, di conciliare la concezione arti-stica progressiva con la politica conservatrice, la fedeltàalla monarchia e il clericalismo, l’entusiasmo per il tronoe l’altare. E solo perché il romanticismo si sente piú affi-ne a tempi lontani che al recente passato, Lamartine,Vigny e Victor Hugo rimangono cosí a lungo fedeli allegittimismo. I primi segni di una conversione politicaappaiono verso il 1824. Nasce allora la prima delle con-venticole romantiche (cénacles), il celebre gruppo intor-no a Charles Nodier all’Arsenal, e il movimento comin-cia a concretarsi in una specie di scuola. La cornicesociale in cui si era sviluppata la letteratura francese delSettecento erano stati i salotti, cioè i regolari incontridi poeti, artisti e critici con i membri della classe diri-gente nelle case dell’aristocrazia, e dell’alta borghesia.Erano ambienti chiusi, ligi al costume signorile, che,nonostante ogni concessione alle maniere dei corifeiintellettuali, conservavano un ben preciso tono di«società». Ma il loro influsso, pur stimolante per loscrittore, non era direttamente creativo. Essi costitui-

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vano piuttosto una sorta di tribunale letterario a cui perlo piú ci si sottometteva docilmente, una scuola di buongusto, dove si decideva delle mode letterarie, ma non eracerto un ambiente propizio alla feconda collaborazionedi un gruppo. I cenacoli romantici invece sono circoliamichevoli di artisti in cui c’è assai poco il tono di«società»: anzitutto perché si formano sempre intornoa un artista e poi perché sono molto meno chiusi del piúliberale dei salotti. Qui non solo è benvenuto ogni poeta,artista, critico pronto ad aderire al movimento, maanche ogni semplice membro del pubblico che ne sia fau-tore. Questa apertura e promiscuità, se certamenteimpediscono al movimento di avere un rigido caratteredi scuola, non impediscono però lo sviluppo di criteriestetici comuni e di un programma caratterizzato. Adifferenza di quanto avveniva un tempo, l’ambito in cuisi svolge la vita letteraria non è un salotto privo di cen-tro, come nella Francia del Settecento, e neppure unclub o un caffè, come in Inghilterra; qui abbiamo ungruppo che si raccoglie intorno a un poeta o a una per-sonalità che il gruppo considera come maestro, e di cuiriconosce l’autorità assoluta, benché non sempre in unesplicito rapporto di scuola. Per la prima volta nella sto-ria della letteratura moderna accade che sia una scuolaa determinare l’evoluzione. Né il Sei, né il Settecentoconoscono tale fenomeno, che pure sarebbe stato piúrispondente al carattere normativo della letteratura clas-sica. Il romanticismo invece, nonostante la dubbia vali-dità dei suoi principî artistici, o forse grazie ad essa, svi-luppa una scuola con una dottrina rigorosamente for-mulabile e apprendibile. Nell’età classica tutta quanta laletteratura francese costituiva una grande scuola, e ilgusto era unico in tutta la Francia; i dissidenti e i ribel-li rappresentavano un gruppo troppo disparato perinquadrarsi in un programma comune. Ma ora che la let-teratura francese è divenuta il campo di battaglia di due

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grandi partiti quasi equivalenti, ora che l’esempio dellavita politica induce i poeti a formulare programmi diparte, suscitando in loro il desiderio di un capo, ora, infi-ne, che le mete della nuova corrente artistica sono anco-ra cosí oscure e contraddittorie da dover essere riassun-te e codificate, ora è venuto il tempo di fondare scuoleletterarie.

Questo aspetto del romanticismo fu piú evidente inFrancia che in Germania, dove l’ideale classico non sirealizzò mai con assoluta purezza, e dove la sua visione,già cosí venata di romanticismo, rimase in complessonormativa anche per i romantici. In ogni caso, qui ilcarattere partigiano della vita letteraria fu meno nettoche in Francia, e quindi meno reciso il raggrupparsidegli scrittori per scuole. In Inghilterra, dove il contra-sto tra classici e romantici aveva perso ogni preciso con-tenuto fin dalla seconda metà del Settecento, perchéormai la letteratura non era che romantica, non si costi-tuirono scuole, né si ebbero veri e propri maestri26. Vera-mente anche i cénacles francesi spesso non sono chechiesuole letterarie tenute insieme unicamente da ungergo comune; viste dall’esterno sembrano congiure,dall’interno, compagnie di attori pieni di gelosia. Spes-so pare che siano soltanto sette battagliere o ambientidi accesa polemica, per cui la dottrina è piú importantedella prassi e il distinguersi vale piú che l’adeguarsi.Tuttavia, in Francia come in Germania, è propria delmovimento romantico una concezione profonda dellacomunione di idee e di intenti e una forte tendenza araccogliersi in gruppi. I romantici amano dedicarsi incomune alla filosofia, alla poesia, alla discussione, allacritica e trovano nell’amicizia e nell’amore il senso piúintimo della vita; fondano riviste, pubblicano annali eantologie, tengono conferenze e corsi, fanno propagan-da per sé e per i compagni, cercano, insomma, l’unionepiú stretta, anche se questa urgenza di simbiosi è sol-

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tanto l’altra faccia del loro individualismo, il compensoalla loro solitudine di sradicati.

Il confluire del romanticismo francese in un gruppoomogeneo coincide con il volgersi dell’opinione pubbli-ca verso il liberalismo. Intorno al 1824 il «Globe»comincia a cambiare tono, ed è il momento delle primeriunioni regolari all’Arsenal. I romantici piú in vista,anzitutto Lamartine e Hugo, sono ancora fedeli allaChiesa e al trono, ma il romanticismo cessa di essereesclusivamente clericale e monarchico. Tuttavia il veroe proprio rivolgimento lo si ha nel 1827, quando VictorHugo scrive la celebre prefazione del Cromwell enun-ciando chiara e netta la tesi del romanticismo come libe-ralismo letterario. Quell’anno stesso il Salon espone perla prima volta numerosi quadri dei pittori romantici piúin vista: accanto a dodici tele di Delacroix, opere tipi-che di Devéria e di Boulanger. È un vasto, compattomovimento, che pare estendersi a tutta la vita intellet-tuale e giungere alla vittoria definitiva. A questo carat-tere di universalità corrisponde anche il costituirsi delnuovo cénacle intorno a Victor Hugo, che d’ora in poiè il maestro della scuola romantica. Gli scrittoriDeschamps, Vigny, Sainte-Beuve, Dumas, De Musset,Balzac, i pittori Delacroix, Devéria, Boulanger, gli inci-sori Johannot, Gigoux, Nanteuil, lo scultore Davidd’Angers sono fra gli ospiti usuali di rue deNotre-Dame-des-Champs. Qui Victor Hugo legge i suoidrammi, Marion Delorme e Hernani. È vero che il grup-po si scioglie già nello stesso anno, ma la scuola conti-nua. Anzi il movimento si concentra e si chiarisce,diventando sempre piú definito e radicale. Già dalsecondo cénacle in casa di Nodier, nel 1829, scompaio-no gli elementi semiclassicheggianti, mentre pittori escultori diventano membri regolari del gruppo. La com-pleta unità del movimento, come la sua tendenza anti-borghese che a poco a poco diventa un dogma, si rivela

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nel modo piú netto nell’ultimo cénacle che si riuniscenegli atéliers di rue du Doyenné, dove abitano Théophi-le Gautier, Gérard de Nerval e i loro amici. Questa colo-nia di artisti con la sua avversione per il filisteo e la suadottrina de «l’art pour l’art» è il vivaio della modernabohème.

Lo stile bohème, che si usa attribuire al romanticismo,non risale davvero ai suoi inizi. Da Chateaubriand aLamartine, i romantici in Francia furono quasi esclusi-vamente elementi della nobiltà e quando, dal 1824,cessò l’unanime fedeltà alla monarchia e alla Chiesa, ilromanticismo rimase tuttavia piú o meno aristocraticoe clericale. Solo gradatamente la guida del movimentopassa a plebei come Victor Hugo, Théophile Gautier eAlexandre Dumas; e solo poco prima della Rivoluzionedi luglio, la maggioranza dei romantici rinuncia al pro-prio atteggiamento conservatore. Ma l’importanzanuova dell’elemento plebeo è un sintomo piú che lacausa del mutamento politico. Da principio gli scrittoriborghesi si erano adeguati alla mentalità conservatricedegli aristocratici; ora invece anche i nobili Lamartinee Chateaubriand passano all’opposizione. Le restrizionisempre maggiori delle libertà sotto il governo di CarloX, la clericalizzazione della vita pubblica, l’introduzio-ne della pena di morte per i sacrilegi, lo scioglimentodella Guardia Nazionale e della Camera, l’arbitrio diordinanze e decreti, non fanno che affrettare l’evolver-si della cultura in senso radicale. Si sente ancora piúchiaramente quel che fin dal 1815 era innegabile, cioèche la Restaurazione segnava la sconfitta definitiva dellaRivoluzione. Ora gli spiriti si sono finalmente riavutidell’apatia postrivoluzionaria, e proprio questo nuovostato d’animo spinge Carlo X a misure sempre piú retri-ve, che è l’unica via possibile a un governo che si appog-gia agli elementi reazionari. I romantici, che a poco apoco si erano resi conto dove realmente portava la

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Restaurazione, riconobbero nello stesso tempo che laricca borghesia capitalistica era il piú forte sostegno delregime, assai piú dell’antica nobiltà, in parte spogliatadei suoi beni e comunque inabile alla lotta. Tutto il loroodio, tutto il loro disprezzo si riversò ora sulla classe bor-ghese. Il bourgeois, meschino, avido, ipocrita, divenneil principale nemico e di fronte ad esso l’artista, pove-ro, onesto, sincero, ribelle a ogni vincolo umiliante e aogni convenzione menzognera, apparve senz’altro comeil nuovo ideale umano. Lo straniarsi dalla vita pratica,da una vita legata a solide radici sociali e a chiari impe-gni politici, fenomeno caratteristico del romanticismo ein Germania già in atto fin dal Settecento, ormai divie-ne l’atteggiamento prevalente dappertutto. Anche neipaesi occidentali si apre ora un abisso invalicabile tra ilgenio e l’uomo comune, tra l’artista e il pubblico, tral’arte e la realtà sociale. I modi liberi e sfacciati dellabohème, l’ambizione spesso fanciullesca di mettere inimbarazzo e irritare il borghese sprovveduto, lo spa-smodico sforzo di distinguersi dalla normalità, dallamedia, gli abiti eccentrici, le zazzere e le barbe, il pan-ciotto rosso di Gautier e il bizzarro costume altrettan-to appariscente, se pur non sempre cosí chiassoso, deisuoi amici, il linguaggio disinvolto e paradossale, l’esa-gerazione delle idee formulate in modo aggressivo, leinvettive e le sconvenienze, tutto ciò manifesta soltan-to l’intento di isolarsi dalla società borghese, o piutto-sto di presentare come voluto e gradito l’ormai comple-to isolamento.

Per la Jeune France, come si chiamano ora i ribelli,tutto s’impernia sull’odio contro i filistei, sul disprezzodella vita borghese metodica e inaridita, sulla lotta con-tro tradizioni e convenzioni, contro tutto quel che si puòinsegnare e apprendere, tutto quel che è maturo e tran-quillo. Il sistema dei valori spirituali si arricchisce ora diun nuovo concetto: l’idea della giovinezza come forza

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creatrice e già di per sé superiore alla vecchiaia. È un’i-dea nuova, estranea soprattutto al classicismo, ma incerto modo anche a ogni precedente cultura. Natural-mente anche prima non mancavano rivalità fra le diver-se generazioni e la giovinezza riusciva spesso vittoriosain quanto esponente dei nuovi valori artistici. Ma nonvinceva per il solo fatto d’esser «giovane»; di fronte adessa la cautela prevaleva sull’eccessiva fiducia. Solo conil romanticismo ci si avvezza a considerare i «giovani»come i naturali campioni del progresso, e solo dopo lasconfitta del classicismo si parla del torto che, per prin-cipio, la vecchia generazione ha di fronte a loro27. Delresto, la solidarietà fra i giovani, come l’insistenza sul-l’unità delle arti, non è che un sintomo dell’isolamentoromantico nel mondo prosaico del filisteo. Mentre ilSettecento aveva insistito sulla connessione della lette-ratura con la filosofia, ora, coerentemente, la letteratu-ra viene designata come «arte»28. Finché gli artisti ave-vano avuto l’ambizione di appartenere all’alta borghe-sia, avevano insistito sull’affinità della loro professionecon quella dei letterati; ma ora sono i poeti che voglio-no distinguersi dalla borghesia e cosí accentuano la loroaffinità con gli artisti.

I romantici sono talmente compiaciuti di se stessi etale è la loro vanità, che correggono anche il loro este-tismo iniziale e, se prima del poeta facevano un dio, oradi Dio fanno un poeta. «Dieu n’est peut-être que le pre-mier poète du monde» [«Dio forse non è che il primopoeta del mondo»] dice Gautier. Anche la teoria de«l’art pour l’art», che veramente è un fenomeno quan-to mai complesso ed esprime insieme un atteggiamentoliberale e un quietismo conservatore, nasce dalla prote-sta contro i canoni borghesi. Quando Gautier mette inevidenza il carattere di pura forma e di gioco dell’arte,quando la vuol liberare dalle idee e dagli ideali, vorreb-be anzitutto liberarla dalla tirannia dell’ordine borghe-

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se. E pare ch’egli abbia detto a Taine, che lodava DeMusset a spese di Victor Hugo: «Taine, sembra che leicada nell’idiozia borghese. Esigere sentimento dalla poe-sia! Non è questo che importa. Parole radiose, parole diluce che si fanno ritmo e musica, ecco la poesia»29. Ne«l’art pour l’art» di Gautier, Stendhal e Mérimée, nellaloro emancipazione dalle idee del tempo, nel propositodi esercitare l’arte come un gioco sublime e di goderlacome un segreto paradiso vietato ai comuni mortali,l’opposizione al mondo borghese gioca un ruolo anchemaggiore che nell’estetismo del periodo piú tardo, quan-do la rinunzia a ogni attività politica e sociale è benaccolta dalla borghesia ormai al potere. Gautier e i suoicompagni rifiutano di cooperare con la borghesia al sog-giogamento morale della società; Flaubert, Leconte deLisle e Baudelaire invece, chiudendosi nella loro torredi avorio, senza curarsi piú di come vada il mondo, nonfanno che favorire gli interessi borghesi.

La lotta dei romantici per conquistare il teatro, inparticolare la famosa battaglia per Hernani di VictorHugo, fu la lotta di rue du Doyenné, della bohème edella gioventú. Non si può dire che sia stata coronata dauna smagliante vittoria; l’opposizione non scomparve daun giorno all’altro, e ancora per molto tempo rimasepadrona dei maggiori teatri di Parigi. Ma ormai il desti-no del movimento non era piú legato all’accoglienzafatta a un dramma; come indirizzo del gusto, esso già daun pezzo aveva conquistato il mondo. Intorno al 1830la sola novità è la piena adesione del romanticismo allavita politica e la sua alleanza con il liberalismo. Dopo laRivoluzione di luglio, gli esponenti della cultura esconodalla loro passività e molti abbandonano la carriera let-teraria per quella politica. Ma anche i poeti che restanofedeli alla loro vocazione, come Lamartine e VictorHugo, partecipano agli eventi politici piú attivamente edirettamente di prima. Victor Hugo non è un ribelle né

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un bohémien e non ha alcun rapporto diretto con lacampagna dei romantici contro i borghesi. Piuttosto,nella sua evoluzione politica, egli segue la strada dellaborghesia francese. Da principio fedele seguace dei Bor-boni, piú tardi prende parte alla Rivoluzione e aderiscealla monarchia di luglio; infine sostiene le aspirazioni diLuigi Napoleone, per diventare repubblicano e radicalesolo quando ormai la maggioranza della borghesia fran-cese è diventata liberale e antimonarchica. Anche neisuoi atteggiamenti verso Napoleone non fa che rispec-chiare i mutamenti dell’opinione generale. Nel 1825egli è ancora un avversario accanito del Còrso e ne male-dice la memoria; solo verso il 1827 muta atteggiamen-to, e comincia a parlare della gloria francese unita alnome di Napoleone. Infine egli diviene tipico portavo-ce di quel bonapartismo che è un miscuglio cosí singo-lare d’ingenuo culto dell’eroe, di nazionalismo senti-mentale e di liberalismo sincero, sebbene non sempreponderato. Quanto intricati siano i motivi di questomovimento lo mostra il fatto che ad esso aderiscono spi-riti cosí diversi come Heine e Béranger e che può valer-si dell’appoggio sia degli elementi schiettamente volter-riani e degli eredi dell’illuminismo, sia della piccola bor-ghesia anch’essa volterriana, anticlericale e antilegitti-mista, ma sentimentale e disponibile alle leggende. Ilfatto che un unico editore, il celebre Touquet, fra il1817 e il 1824 venda 31 000 copie – cioè un milione eseicentomila volumi – delle opere di Voltaire30 è il segnopiú impressionante della rinascita illuministica e unaprova che il medio ceto costituisce una parte notevoledegli acquirenti. Ed è tipico di questo ceto acquistarel’opera omnia di Voltaire e nello stesso tempo cantare lecanzoni di Béranger, liberali benché povere d’arte e dipensiero. Queste canzoni si sentono dappertutto ora, iloro ritornelli risuonano all’orecchio di tutti, e, a quan-to si dice, contribuiscono a minare l’autorità dei Borboni

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piú di ogni altra opera del tempo. Naturalmente, ancheprima la borghesia aveva le sue canzoni: canzoni daballo, canti conviviali, patriottici e politici, strofetted’attualità e canzonette, non certo migliori di quelle diBéranger: ma erano al di fuori della «letteratura» e nonavevano alcun influsso sostanziale sui poeti dell’am-biente colto. Ora la rivoluzione, non solo aveva provo-cato una piú ricca produzione in questo genere popola-re, ma ne aveva introdotto il gusto anche presso i lette-rati. L’evoluzione poetica di Vietor Hugo costituisce ilmiglior esempio di questo assorbimento e mostra chia-rissimi i vantaggi e gli svantaggi ad esso legati. La poe-sia patriottica del tardo romanticismo è inconcepibilesenza le canzoni di Béranger, come il dramma romanti-co senza il teatro popolare. Anche come poeta, VictorHugo segue l’evoluzione della borghesia; il suo stile liri-co oscilla fra il gusto popolaresco del periodo rivoluzio-nario e l’enfasi, il fasto pseudo-barocco del SecondoImpero. Hugo non era affatto uno spirito rivoluziona-rio, ad onta di tutte le battaglie che si svolsero intornoa lui. Né era nuova la definizione del romanticismocome liberalismo della letteratura, quando egli la for-mulò; l’idea era già in Stendhal. La sua concezione arti-stica venne sempre piú perfettamente a concordare conil gusto della ricca borghesia dominante. Infine si tro-varono a coincidere nel culto di un gigantismo, da cuiin realtà erano ben lontani, e nell’amore di un pathospomposo, sonoro, esaltato, di cui gli echi risuonanoancora in Rostand.

La massima conquista della rivoluzione romantica fuil rinnovamento del linguaggio poetico. In Francia, lalingua letteraria si era venuta riducendo, nel corso delSei e Settecento, povera e incolore a causa delle rigideconvenzioni che vagliavano la correttezza della espres-sione e della forma stilistica. Ogni termine che suonas-se come volgare o di mestiere, arcaico o dialettale, era

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rigorosamente vietato. Le espressioni semplici, natura-li, in uso nella lingua parlata dovevano essere sostituiteda parole nobili, scelte, «poetiche» o da artificiose peri-frasi. Non si diceva «guerriero» o «cavallo», ma «eroe»e «destriero»; non si poteva dire «acqua» o «tempesta»,ma si doveva dire «l’umido elemento» e «la furia deglielementi». Per Hernani, com’è noto, la battaglia si acce-se sul passo: «Est-il minuit? – Minuit bientôt» [«Èmezzanotte? – Mezzanotte fra poco»], che parve espres-sione troppo comune, troppo diretta e semplice. Larisposta, diceva Stendhal, avrebbe dovuto essere:

... l’heure atteindra bientôt sa dernière demeure.

[«... L’ora | giungerà presto all’ultima dimora»]. Idifensori dello stile classico sapevano benissimo qualera la questione. La lingua di Victor Hugo non era pro-priamente nuova; non se ne udiva altra sulle scene deiboulevards. Ma i classicisti si preoccupavano soltantodella «purezza» del teatro letterario, non dei boule-vards, né del divertimento delle masse. Finché c’era unteatro elevato e una poesia colta, si poteva tranquilla-mente sorvolare su quel che si recitava in periferia; maquando anche sul palcoscenico del Théâtre Français sipoté parlare come meglio garbava, allora non rimase piúnessuna differenza sensibile tra i vari ceti culturali esociali. Da Corneille in poi la tragedia era considerata ilgenere letterario piú elevato; un poeta doveva esordirecon una tragedia e come tragediografo giungeva al colmodella fama. Tragedia e teatro letterario erano il terrenoproprio dell’élite intellettuale; finché esso rimase intat-to, ci si poté sentire eredi del grand siècle. Ma ora del tea-tro letterario si stava impadronendo un dramma popo-lareggiante, che trascurava i problemi psicologici e mora-li della tragedia classica, e ricercava invece il movimen-

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to dell’intreccio, le scene pittoresche, i personaggi inte-ressanti, la violenza dei sentimenti. Il destino del teatroera l’argomento del giorno; nei due campi si sapeva chesi trattava di conquistare una posizione chiave. E in que-sta lotta il personaggio nato, si direbbe, per assumerefigura di simbolo, se non proprio per essere la forza pro-pulsiva, era Victor Hugo, in grazia della sua natura tea-trale e della sua passione per il teatro, del suo caratteresonante e apodittico, della sua sensibilità per tutto ciòche è popolare, volgare, brutalmente efficace.

Nel campo del teatro il romanticismo si trovò di fron-te a una situazione intricatissima. Il teatro popolare,erede dell’antico mimo, della farsa medievale e dellacommedia dell’arte, era stato nel Sei e nel Settecentosoverchiato dal teatro letterario. Ma con la Rivoluzionela produzione popolare aveva preso nuovo impulso e, siapure con influenze del dramma letterario, aveva ricon-quistato una parte delle scene parigine. Alla ComédieFrançaise e all’Odéon si recitavano ancor sempre leopere di Corneille, Racine, Molière e di quegli autori chesi erano adeguati alla tradizione classica e al gusto dicorte, o si erano attenuti alla concezione letteraria deldramma borghese. Invece nei teatri dei boulevards – alGymnase, al Vaudeville, all’Ambigu-Comique, allaGaieté, nei Variétés e Nouveautés – si rappresentavanolavori adatti al gusto e al livello culturale delle masse.Durante e subito dopo la Rivoluzione, stando alle testi-monianze molto dettagliate dei contemporanei, il pub-blico nei teatri muta radicalmente e in genere si fa nota-re la mancanza di esigenze artistiche e il difetto di cul-tura nei ceti che ormai riempiono le platee parigine. Èun pubblico fatto in gran parte di soldati, operai, com-messi di negozio e ragazzi; e, secondo una fonte, appe-na un terzo di loro sa scrivere31. Questo uditorio non sol-tanto domina i teatri plebei dei boulevards, ma giungea minacciare l’esistenza degli eleganti teatri letterari,

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perché attrae anche il pubblico piú raffinato, cosí che gliattori della Comédie Française e dell’Odéon recitanodavanti a sale vuote32.

Durante il Primo Impero, la Restaurazione e lamonarchia di luglio, ecco i generi che figurano nel reper-torio dei teatri parigini: 1) la comédie en cinq acts et envers, genere letterario per eccellenza, e come tale desti-nato alla Comédie Française e all’Odéon (ad esempio,l’Othello di Ducis); 2) la comédie de mœurs en prose che,come erede del dramma borghese, è di tipo piú mode-sto, ma sempre abbastanza stimata, perché l’accolganoi migliori teatri (esempio, il Mariage d’argent di Scribe);3) il drame en prose, cioè il dramma patetico, anch’essorisalente al dramma borghese, ma, per il gusto, inferio-re alla comédie de mœurs (esempio, L’Abbé et l’épée diBouilly); 4) la comédie historique che tratta eventi e per-sonaggi storici non piú come esempi e modelli, ma comecuriosità e offre una serie di scene invece d’una coerenteazione drammatica (gli esempi sono vari e numerosi:dal Cromwell di Mérimée alle Barrìcades di Vitet, com-prendono tutti i tentativi da cui nacque Henri III diDumas); 5) il vaudeville, cioè la commedia musicale o,piú esattamente, la commedia inframmezzata di canzo-ni, uno dei piú diretti precedenti dell’operetta (in que-sta categoria si possono annoverare la maggior parte deilavori di Scribe e dei suoi collaboratori); 6) il mélodra-me, forma ibrida, che ha in comune con il vaudeville l’ac-compagnamento musicale, e con gli altri generi inferio-ri, specialmente col dramma patetico e con quello stori-co, il soggetto serio e spesso tragico.

A spiegare l’enorme produzione nei generi popolari,specie nei due ultimi elencati, e il graduale cedimentodel dramma letterario di maggior pretesa, non basta ilfatto che la Rivoluzione aveva aperto i teatri alle masse,e che erano queste ormai a decidere il successo dell’o-pera; occorre anche ricordare in primo luogo l’effetto

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della censura sul repertorio. La censura napoleonica equella della Restaurazione impedivano che nel drammaletterario piú elevato si discutessero questioni di attua-lità o si descrivessero i costumi della classe dominante.Invece la farsa, la commedia musicale, e il melodrammaerano piú liberi, perché erano presi meno sul serio e sipensava che non valesse la pena di preoccuparsene. Allafranca descrizione di costumi e situazioni, inammissibi-le alla Comédie Française, non si ponevano ostacoli neiteatri dei boulevards: e ciò spiega l’attrattiva che que-sti esercitavano sugli autori e sul pubblico33. Le formedrammatiche piú importanti e interessanti per la suc-cessiva evoluzione del teatro sono il vaudeville e il melo-dramma; essi costituiscono la vera svolta nella storiadel teatro moderno e la transizione dal dramma classi-co a quello romantico. Per essi il teatro torna ad essereun divertimento, riacquista la sua vivacità, la sua evi-denza. Dei due, il melodramma ha la struttura piú com-plessa e la genealogia piú ramificata. Uno dei suoi nume-rosi precedenti è il monologo con accompagnamentomusicale, la forma originaria di quell’ibrido genere cheè vivo ancor oggi nei programmi dei filodrammatici, eche nel Pygmalion di Rousseau (1775) ha il primo esem-pio noto. Di qui comincia a rinnovarsi la recita conaccompagnamento musicale, forma di origine antichis-sima. Un’altra fonte del mélodrame, tecnicamente assaipiú ricca, è il dramma borghese di De la Chaussée, Dide-rot, Mercier e Sedaine, che dalla Rivoluzione in poi èdiventato, per la sua natura lacrimosa e moraleggiante,carissimo ai ceti piú umili. Ma a preparare il melo-dramma è soprattutto la pantomima. Le cosiddette pan-tomimes historiques et romanesques cominciano ad appa-rire nell’ultimo terzo del Settecento. Dapprima tratta-no soggetti mitologici e leggendarî, come Ercole e Onfa-le, Rosaspina, La maschera di ferro, piú tardi anche temicontemporanei, come la Bataille du général Hoche. Sono

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serie di quadri a mo’ di rivista, per lo piú tumultuosi,senza coerenza organica né sviluppo drammatico e pre-diligono le situazioni in cui prevalgano il mistero e il pro-digio, spettri e spiriti, carceri e sepolcri. A poco a poconelle singole scene vengono inseriti brevi passi esplica-tivi e dialoghi, e cosí durante la Rivoluzione e nell’epo-ca successiva questi lavori si sviluppano nelle curiosepantomimes dialoguées e finiscono nel mélodrame à grandspectacle, che lentamente va perdendo il suo caratterecoreografico e gli elementi musicali, e diventa la com-media d’intreccio, fondamentale per la storia del teatroottocentesco. Sulla trasformazione del melodrammainfluiscono soprattutto i romanzi neri della Radcliffe edei suoi imitatori. Di qui derivano quegli effetti daGrand Guignol che esso presenta, e anche certi suoiaspetti criminali.

Ma tutti questi influssi modificano e arricchisconosolo la forma del melodramma, la sua essenza rimane pursempre il conflitto del dramma classico. Il melodrammanon è che la tragedia in veste popolare, o, se si vuole,degenerata. Pixérécourt, il principale esponente di que-sto genere letterario, è perfettamente conscio dell’affi-nità dell’arte sua con il teatro popolare, ed erra solo nelsupporre fra il melodramma e il mimo una comune natu-ra e una continuità storica34. È vero che egli riconosceil giusto nesso che lega il mimo ai misteri medievali, aldramma pastorale e all’arte di Molière, ma non sa coglie-re la differenza di fondo che corre tra il carattere schiet-tamente popolare del mimo e il carattere derivato inve-ce di un teatro letterario decaduto poi al livello del granpubblico urbano. Il melodramma è tutt’altro che un’ar-te spontanea e ingenua; segue invece i raffinati principîformali che la tragedia si era elaborata in un lungo ecosciente sviluppo, sia pur interpretandoli piú rozza-mente, senza le finezze psicologiche e le bellezze poeti-che della forma classica. Formalmente, il melodramma

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è il genere piú convenzionale, schematico e artificiosoche si possa pensare: un canone in cui non c’è posto pernovità e spontaneità, per elementi di spregiudicato natu-ralismo. Esso presenta una struttura rigorosamente tri-partita, con una situazione iniziale di forte contrasto, unurto violento e un dénouement in cui la virtú trionfa eil male è punito: insomma un’azione molto evidente esommaria, in cui l’intreccio prevale sui caratteri e le figu-re sono sempre le stesse: l’eroe, l’innocente perseguita-to, il malvagio e il tipo comico35. Sugli eventi dominauna fatalità cieca e crudele; ma assume anche un ener-gico spicco la morale che, veramente, per la sua scipitatendenza a tutto accomodare, premiando i buoni epunendo i cattivi, non corrisponde piú al carattere eticodella tragedia, ma con essa ha in comune il pathos subli-me, sebbene spinto all’esagerazione. Il melodrammarivela la sua dipendenza dalla tragedia anzitutto perl’osservanza delle tre unità o almeno per l’inclinazionea non trascurarle. Pixérécourt si permette mutamenti diluogo fra un atto e l’altro, ma in questi casi il mutamentonon salta troppo agli occhi, e solo in Charles le Téméraire(1814) egli cambia la scena nel corso di un atto. Ma sene scusa in una nota, che costituisce una singolare indi-cazione dei suoi principî classici: «Accade per la primavolta che io mi permetta un’infrazione delle regole», egliassicura. In generale Pixérécourt mantiene anche l’unitàdi tempo: per lo piú nei suoi lavori tutto si svolge in ven-tiquattr’ore. Solo nel 1818, con la Fille de l’exilé ou huitmois en deux heures egli segue un nuovo criterio, scu-sandosene anche questa volta36. Invece il mimo, che con-sta di una sola scena naturalistica, ritratta dalla vita, odi una libera serie di scene del genere, non ha un’azio-ne stereotipa, riducibile a schema rigido, né caratteritipici o fuor del comune, né una severa morale, né unostile idealizzato, distinto dalla lingua parlata. Il melo-dramma ha in comune col mimo il dinamismo delle

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scene e la violenza degli effetti, i mezzi abborracciati eil carattere popolare dei temi; ma per altri aspetti inve-ce si attiene rigidamente all’ideale stilistico della trage-dia classica. Il convenzionalismo di una forma non èsempre il segno di una destinazione elevata.

La varietà moderna del mimo non è il melodramma,bensí il vaudeville, che è assai piú affine all’antico tea-tro popolare per la sua azione episodica, disarticolata inscene singole, per le canzoni intercalate, i tipi popolaritratti dalla vita quotidiana, lo stile fresco, piccante, chepare improvvisato, sebbene non vi manchino influssi let-terari. Tra il 1815 e il 1848 questo genere presenta unagrande fecondità, e produce una folla di lavori e lavo-retti tenui, leggeri, divertenti, oltre alle numerose com-medie di Scribe. La costernazione dei letterati per l’ab-bondanza e il successo di tale produzione si può imma-ginare solo ricordando come si reagí alla marcia trion-fale del film. Durante la Rivoluzione la commedia si eraesaurita, come già prima era avvenuto della tragedia; ecome questa era degenerata rozzamente nel melodram-ma, cosí il vaudeville fu una rozza degenerazione dellacommedia. Ma né l’uno né l’altro uccisero il dramma,che anzi ne uscí rinnovato; infatti il dramma romantico– Hernani di Victor Hugo, l’Antony di Dumas – altronon era che il mélodrame parvenu; e il moderno drammadi costume, di Augier, Sardou e Dumas figlio, non fuche una varietà del vaudeville37.

Pixérécourt scrisse fra il 1798 e il 1834 circa cento-venti lavori, di cui molti furono rappresentati migliaiadi volte. Per trent’anni il melodramma dominò la vitadel teatro parigino, e il suo favore cessò solo quando ilgusto del pubblico cominciò a elevarsi, e le crudezze diquei lavori, il loro difetto di logica, l’insufficiente moti-vazione e il linguaggio innaturale apparvero sempre piúfastidiosi. Ma i romantici avevano un debole per il melo-dramma, non solo per la loro opposizione ai ceti colti

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conservatori, ma anche per la loro maggior spregiudica-tezza che li portava a comprendere meglio i pregi extra-letterari, schiettamente teatrali del genere. CharlesNodier si dichiarò subito fautore entusiasta del melo-dramma che non esitò a definire «la seule tragédie popu-laire qui convienne à notre époque» [«La sola tragediapopolare che convenga alla nostra epoca»]38; e PaulLacroix indica Pixérécourt come il drammaturgo che svi-luppa e conclude gli spunti di Beaumarchais, Diderot,Sedaine e Mercier39. L’inaudito successo, l’opposizionedei circoli ufficiali, la particolare predilezione dei roman-tici per gli effetti melodrammatici, i colori violenti, lesituazioni sensazionali, gli accenti forti, tutti questi ele-menti hanno fatto sí che nel dramma romantico si sianoconservati tanti caratteri del teatro plebeo. Ma dal melo-dramma il romanticismo riprese soltanto quel che erasuo dall’inizio, o in germe era già implicito nel prero-manticismo e nello Sturm und Drang, e che al teatro erastato trasmesso in parte dal racconto terrifico inglese eda quello tedesco di briganti e cavalieri. Il teatro roman-tico ha infatti in comune col melodramma anzitutto gliacuti contrasti e gli ardenti conflitti, l’azione complica-ta, avventurosa, cruenta e selvaggia; il predominio delprodigio e del caso, i passaggi bruschi, i mutamentiimprovvisi, per lo piú ingiustificati, gli incontri e i rico-noscimenti insperati, il continuo avvicendarsi di ten-sione e distensione; la violenza, l’irresistibile brutalitàdegli espedienti; il raccapricciante, il sinistro, il demo-niaco che sorprende e soggioga lo spettatore; il mecca-nismo già bell’e pronto della vicenda, gli intrighi e lecongiure, i travestimenti e gli inganni, le macchinazio-ni e i tranelli; infine gli effetti teatrali e il repertorio sce-nico, senza cui non si concepisce un dramma romanti-co: imprigionamenti e ratti, contrattempi e salvataggi,tentativi di fuga e assassini, salme e bare, carceri e crip-te, torri e segrete, pugnali, daghe, fiale di veleno, anel-

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li, amuleti e tesori di famiglia, lettere intercettate, testa-menti perduti, contratti segreti trafugati. Il romantici-smo non era certo schizzinoso; ma basta pensare a Bal-zac, il piú grande scrittore del secolo e il piú discutibi-le in fatto di gusto, per accorgersi come siano ormairistretti, e in conclusione trascurabili, i criteri del gustoclassico.

Che il teatro si andasse sviluppando in senso popo-laresco lo prova non tanto l’esistenza in sé del melo-dramma, quanto la buona fede con cui Pixérécourt spac-ciava i suoi prodotti. Egli riteneva cattivi, falsi, immo-rali e pericolosi i lavori dei romantici, ed era profonda-mente persuaso che i suoi ambiziosi concorrenti avesse-ro meno cuore di lui e meno senso di responsabilitàmorale40. A questo proposito Faguet nota giustamenteche bisogna credere alla robaccia per farne di buona,destinata al successo. D’Ennery, per esempio, eramiglior scrittore e persona piú intelligente di Pixéré-court, ma scriveva i suoi melodrammi senza convinzio-ne, unicamente per guadagnare, e cosí non riuscí nem-meno una volta a scriverne di buoni41; invece Pixéré-court credeva di adempiere a una missione e non vole-va aver niente in comune col nuovo dramma romanti-co. I romantici invece devono a lui anzitutto il senso delvero teatro e il contatto con il gran pubblico. A luianche devono se hanno potuto avere una parte cosíimportante nello sviluppo della pièce bien faite [Drammaben fatto]; e tutto l’Ottocento gli deve la rinascita di unvivace teatro popolare che, paragonato a quello del Seie del Settecento, può risultare farraginoso e spesso tri-viale, ma ha avuto il merito di evitare che il dramma sivolatilizzasse in mera letteratura. Era destino di questosecolo che, ogni qualvolta l’elemento poetico si affer-mava nel dramma, finisse per minacciarne il diverti-mento, l’efficacia e l’evidenza scenica. Già nell’etàromantica i due elementi vengono a conflitto, per cui o

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il successo teatrale o la perfezione poetica vengono sacri-ficati. Alessandro Dumas tendeva al dramma robusto,fatto per la scena, Victor Hugo, alla soverchiante elo-quenza, e la stessa alternativa si presentò ai loro suc-cessori; soltanto in Ibsen le due opposte tendenze tro-varono un equilibrio armonico, se pur precario.

L’Inghilterra aveva avuto già nel Seicento la sua rivo-luzione politica e un secolo dopo quella industriale e arti-stica; al tempo della gran contesa tra classici e romanti-ci in Francia, qui non restava quasi nulla della tradizio-ne classica. Il romanticismo inglese ebbe cosí uno svi-luppo piú continuo e coerente di quello francese e incon-trò minor resistenza fra il pubblico; anche politicamen-te fu meno diviso che in Francia. All’inizio esso era net-tamente liberale e guardava con schietta simpatia allaRivoluzione; la lotta contro Bonaparte portò poi a un’in-tesa fra conservatori e romantici, e solo dopo la cadutadi Napoleone fra questi ultimi tornò a prevalere il libe-ralismo. L’unità di un tempo tuttavia non fu piú ritro-vata; non si vollero dimenticare tanto presto gli «inse-gnamenti» della Rivoluzione e del dominio napoleoni-co, e molti degli antichi liberali, fra cui i Laghisti, rima-sero antirivoluzionari. Walter Scott era e rimase untory; invece Godwin, Shelley, Leigh Hunt e Byron rap-presentarono il radicalismo prevalente nella giovanegenerazione. Il romanticismo inglese nacque, in sostan-za, dalla reazione degli elementi liberali alla rivoluzioneindustriale; quello francese, dalla reazione dei ceti con-servatori alla rivoluzione politica. Il rapporto fra roman-ticismo e preromanticismo in Inghilterra fu assai piústretto che in Francia, dove il classicismo rivoluziona-rio spezzò la continuità dei due movimenti. In Inghil-terra fra il romanticismo e la rivoluzione industrialeormai in atto correva un rapporto sostanzialmente ana-logo a quello che era intercorso tra preromanticismo eprodromi dell’industrializzazione. Nel Deserted Village

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[Il villaggio abbandonato] di Goldsmith, nei Satanic Mills[I mulini diabolici] di Blake e nell’Age of Despair [L’etàdisperata] di Shelley si esprime su per giú il medesimostato d’animo. La passione dei romantici per la naturaè inconcepibile senza il distacco fra città e campagna,come il loro pessimismo senza lo squallore e la miseriadelle città industriali. Essi sono pienamente consci diquanto accade e vedono esattamente che cosa significhiil convertirsi del lavoro umano in semplice merce.Southey e Coleridge nella disoccupazione periodica rico-noscono la conseguenza inevitabile dell’anarchica pro-duzione capitalistica, e Coleridge sottolinea che secon-do la nuova concezione del lavoro l’imprenditore com-pera e l’operaio vende qualcosa che essi non avrebberoil diritto di comprare né di vendere, «la salute, la vita,il benessere del lavoratore»42.

Al termine del conflitto con Napoleone, l’Inghilter-ra, benché non esausta, si trova indebolita e disorienta-ta, in una condizione cioè particolarmente adatta perchéla società borghese dubiti delle basi stesse della propriaesistenza. Questo processo viene avviato dai piú giova-ni fra i romantici, la generazione di Shelley, Keats eByron. Il loro intransigente umanesimo è la protestacontro la politica di sfruttamento e di oppressione; laloro vita ribelle alle convenzioni, il loro aggressivo atei-smo e la loro spregiudicatezza morale sono le varie formedella loro lotta contro la classe che dispone dei mezzi persfruttare e opprimere. Persino nei suoi esponenti con-servatori, come Wordsworth e Scott, il romanticismoinglese è un movimento in certo modo democratico, checontribuisce a rendere la letteratura popolare. Il propo-sito di Wordsworth, di avvicinare la lingua poetica allalingua parlata, è un esempio caratteristico di questa ten-denza, benché la «naturale» dizione poetica di cui eglisi serve non sia, in realtà, piú semplice e spontanea del-l’antica lingua letteraria, ch’egli rifiuta perché artificio-

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sa. Se essa è meno dotta, tanto piú complicate ne sonole premesse psicologiche soggettive. E per quanto riguar-da l’impresa di descrivere se stesso e la propria evolu-zione spirituale, in un poema lungo quanto l’epopeaomerica, questa sì, rispetto all’obiettività dell’antica let-teratura, è un’azione, rivoluzionaria e per il nuovo sog-gettivismo forse significativa quanto Poesia e verità diGoethe; ma la «popolarità» e la «naturalezza» di unasimile impresa sono piú che dubbie. Nel suo saggio suWordsworth, Matthew Arnold, parlando di certi difet-ti del poeta, osserva che anche Shakespeare, natural-mente, ha i suoi punti deboli; ma se nei Campi Elisi glie-ne potessimo parlare, certo risponderebbe di essernepienamente consapevole. «Del resto, – aggiungerebbeforse sorridendo, – che fa se una volta tanto ci si lasciaandare!» Invece, concentrandosi tutto sul proprio io, ilpoeta moderno è portato a sopravvalutare senza umori-smo ogni manifestazione personale, a far conto del valo-re espressivo di ogni minimo particolare e perde cosí lafelice noncuranza con cui l’antico poeta lasciava sgorgarei suoi versi.

Per il Settecento la poesia era espressione di idee;senso e scopo delle immagini poetiche era la spiegazio-ne e l’illustrazione di un contenuto ideale. Nella poesiaromantica invece l’immagine poetica è non il risultato,ma la fonte delle idee43. La metafora le genera, e noiabbiamo il senso che la parola si renda indipendente ediventi per se stessa poesia. Apparentemente i roman-tici vi si abbandonano senza resistenza, esprimendoanche cosí la loro concezione irrazionale dell’arte. Puòdarsi che il Kubla Khan di Coleridge sia stato un casolimite; ma certo è sintomatico. I romantici credevano auna forza soprasensibile, emanante dall’anima delmondo, come origine dell’ispirazione poetica, e la iden-tificavano con la spontanea forza creatrice della parola.Lasciarsene dominare, era per loro il segno del genio

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artistico. Naturalmente già Platone parlava dell’«entu-siasmo», dell’ispirazione divina dei poeti, e la fede inessa è propria di ogni tempo in cui poeti e artisti voglio-no apparire quasi una casta sacerdotale. Ma non era maiaccaduto che l’ispirazione fosse concepita come unafiamma che s’accende da sé, come una luce che ha nel-l’anima stessa del poeta la sua sorgente. La sua originedivina riguarda solo la forma, non già il contenuto; nullane viene all’anima, ch’essa già non possegga. Cosí ven-gono mantenuti i due principî: il divino e l’individuale;e il poeta diventa il dio di se stesso.

Il panteismo estatico di Shelley è il paradigma diquesta autodeificazione. Manca in esso ogni traccia diabnegazione devota, la rinunzia di chi è pronto a scom-parire di fronte a ciò che è sublime. Il perdersi nel Tuttoè volontà di dominio, non già sottomissione. Il mondogovernato dalla poesia e dal poeta è considerato il piúalto, il piú puro, il piú schiettamente divino, e la divi-nità stessa non conosce altri criteri che quelli derivatidalla poesia. Shelley fonda la sua visione cosmica, in per-fetto accordo con Friedrich Schlegel e con il romantici-smo tedesco, su una mitologia a cui, però, egli stesso noncrede. Accade in lui che la metafora diventa mito, nongià l’inverso, come presso i Greci. Ma anche questomitologizzare non è che un modo di evadere dalla realtàconsueta, volgare, inerte; un ponte per ricongiungersialla propria vita piú intima e alla propria sensibilità. Peril poeta non è che un mezzo per ritrovarsi. Il mito anti-co era sorto da una simpatia e da un legame con larealtà; la mitologia romantica nasce dalle sue rovine e incerto modo come un surrogato. La visione cosmica diShelley s’impernia sull’idea di una grande lotta, estesaa tutto il mondo, tra il principio del bene e quello delmale; e rappresenta una idealizzazione grandiosa del-l’antagonismo politico che costituisce la piú profonda edecisiva esperienza del poeta. Il suo ateismo come è

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stato notato, è una rivolta contro Dio piú che una nega-zione di Dio; esso combatte un oppressore e un tiran-no44. Shelley è il ribelle nato, che in tutto quanto è legit-timo, costituzionale e convenzionale vede l’opera di unavolontà dispotica e per il quale l’oppressione, lo sfrut-tamento e la violenza, l’ottusità, la sozzura e la menzo-gna, i re, le classi dominanti e le Chiese formano con ilDio della Bibbia un’unica forza compatta. Il carattereastratto e fragile di quest’idea mostra chiaramente quan-to vicini siano ormai, a quest’epoca, gli scrittori inglesie quelli tedeschi. L’isterismo antirivoluzionario ha avve-lenato l’atmosfera spirituale in cui potevano ancoraesprimersi liberamente gli scrittori inglesi del Settecen-to; le manifestazioni dell’epoca assumono un aspettoirreale, rispecchiano un atteggiamento di fuga e nega-zione del mondo, che fin qui era ignoto alla letteraturainglese. I migliori poeti della generazione di Shelley nontrovano consenso nel pubblico45; si sentono senza patriae fuggono all’estero. Questa generazione in Inghilterraè condannata non diversamente che in Germania o inRussia; Shelley e Keats vengono schiacciati dal lorotempo con la stessa inesorabilità che Höderlin e Kleisto Pu∫kin e Lermontov. E anche il risultato ideologico èdovunque lo stesso: idealismo in Germania, «l’art pourl’art» in Francia, estetismo in Inghilterra. Dappertuttosi cessa di lottare distogliendosi dalla realtà e rinun-ziando a mutare la struttura sociale esistente. In Keatsquesto estetismo va già unito con una profonda malin-conia, con il lamento sulla bellezza che non è vita, cheanzi è negazione della vita; negazione di quella vita e diquella realtà, che al poeta, adoratore della bellezza, sonoeternamente negate, inaccessibili come la santità, l’e-roismo, l’amore, come tutto ciò ch’è immediato, natu-rale, spontaneo. Già si presente la rinunzia flaubertia-na, la rassegnazione dell’ultimo grande romantico, a cuigià era ben chiaro che la vita è il prezzo della poesia.

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Fra tutti i celebri romantici, è Byron ad esercitarel’influsso piú profondo e piú vasto sui contemporanei.Ma egli non è certo il piú originale; è soltanto il piú feli-ce nel formulare il nuovo ideale della personalità. Né ilmal du siècle, né l’eroe solitario e orgoglioso, segnato daldestino, cioè nessuno dei due elementi fondamentalidella sua poesia è veramente una sua invenzione. Lamalinconia byroniana viene da Chateaubriand e dallaletteratura dell’emigrazione francese; l’eroe byronianodiscende da Saint-Preux e da Werther. Il senso dell’in-conciliabilità fra le esigenze morali dell’individuo e leconvenzioni sociali già per Rousseau e per Goethe carat-terizzava l’uomo nuovo, e già Sénancour e Constantdescrivono l’eroe come un eterno esule, che porta in séla maledizione della sua natura asociale. Ma nell’operaloro il carattere asociale dell’eroe era ancora connessocon un senso di colpevolezza, e si palesava in rapporticomplicati e ambivalenti con la società; solo Byron lotrasforma in aperta ribellione senza piú scrupoli; inun’accusa ai contemporanei da parte dell’eroe che rendegiustizia a se stesso e si commisera lamentosamente:Byron rende esteriore e volgare il gran problema delromanticismo; l’intimo tormento del suo tempo in luidiventa moda, atteggiamento mondano. Grazie a luil’inquietudine del romantico, senza piú scopo nella vita,diventa un contagio, la «malattia del secolo»; il sensodell’isolamento degenera in un culto della solitudinepieno di rancore, la perdita degli antichi ideali in anar-chico individualismo, il tedio della civiltà e della vita inun gioco affettato con la vita e la morte. Alla maledi-zione da cui la sua generazione si sentiva oppressa Byrondà un aspetto seducente: i suoi eroi sono degli esibizio-nisti che ostentano le loro ferite, dei masochisti che sicoprono pubblicamente di colpe e di vergogna, dei fla-gellanti che si torturano con autoaccuse e rimorsi e

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rivendicano per sé, con lo stesso orgoglio, le buone e lecattive azioni.

L’eroe byroniano, questo tardo epigono del cavalie-re errante, altrettanto amato e quasi altrettanto longe-vo, domina tutta la letteratura ottocentesca e imperversaancora negli odierni film di criminali e di gangsters. Certisuoi tratti sono antichissimi, almeno antichi quanto ilromanzo picaresco. In questo infatti si trova già la figu-ra del reietto che dichiara guerra alla società ed è nemi-co imperterrito dei grandi e dei potenti quanto amico ebenefattore dei deboli e dei poveri: esteriormente rudee spiacevole, si rivela alla fine schietto e magnanimo; èinsomma quale la società lo ha fatto. Tra Lazarillo deTormes e Humphrey Bogart l’eroe byroniano è solo unanello intermedio. Già molto tempo prima di Byron ilbriccone era diventato l’inquieto pellegrino che regola-va i suoi passi sulle stelle, l’eterno straniero tra gli uomi-ni, che cercava la felicità perduta senza trovarla mai,l’amaro misantropo che portava il proprio destino conl’orgoglio di un angelo caduto. Tutti questi motivi esi-stevano già in Rousseau e in Chateaubriand; di nuovonella figura byroniana non ci sono che i tratti satanici enarcisistici. L’eroe romantico, che Byron introduce nellaletteratura, è un’uomo misterioso; nel suo passato c’è unsegreto, un tremendo peccato, un fatale errore o unaomissione irreparabile. Egli è un proscritto, ognuno losente, ma nessuno sa che cosa si celi sotto il velo deltempo, ed egli non lo solleva. Si avvolge nel mistero delsuo passato come in un manto regale: solitario, tacitur-no, inaccessibile. Da lui emana dannazione e rovina. Èspietato con se stesso e con gli altri. Non conosce per-dono e non chiede grazia né a Dio, né agli uomini. Nonrimpiange nulla, non si pente di nulla e, nonostante lasua vita disperata, nulla vorrebbe mutare in quel che èstato e in quel ch’egli ha fatto. È rude e selvatico, mad’alta origine; i suoi lineamenti sono duri e impenetra-

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bili, ma nobili e belli; da lui emana uno strano fascinoa cui nessuna donna può resistere, mentre ogni uomorisponde con amicizia o inimicizia. Egli è colui che ildestino incalza e che diventa per gli altri il destino; ilprototipo non solo degli irresistibili e fatali amanti chetroviamo nella letteratura moderna, ma in certo modoanche dei demoni di sesso femminile, dalla Carmen diMérimée alle vamps di Hollywood.

Se non è stato proprio Byron a scoprire l’«eroe sata-nico» che, ossesso e accecato, getta nella perdizione sestesso e chiunque venga a contatto con lui, certo egli neha fatto l’uomo «interessante» per eccellenza, Gli hadato i caratteri piccanti e seducenti che da allora gli sonorimasti, lo ha tramutato nell’immoralista, nel cinico,irresistibile proprio per il suo cinismo. Per il disincan-tato mondo romantico in cerca di una nuova fede l’ideadell’«angelo caduto» aveva una fortissima attrattiva. Cisi sentiva colpevoli, ribelli a Dio, ma nella dannazionesi voleva essere almeno come Lucifero. Anche i seraficiLamartine e Vigny finirono per passare al satanismomettendosi nel seguito degli Shelley e dei Byron, deiGautier, dei Musset, dei Leopardi e degli Heine46. Que-sto atteggiamento, traendo origine dal contraddittorioatteggiamento dei romantici di fronte alla vita, scaturi-va senza dubbio da un’inquietudine religiosa, ma, spe-cialmente in Byron, si trasformò in scherno per tutto ciòche appariva sacro alla borghesia. Si trattava però diun’avversione diversa da quella della bohème franceseper il borghese: l’anticonvenzionalismo plebeo di Gau-tier e dei suoi amici rappresentava un attacco dal basso;l’immoralismo di Byron, invece, un attacco dall’alto.Ogni espressione piú o meno tipica di Byron tradisce losnobismo che accompagna le sue idee liberali, ogni suatestimonianza svela l’aristocratico, certo non piú salda-mente radicato nella sua posizione sociale, ma fedele allepose della casta. Soprattutto l’isterica passionalità con

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cui, nelle opere tarde, egli si scaglia contro l’aristocra-zia che lo scomunica, mostra quanto profondamenteegli si senta legato a quella classe e, nonostante tutto,quanta autorità e attrattiva essa abbia ancora per lui47.«La morte non è un argomento», dice Hebbel. CertoByron con la sua morte eroica non ha provato nulla. Essanon gli si addice, bench’egli fosse di sentimenti rivolu-zionari. Byron cercò la morte «perché il suo equilibriospirituale era turbato» e morí «coronato di pampini»come voleva morire Hedda Gabler.

Dalle inclinazioni aristocratiche di Byron dipendeanche la sua fedeltà all’estetica classicistica e la sua pre-dilezione per Pope. Di Wordsworth gli spiaceva il tonofreddamente solenne, prosaicamente untuoso; e disprez-zava Keats per la sua «volgarità». Da queste preferen-ze classiche derivano anche lo spirito distaccato e ironi-co, la forma vivace delle opere byroniane, soprattutto ildisinvolto tono discorsivo del Don Juan. Tuttavia è inne-gabile una connessione fra la scorrevolezza del suo stilee la dizione «naturale» di Wordsworth; sono entrambiaspetti della reazione al pathos retorico del Sei e del Set-tecento. Il fine comune era quello di raggiungere unamaggior flessibilità della lingua, e proprio come maestrodi uno stile fluido, agilissimo, apparentemente improv-visato, Byron destò il maggior entusiasmo fra i contem-poranei. Né la grazia alata di Pu∫kin, né l’eleganza diMusset sarebbero concepibili senza questo nuovo tono.Il Don Juan con il suo particolare accento non solo fuesemplare per la poesia arguta, maliziosa, satirica, ma èall’origine del moderno romanzo d’appendice48. I primilettori di Byron probabilmente appartennero alla nobiltàe all’alta borghesia; ma il suo vero, grande pubblico eglilo trovò nelle file di quella borghesia scontenta, pienadi rancore, incline al romanticismo, dove ogni fallito siriteneva un Napoleone incompreso. L’eroe byronianoera concepito in modo che ogni giovane deluso nelle sue

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speranze, ogni fanciulla offesa nel suo amore vi si potes-se riconoscere. Incoraggiando il lettore a tale intimità,Byron non fa che continuare la tendenza già palese inRousseau e in Richardson, ed è questa la ragione piúprofonda del suo successo. L’intimità del vincolo fra let-tore ed eroe provocava un interesse tutto particolare perla persona dell’autore. Anche questo era fenomeno giànoto ai tempi di Rousseau e di Richardson, tuttavia sipuò dire che fino all’età romantica la vita privata delpoeta fosse rimasta ignota ai lettori. Ma da quandoByron prese a farsi réclame, il poeta divenne il benia-mino del pubblico, e i lettori – specialmente le lettrici– ebbero con lui quei singolari rapporti che sogliono sta-bilirsi fra lo psicanalista e il suo paziente, o fra un astrodel cinematografo e le sue adoratrici.

Byron fu il primo poeta inglese che esercitò un influs-so importante sulla letteratura europea; Walter Scott fuil secondo. Grazie a loro divenne realtà quel che Goetheintendeva per «letteratura universale». La loro scuola siestese a tutto il mondo letterario, godendovi la più altaautorità, introdusse nuove forme, nuovi valori, avviònutriti scambi culturali fra l’uno e l’altro paese d’Euro-pa, quasi flussi e riflussi che portavano seco nuovi inge-gni, spesso sollevandoli al di sopra dei loro maestri.Basta pensare a Pu∫kin e a Balzac per capire l’ampiezzae la fecondità della scuola. Forse la moda byroniana fupiú febbrile e appariscente, ma l’azione di Walter Scott,che è stato detto «il piú fortunato scrittore delmondo»49, fu piú reale e profonda. Da lui procede quelrinnovamento del romanzo naturalistico, il generemoderno per eccellenza, che trasforma l’intero pubbli-co letterario. In Inghilterra il numero dei lettori eravenuto crescendo continuamente già dal principio delSettecento. In questo processo si possono distinguere tretappe: la fase iniziatasi verso il 1710 con i nuovi perio-dici e culminante nel romanzo della metà del secolo; il

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tempo dei pseudostorici romanzi neri, dal 1770 fino al1800; e il periodo del romanzo naturalistico moderno,aperto da Walter Scott. Ad ognuna di queste fasi corri-spose un aumento considerevole di lettori. La primaconquistò alla letteratura di argomento profano unaparte relativamente esigua della borghesia, cioè di genteche fino allora non leggeva nulla, o, al massimo, libri edi-ficanti; nella seconda questo pubblico ingrossò fino acomprendere un’ampia cerchia di borghesi in via diarricchirsi, soprattutto signore; nella terza vi si aggiun-sero altri elementi dell’alta e della piccola borghesia, checercavano nel romanzo divertimento e istruzione. Wal-ter Scott riuscí a raggiungere la popolarità dei romanzineri e sensazionali con i mezzi, ben piú raffinati, deigrandi romanzieri settecenteschi. Egli divulgò le descri-zioni del passato feudale, fino allora lettura esclusiva deiceti superiori50, e nello stesso tempo elevò a vera dignitàletteraria lo pseudostorico romanzo a forti tinte.

L’ultimo grande romanziere del Settecento fu Smol-lett. Il mirabile sviluppo che nel romanzo inglese corri-spose alle conquiste politiche e sociali della borghesia,si arresta verso il 1770. L’improvviso crescere del pub-blico provoca una sensibile decadenza: la richiesta ecce-de di molto il numero dei buoni scrittori, e poiché la pro-duzione viene in ogni modo assorbita, si produce senzafreno né discernimento. L’esigenza delle biblioteche cir-colanti impone il ritmo e determina la qualità. Le cosepiú ricercate, oltre ai romanzi raccapriccianti, sono gliscandali del giorno, i «casi» celebri, le biografie piú omeno romanzate, le relazioni di viaggi e le memoriesegrete, insomma i soliti generi sensazionali. Ne viene,fenomeno inaudito, che gli ambienti colti cominciano adisprezzare il romanzo51. Solo Walter Scott ne restaurail prestigio, trattandolo anzitutto in modo da soddisfa-re l’interesse degli ambienti intellettuali per la storia ela scienza. Non solo egli cerca di offrire ogni volta un

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fedele quadro storico, ma provvede i suoi romanzi diintroduzioni, note e appendici, a sostegno della loroattendibilità scientifica. Se è vero che non si può con-siderare Walter Scott come il vero creatore del roman-zo storico, è tuttavia fuor di dubbio che egli è l’inven-tore del genere storico-sociale, prima affatto ignoto. Iromanzieri francesi del Settecento, Marivaux, Prévost,Laclos e Chateaubriand avevano certo determinato conle loro opere un immenso progresso del romanzo psico-logico, ma non avevano saputo creare l’atmosfera socia-le intorno ai loro personaggi, o li avevano circondati diun ambiente che non esercitava alcun influsso sostan-ziale sulla loro intima struttura. Il romanzo inglese delSettecento può chiamarsi «sociale», in quanto insistemaggiormente sui rapporti fra gli uomini; ma anch’es-so, nel delineare i personaggi, trascura affatto le distin-zioni di classe o la causalità sociale. Invece le figure diWalter Scott ne portano sempre l’impronta52. E poichéin complesso Scott descrive giustamente lo sfondo socia-le delle sue storie, nonostante le sue opinioni di conser-vatore egli diventa un campione del liberalismo e delprogresso53.

Per quanto avverso egli sia, anche politicamente, allaRivoluzione, il suo metodo sociologico sarebbe incon-cepibile senza questa svolta della storia. Solo con essa,infatti, si sviluppa il senso delle differenze di classe ediviene un dovere per ogni artista onesto di rappresen-tare nei suoi scritti la realtà che a quelle corrisponde.Come scrittore, il retrivo Scott è piú profondamentelegato alla Rivoluzione del radicale Byron. Certo nonbisogna sopravvalutare il «trionfo del realismo», comeEngels chiama l’astuzia dell’arte che spesso fa strumen-ti del progresso anche gli spiriti conservatori. Di solitoin Scott la comprensione, l’entusiasmo per il «popolo»non è che un atteggiamento poco impegnativo, e in com-plesso il popolo minuto ch’egli descrive rimane conven-

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zionale e schematico. L’atteggiamento conservatore diScott è però meno aggressivo dei sentimenti antirivolu-zionari di Wordsworth e di Coleridge, che sono espres-sione di un amaro disinganno e di un improvviso muta-mento di idee. È vero che Scott, come generalmente iromantici reazionari, è entusiasta della cavalleria medie-vale e ne deplora la decadenza; ma nello stesso tempoanch’egli, come Pu∫kin e Heine, critica tutta la strava-ganza romantica. Con la stessa chiaroveggenza con cuiPu∫kin constata l’affettazione di Oneghin, in RiccardoCuor di Leone egli riconosce lo «splendido, ma inutilecavaliere della leggenda»54.

Delacroix, il primo e il massimo esponente della pit-tura romantica, già si contrappone al romanticismo e losupera. Egli rappresenta ormai l’Ottocento, mentre insostanza il romanticismo è ancora Settecento, e nonsolo perché continua il preromanticismo, ma anche per-ché è contraddittorio ma non relativistico, ambivalentenei suoi rapporti spirituali, ma non cosí scisso come ilsecolo xix.

Il Settecento è dogmatico – lo sono un po’ anche isuoi romantici – l’Ottocento è scettico e agnostico. Daogni cosa, perfino dal sentimentalismo e dall’irraziona-lismo, gli uomini del Settecento cercano di trarre unachiara formulazione teorica e una visione universale net-tamente definibile; sono sistematici, filosofi, riforma-tori, si dichiarano favorevoli o avversi a una cosa e spes-so mutano parte, ma prendono posizione, seguono deiprincipî, si attengono a un piano riformatore della vitae del mondo. Invece gli intellettuali dell’Ottocentohanno perduto la fede nei sistemi e nei programmi, evedono il senso e il fine dell’arte nell’abbandonarsi pas-sivamente alla vita, nel coglierne il ritmo, nel conser-varne l’atmosfera e l’intimo accordo; la loro fede è un’ir-razionale, istintiva affermazione della vita; la loro mora-

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le, un adeguarsi alla realtà. Essi non vogliono regolarlané superarla; vogliono viverla e riprodurne l’esperienzanel modo piú diretto, fedele e completo. Li domina unsentimento invincibile che la vita e il presente, i con-temporanei e il mondo circostante, le esperienze e iricordi sfuggano giorno per giorno e si perdano per sem-pre. L’arte diventa il mezzo d’inseguire «il tempo per-duto», la vita che sfugge, eternamente inafferrabile. Ilnaturalismo intransigente non è dei secoli che credonodi possedere saldamente e sicuramente la realtà, ma diquelli che temono di perderla; perciò l’Ottocento è iltempo classico del naturalismo.

Delacroix e Constable stanno sulla soglia del nuovosecolo. In parte sono ancora degli espressionisti roman-tici, che lottano per esprimere l’idea; ma in parte sonogià degli impressionisti, che cercano di cogliere l’ogget-to fuggevole e non credono piú a un equivalente perfettodella realtà. Dei due, Delacroix è il piú romantico; se losi paragona a Constable, appare evidentissima la conti-nuità storica che lega classicismo e romanticismo, distin-guendoli dal naturalismo. Di fronte a questo, classicismoe romanticismo hanno in comune l’esaltazione della vitae dell’uomo, a cui dànno grandezza tragica ed eroica,espressione appassionatamente patetica: caratteri questiancora presenti in Delacroix, ma non in Constable e nelnaturalismo dell’Ottocento. Per Delacroix l’uomo èancora il centro del mondo, mentre per Constable egliè divenuto una cosa fra le cose, riassorbito dall’am-biente. Perciò Constable, sebbene non sia il piú grande,è l’artista piú innovatore del suo tempo. Scacciato l’uo-mo dal centro dell’arte, vi subentra il mondo delle cose,e la pittura non solo acquista un nuovo contenuto, matende sempre piú esclusivamente alla soluzione di pro-blemi tecnici e puramente formali. A poco a poco il sog-getto perde ogni valore estetico, ogni interesse per l’ar-tista, e l’arte diventa piú formalistica che mai. Non

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importa piú affatto che cosa si dipinga, si chiede soltantocome lo si dipinga. Una tale indifferenza al tema non siera avuta neppure col piú disinvolto Manierismo. Maifinora si erano considerati argomenti di ugual valoreartistico un cavolo e una testa di Madonna. Solo ora cheil pittorico costituisce il vero contenuto della pittura,viene meno l’antica gerarchia accademica dei soggetti edei generi. Già in Delacroix, pur cosí legato alla poesia,i motivi letterari costituiscono soltanto l’occasione, nonla sostanza del quadro. Egli nega alla pittura ogni inten-to letterario e, invece di concetti, cerca di esprimerequalcosa di proprio, d’irrazionale, simile alla musica55.

L’origine di questo spostarsi dell’interesse dall’uomoalla natura, è da vedere nella scarsa fiducia che la nuovagenerazione ha in sé, nel suo disorientamento, nella suaincerta coscienza sociale, ma soprattutto nel trionfodella visione scientifico-naturalistica cosí lontana daivalori dell’umanesimo. Constable supera l’umanesimoclassico-romantico piú facilmente di Delacroix e diven-ta il primo paesista moderno, mentre Delacroix rimaneessenzialmente «pittore di storia». Ma entrambi incar-nano in ugual misura lo spirito del nuovo secolo per ilmodo scientifico di porsi i problemi pittorici, dandoall’ottica il predominio sulla visione. Lo sviluppo dellostile «pittorico», cominciato in Francia con Watteau einterrotto dal classicismo settecentesco, viene ripreso econtinuato da Delacroix. Per la seconda volta Rubenssovverte la pittura francese; per la seconda volta egli dàorigine a un sensualismo irrazionale ribelle al gusto clas-sico. La massima di Delacroix, per cui un quadro dev’es-sere anzitutto una festa per gli occhi, era anche il mes-saggio di Watteau e fu vangelo per tutto l’impressioni-smo. Il vibrante dinamismo delle forme, il movimentolineare e cromatico, l’agitazione barocca dei corpi e ildissolversi dei colori locali nei loro componenti, tuttoconcorre a creare quest’arte sensuale, che ora permette

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di unire romanticismo e naturalismo, contrapponendo-li entrambi al gusto classico.

In certa misura Delacroix fu ancora una vittima delmal du siècle. Soffriva di gravi depressioni, conosceva ilsenso dell’inutilità e del vuoto, lottava contro un inde-finibile e inguaribile tedio. Era un malinconico, uninsoddisfatto, con il rovello dell’imperfezione. Lo statod’animo di Géricault a Londra, quando scriveva a casa:«Qualunque cosa io faccia, vorrei aver fatto qualcosad’altro», tormentò Delacroix per tutta la vita56. Le sueradici romantiche erano ancor cosí profonde, che non glierano estranee neppure le tentazioni piú brutali. Bastapensare a un’opera come il Sardanapalo (1829) per capi-re quanto posto avessero nel suo spirito il teatrale demo-nismo e l’idolatria di Moloch cari ai romantici. Ma ilromanticismo come atteggiamento pratico, egli lo com-batté; si riconobbe fra i suoi esponenti soltanto conforti riserve, e lo accettò come tendenza artistica soprat-tutto per la larghezza di motivi che offriva alla pittura.Come sostituì un viaggio in Oriente al tradizionale viag-gio a Roma, cosí attinse dalle fonti poetiche dell’anticoe del moderno romanticismo, da Dante e da Shake-speare, da Byron e da Goethe, anziché dall’antichitàclassica. Soltanto l’interesse del soggetto lo legava adAry Scheffer e Louis Boulanger, a Decamps e Delaro-che. Egli odia il falso romanticismo del chiaro di luna ei sognatori incorreggibili, Chateaubriand, Lamartine eSchubert, ch’egli accomuna alquanto arbitrariamente57.Quanto a lui, non volle esser chiamato romantico e negòassolutamente di essere il maestro di quella scuola. Delresto, non aveva nessuna voglia di educare artisti, nédiede mai libero accesso al suo studio; al massimo assu-meva qualche aiuto, ma non allievi58. Nella pittura fran-cese, non ci fu piú nulla di simile alla scuola di David;nessuno sostituí il maestro. Le mete dell’arte eranoormai troppo personali, i criteri di valutazione troppo

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differenziati, perché potessero sorgere scuole di pitturacome quelle di un tempo59.

L’antiromanticismo di Delacroix si esprime anchenella sua ripugnanza per la bohème. Rubens è il suomodello, non solo come artista, ma anche come uomo;e, dopo Rubens e i grandi del Rinascimento, egli è ilprimo e forse l’unico pittore che unisca modi signorili auna grande cultura60. Le sue inclinazioni aristocratichegli fanno odiare ogni esibizionismo e ogni ostentazione;della tradizione della bohème gli rimane una cosa sola:il disprezzo del pubblico. A ventisei anni, egli è già unpittore celebre, ma ancora trent’anni piú tardi scrive: «Ily a trente ans que je suis livré aux bêtes» [«Da trent’an-ni mi si dà in pasto alle bestie»]. Aveva amici, ammira-tori, mecenati, incarichi dallo Stato; ma il pubblico nonlo amò né lo comprese mai. Nella stima che gli si tribu-tava mancava ogni calore. Delacroix è un isolato, un soli-tario in un senso assai piú vero di quello in uso fra iromantici. C’è un solo contemporaneo, ch’egli apprezzie ami senza riserve: Chopin. Né Hugo, né Musset, néStendhal, né Mérimée gli sono particolarmente vicini;egli non prende molto sul serio George Sand, la trascu-ratezza di Gautier lo respinge, Balzac gli dà sui nervi61.Lo straordinario valore che ha per lui la musica, e chelo porta ad ammirare tanto Chopin, è un sintomo dellanuova gerarchia fra le arti e della posizione preminenteche l’estetica del romanticismo assegna alla musica. Essaè l’arte romantica per eccellenza e Chopin è il piúromantico dei romantici. L’affetto per lui è la rivela-zione piú diretta dell’intima affinità di Delacroix con ilromanticismo. Ma il suo giudizio sugli altri grandi musi-cisti tradisce l’incoerenza del suo sentimento. Di Mozartegli parla sempre con la piú viva ammirazione, mentreBeethoven gli sembra troppo arbitrario, troppo roman-tico. In fatto di musica il suo gusto è classicista62, il sen-timentalismo stereotipo di Chopin non lo disturba, ma

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l’«arbitrio» di Beethoven, che dovrebbe essergli moltopiú vicino come artista, lo sorprende e lo confonde.

La musica romantica si contrappone non solo a quel-la classica, ma anche a quella preromantica, in quantoquest’ultime poggiano entrambe sul principio dell’unitàformale e dell’esaltazione dell’effetto finale. La struttu-ra accentrata, in funzione di un’acme drammatica, delleforme musicali nell’età romantica si dissolve, e torna aprevalere il modo aggiuntivo della composizione piúantica. La sonata si disgrega e viene sempre piú spessosostituita da altre forme meno rigide e meno tipiche, dabrevi liriche e bozzetti musicali, come il pezzo caratte-ristico, la fantasia, l’improvviso e l’intermezzo, l’arabe-sco e lo studio, l’improvvisazione e la variazione. Anchele composizioni piú vaste constano spesso di questeforme miniaturistiche, che strutturalmente non costi-tuiscono piú gli atti di un dramma, bensí le scene di unarivista. Una sonata o una sinfonia classica era un micro-cosmo. Una serie di quadretti musicali, come il Carna-val di Schumann o Les années de pélerinage di Liszt, ècome l’album di schizzi di un pittore; può contenere par-ticolari di gran pregio lirico e impressionistico, ma rinun-zia senz’altro a un effetto di insieme e di unità organi-ca. Anche la predilezione per il poema sinfonico, che inBerlioz, Liszt, Rimskij Korsakov, Smetana e altri sot-tentra alla sinfonia, è soprattutto un segno d’inettitudi-ne o di esitazione a rappresentare il mondo come untutto. Del resto, questo mutamento di forme dipendeanche dalle tendenze letterarie dei compositori e dallaloro predilezione per la musica descrittiva. L’ibridismoformale che si può osservare dappertutto, nella musicasi manifesta anche nel fatto che molto spesso il compo-sitore romantico ha notevoli doti di scrittore. Una minorcoerenza strutturale si può constatare anche nella pitturae nella poesia del tempo, ma la disintegrazione delleforme non è mai cosí rapida e cosí vasta come nella musi-

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ca. La differenza si spiega in parte col fatto che le altrearti già da lungo tempo avevano superato la strutturaciclica «medievale», mentre nella musica questa erarimasta in vigore fino a mezzo il secolo xviii è solo dopola morte di Bach l’unità formale aveva cominciato adallentarsi. Richiamarsi ad essa era quindi assai piú faci-le che in pittura, dove tale struttura appariva ormaiaffatto antiquata. Tuttavia l’interesse storico dei roman-tici per la musica antica e il risorgente prestigio di Bachnon contribuiscono che in via secondaria a dissolvere ilrigore formale della sonata; la ragione vera del muta-mento va cercata in una svolta del gusto che si fonda sucause essenzialmente sociologiche.

Il romanticismo porta a termine il processo che s’erainiziato nella seconda metà del Settecento: la musicadiventa esclusivo possesso della borghesia. Non soltan-to le orchestre passano dalle sale dei castelli e dei palaz-zi alle sale da concerto affollate di borghesi, ma anchela musica da camera trova il suo ambiente nelle case bor-ghesi, anziché nei salotti aristocratici. Il gran pubblico,sempre piú assiduo alle manifestazioni musicali, esigetuttavia una musica piú leggera, piú attraente, menocomplicata. Quest’esigenza favorisce il sorgere di formebrevi, piú dilettevoli, piú mosse, ma porta anche a unadivisione tra musica seria e musica leggera. Finora lecomposizioni destinate al semplice divertimento non sidistinguevano per qualità dalle altre; naturalmente c’e-rano opere di valore assai differente, ma ciò non dipen-deva dalla loro destinazione. Come sappiamo, la gene-razione successiva a Bach e a Haendel distingueva giàtra il comporre per proprio diletto e la produzione desti-nata al pubblico; ma adesso si distingue ormai fra lediverse categorie del pubblico stesso. Già le opere diSchubert e di Schumann si possono classificare secondoquesto criterio63; in Chopin e in Liszt la preoccupazio-ne di compiacere anche la parte piú accontentabile del

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pubblico influisce, per cosí dire, su ogni singola opera;e in Berlioz e Wagner porta spesso a un’esplicita civet-teria. Quando Schubert dichiara di non conoscere musi-ca «allegra» ha l’aria di voler prevenire il rimprovero difrivolezza; poiché dall’avvento del romanticismo in poiogni gaiezza appare frivola e superficiale. L’unione dellapiú spensierata leggerezza con la piú profonda serietà,del gioco piú esuberante con l’ethos piú alto, piú puro,piú profondamente trasfiguratore, ancor presente nel-l’opera di Mozart, viene meno; d’ora in poi tutto ciò chenon è solito e volgare assume un’aria cupa e pensierosa.Basta confrontare lo spasmodico espressionismo dellamusica romantica con la serena, chiara umanità diMozart, esente da ogni misticismo, per misurare quelche con il Settecento è andato perduto.

Nei romantici le concessioni al pubblico valgono acompensare l’assenza di ogni ritegno e l’arbitrio dell’e-spressione. Consciamente e volutamente si rendono piúdifficili le composizioni, sia nello spirito che nella tec-nica, sicché esse non si prestano piú ad essere eseguiteda dilettanti. Già le più tarde opere di Beethoven perpianoforte e per orchestra da camera potevano essereeseguite solo da artisti e apprezzate da un pubblico diraffinata cultura musicale. I romantici accrescono anzi-tutto le difficoltà tecniche. Weber, Schumann, Cho-pin, Liszt compongono per i grandi concertisti. La bra-vura, ch’essi esigono dall’esecutore, ha un duplice effet-to: riserva l’esercizio della musica all’esperto e abbagliail profano. Per il virtuoso-compositore, il cui prototipoè Paganini, lo stile brillante non ha altro scopo che disbalordire l’ascoltatore, è l’espressione di una difficoltà,di una complicazione intima. Entrambe le tendenze, siaquella che accresce la distanza tra il dilettante e il vir-tuoso, sia quella che approfondisce la cesura tra musicaleggera e musica difficile, portano alla dissoluzione deigeneri classici. Per sua natura, lo stile del virtuoso ato-

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mizza le grandi forme massicce: il pezzo di bravura èrelativamente breve, scintillante, pungente. Ma ancheuno stile intrinsecamente difficile, originale, volto asublimare pensieri e sentimenti favorisce il dissolversidelle forme universalmente valide, tipiche e di lungorespiro.

La facilità con cui la musica può essere sottoposta aquesta disgregazione formale, l’irrazionalità del suo con-tenuto e l’autonomia dei suoi mezzi espressivi, spiega-no la preminenza che ora assume nel sistema delle arti.Per i classici l’arte sovrana era la poesia, il preromanti-cismo tendeva in parte alla pittura; il romanticismomaturo guarda alla musica. Per Gautier la pittura rap-presentava ancora l’ideale dell’arte, per Delacroix lamusica è ormai la fonte delle piú profonde esperienzeartistiche64. Tale evoluzione culmina nella filosofia diSchopenhauer. Il romanticismo celebra nella musica isuoi maggiori trionfi. La gloria di Weber, Meyerbeer,Chopin, Liszt, Wagner riempie tutta l’Europa e sover-chia il successo dei poeti piú noti. Alla fine dell’Otto-cento la musica è la sola fra le arti che sia rimasta pie-namente romantica. E che il secolo sentisse proprio nellamusica l’essenza dell’arte, è prova chiarissima di quan-to profondamente fosse legato al romanticismo. La con-fessione di Thomas Mann, che riconosce esser stata lamusica di Wagner a svelargli il senso dell’arte, è alta-mente sintomatica. Ancora sullo scorcio del secolo for-mule come «le sang, la volupté et la mort», la romanti-ca ebbrezza dei sensi e il salto mortale della ragione var-ranno a indicare il senso profondo dell’arte. L’Otto-cento non arrivò a concludere la sua lotta con lo spiritoromantico; la decisione doveva toccare al nuovo secolo.

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1 Citato da f. l. lucas, The Decline and Fall ot the Romantic Ideal,1937, p. 36.

2 Per questo concetto della «coscienza epocale», cfr. karl jaspers,Die geistige Situation der Zeit, 1932, 3a ed., pp. 7 sgg.

3 g. lanson, Histoire de la littérature française cit., p. 943.4 marcel proust, Pastiches et mélanges, 1919, p. 267.5 joseph aynard, Comment définir le romantisme?, in «Revue de

littérature comparée», v, 1925, p. 653.6 f. benoit, L’art français ecc. cit., pp. 62-63.7 Cfr. albert pötzsch, Studien zur frühromantischen Politik und

Geschichtsauffassung, 1907, pp. 62-63.8 ortega y gasset, History as a System, in Philosophy and History.

Essays presented to Ernst Cassirer, a cura di r. klibansky e j. h. paton,1936, p. 313.

9 emil lask, Fichtes Idealismus und die Geschichte, 1902, pp. 56 sgg.,83 sgg. Cfr. erich rothacker, Einleitung in die Geschichtswissenschaf-ten, 1920, pp. 116-18.

10 arnold ruge, Die wahre Romantik, Gesammelte Schriften, III, p.134; citato da carl schmitt, Politische Romantik, 1925, 2a ed., p. 35.

11 konrad lange, Das Wesen der Kunst, 1901.12 coleridge, Biographia Literaria, XIV.13 Cfr. albert salomon, Bürgerlicher und kapitalisticher Geist, in

«Die Gesellshaft», iv, 1927, p. 552.14 louis maigron, Le Romantisme et les mœurs, 1910, p. v.15 Citato da ricarda huch, Ausbreitung und Verfall der Romantik,

1908, 2a ed., p. 349.16 e. kirchner, Die Philosophie der Romantik, 1906, pp. 42-43.17 diderot, Paradoxe sur le comédien, 1773.18 c. schmitt, Politische Romantik cit., pp. 24 sgg., 120 sgg.,

148-49.19 Cfr. a. pötzsch, Studien ecc. cit., p. 17.20 fritz strich, Die Romantik als europäische Bewegung, in Wölf-

flin-Festschrift, 1924, p. 54.21 georg brandes, Hauptströmungen der Literatur des 19. Jahrhun-

derts, 1924, I, pp. 13 sgg.22 Cfr. ernst troeltsch, Die Restaurationsepoche am Anfang des 19.

Jahrhunderts, in «Vorträge der Baltischen Literatur- Gesellschaft»,1913, p. 49.

23 c.-m. des granges, La presse littéraire sous la Restauration, 1907,p. 44.

24 a. thibaudet, Histoire de la littérature française ecc. cit., p. 107.25 pierre moreau, Le Classicisme des romantiques, 1932, p. 132.26 henry a. beers, A History of English Romanticism in the 19th Cen-

tury, 1902, p. 173.

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27 a. thibaudet, Histoire de la littérature française ecc. cit., p. 121.28 g. brandes, Hauptströmungen ecc. cit., III, p. 9.29 Ibid., p. 225.30 Ibid., II, p. 224.31 grimod de la reynière, in «Le Censeur dramatique», i, 1797.32 maurice albert, Les Théâtres des Boulevards (1789-1848), 1902.33 c.-m. des granges, La Comédie et les mœurs sous la Restauration

et la Monarchie de Juillet, 1904, pp. 35-41, 43-46, 53-54.34 w. j. hartog, Guilbert de Pixerécourt, 1913, pp. 52-54.35 paul ginisty, Le Mélodrame, 1910, p. 14.36 alexander lacey, Pixerécourt and the French Romantic Drama,

1928, pp. 22-23.37 émile faguet, Propos de théâtre, II, 1905, pp. 299 sgg.38 w. j. hartog, Guilbert de Pixerécourt cit., p. 51.39 Ibid.40 g. de pixérécourt, Dernières réflexions sur le mélodrame, 1843;

citato da hartog, Guilbert de Pixerécourt cit., pp. 231-32.41 faguet, Propos de théâtre cit., p. 318.42 alfred cobban, Edmund Burke and the Revolt against the 18th

Century, 1929, pp. 208-9, 215.43 c. day lewis, The Poetic Image, 1947, p. 54.44 h. n. brailsford, Shelley, Godwin and their Circle, 1913, p. 226.45 francis thompson, Shelley, 1909, p. 41.46 Cfr. fritz strich, Die Romantik als europäische Bewegung, p. 54.47 h. y. c. grierson, The Background of English Literature, 1925, pp.

167-68.48 julius bab, Fortinbras oder der Kampf des 19. Jahrhunderts mit dem

Geist der Romantik, 1914, p. 38.49 w. p. ker, Collected Essays, 1925, I, p. 164.50 henry a. beers, A History of English Romanticism ecc. cit., p. 2.51 j. m. s. tompkins, The Popular Novel in England (1770-1800),

1932, pp. 3-4.52 louis maigron, Le roman historique à l’époque du romantisme,

1898, p. 90.53 g. lukács, Walter Scott and the Historical Novel, in «The Inter-

national Literature», 1938, p. 80.54 walter scott, Ivanhoe, 1820, cap. XLI.55 léon rosenthal, La peinture romantique, 1903, pp. 205-6.56 delacroix, Journal [trad. it., Diario (1804-1863), Torino 1954].

Cfr., tra l’altro, la nota del 26 aprile 1824.57 Ibid., 14 febbraio 1850.58 l. rosenthal, La peinture romantique cit., pp. 202-3.59 paul jamot, Delacroix, in Le Romantisme et l’art, 1928, p. 116.60 Ibid., p. 120,

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61 Ibid., pp. 100-1.62 andré joubin, Journal de Delacroix, 1932, I, pp. 284-85.63 alfred einstein, Music in the Romantic Era, 1947, p. 39.64 delagroix, Journal, passim; in particolare nota del 30 gennaio

1855.

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Capitolo primo

La generazione del 1830

Se il fine della ricerca storica è la comprensione delpresente – né altro potrebbe essere – quest’indagine èormai prossima al suo fine. Ora finalmente proprio degliaspetti moderni del capitalismo dobbiamo occuparci,della società borghese, del naturalismo in arte e in let-teratura, insomma, di quello che è il nostro mondo. Inogni campo ci stanno di fronte nuovi rapporti, nuoveforme di vita, e ci sentiamo come staccati dal passato.Ma in nessun altro settore forse la cesura è cosí profon-da come nella letteratura, dove il confine fra le opere piúantiche, che ormai hanno assunto carattere storico, equelle piú vicine, tuttora piú o meno attuali, costituiscela frattura piú rilevante che si conosca nella storia del-l’arte. Soltanto le opere che rimangono al di qua di que-sto confine ideale costituiscono la letteratura moderna,viva, che tocca direttamente i nostri problemi; dallealtre ci separa un abisso incolmabile, tanto che per com-prenderle ci occorre una disposizione particolare, unparticolare sforzo, e interpretandole si rischia sempre dierrare e di fraintenderle. Noi leggiamo le opere lettera-rie del passato con occhi diversi da quelle del nostrotempo; le godiamo in modo puramente estetico, cioè condistacco, anzi spassionatamente e con la chiara consa-pevolezza del loro carattere fittizio e del nostro illuder-ci. Questo presuppone punti di vista e capacità che man-cano certamente al lettore comune; ma anche il lettore

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guidato da interessi storici ed estetici sente un’immen-sa differenza tra opere che non hanno alcun diretto rap-porto col suo tempo, con il suo senso della vita e con ifini ch’essa persegue, e quelle invece che da tale sensodella vita derivano e cercano di rispondere alla doman-da di come si possa o si debba vivere in questo nostrotempo.

L’Ottocento, o l’epoca che con questo termine comu-nemente si intende, comincia intorno al 1830. Soltantoal tempo della monarchia borghese cominciano a deli-nearsi le basi e le linee generali del secolo: l’ordine socia-le in cui noi stessi siamo radicati, il sistema economicodi cui sussistono ancor oggi i principî e le contraddizio-ni, quella letteratura che, in complesso, è ancor oggi laforma in cui noi ci esprimiamo. I romanzi di Stendhale di Balzac sono i primi libri che trattino della nostravita, dei nostri problemi, di difficoltà morali e di con-flitti ignoti alle generazioni precedenti. Julien Sorel eMathilde de la Mole, Lucien de Rubempré e Rastignacsono i primi uomini moderni della letteratura occiden-tale, i primi nostri contemporanei ideali. In loro per laprima volta troviamo quella sensibilità che è anche lanostra, nel loro carattere troviamo i primi segni di quel-la complicata psicologia che contraddistingue i contem-poranei. Da Stendhal a Proust, dalla generazione del1830 a quella del 1910, noi siamo testimoni di una con-tinua, organica evoluzione intellettuale. Tre generazio-ni si affaticano con gli stessi problemi; per settanta,ottant’anni il corso della storia non devia.

I tratti caratteristici del secolo si possono già tuttiriconoscere intorno al 1830. La borghesia è in pieno svi-luppo, già forte e consapevole della sua potenza. L’ari-stocrazia è scomparsa dalla scena storica, ridotta a unacondizione strettamente privata. Il trionfo della bor-ghesia è indubbio e incontrastato. È vero che i vincito-ri costituiscono una classe capitalistica del tutto conser-

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vatrice e illiberale che adotta, in parte ancora tali equali, le forme e i metodi di governo dell’antica aristo-crazia; ma i suoi membri nella condotta e nel pensieronon sono affatto aristocratici, né tradizionalisti. Già ilromanticismo era stato un movimento essenzialmenteborghese, inconcepibile senza l’emanciparsi delle classimedie; ma i romantici avevano spesso assunto atteggia-menti ancora prettamente aristocratici, lusingati dall’i-dea di trovare il loro pubblico fra la nobiltà. Queste illu-sioni cessano dopo il 183o ed è evidente allora che nonc’è piú un vasto pubblico letterario fuori della borghe-sia. Ma compiuta l’emancipazione borghese, ecco subi-to iniziarsi la lotta politica della classe operaia. E que-sto è il secondo dei movimenti fondamentali per l’Ot-tocento, che prendono l’avvio dalla rivoluzione di luglioe dalla monarchia borghese. Finora le lotte di classe delproletariato si erano confuse con quelle della borghesiae soprattutto per le mire politiche del ceto medio sierano mosse le classi lavoratrici. Solo le vicende succes-sive al 183o apriranno loro gli occhi convincendole chenella lotta per i loro diritti non potranno appoggiarsi anessun’altra classe. Mentre si viene così svegliando nelproletariato la coscienza di classe, la teoria socialistaassume la sua prima forma concreta, e nello stesso temposi delinea il programma di un attivismo artistico che perintransigenza supera ogni precedente. L’art pour l’artattraversa la prima crisi e d’ora in poi, oltre all’ideali-smo dei classicisti, dovrà combattere anche l’utilitarismosia dell’arte «sociale» che dell’arte «borghese».

Il razionalismo economico che procede di pari passocon l’industrializzazione e la completa vittoria del capi-talismo, il progresso delle scienze storiche ed esatte equindi la generale tendenza scientifica del pensiero, larinnovata esperienza di una rivoluzione fallita e il con-seguente realismo politico, sono tutti fattori che prepa-rano quella grande lotta contro il romanticismo, che

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riempie la storia dei cento anni successivi. La prepara-zione e l’avvio di questa lotta è un altro contributo dellagenerazione del 183o al costituirsi del secolo xix. L’o-scillare di Stendhal fra logique e espagnolisme, i rappor-ti ambivalenti di Balzac con la borghesia e in entrambila dialettica di razionalismo e irrazionalismo mostra cheormai la battaglia è in corso; la generazione di Flaubertnon fa che acuire una situazione di lotta già in atto. Lavisione artistica della monarchia di luglio è in parte bor-ghese, in parte socialista, ma in complesso antiromanti-ca. Il pubblico, osserva Balzac nella prefazione a Lapeau de chagrin (1831), «è ristucco di Spagna, d’Orien-te, di storia di Francia alla Walter Scott». È passato,deplora Lamartine, il tempo della poesia, cioè della poe-sia «romantica»1. Il romanzo realista, la piú originalecreazione di questi anni e il piú importante acquisto delsecolo nel campo artistico, esprime, nonostante il roman-ticismo dei suoi fondatori, cioè benché Stendhal sirichiami a Rousseau e in Balzac ci sia ancora l’eco delmelodramma, lo spirito antiromantico della nuova gene-razione. Sia il razionalismo economico, che il pensieropolitico formulato in termini di lotta di classe spingonoil romanzo allo studio della realtà sociale e dei mecca-nismi psicologico-sociali. L’oggetto e il punto di vistadell’indagine rispondono pienamente alle intenzionidella borghesia e il risultato, il romanzo realista, servequasi da manuale a questa classe in ascesa, che aspira alcompleto dominio della società. Gli scrittori del tempone fanno uno strumento per conoscere l’uomo e tratta-re col mondo, rispondendo alle esigenze e al gusto di unpubblico che essi odiano e disprezzano. Essi cercano disoddisfare i loro lettori borghesi, siano o non siano san-simoniani o fourieristi, credano all’arte sociale o a l’artpour l’art, poiché un pubblico proletario non c’è e, seanche ci fosse, non riuscirebbe che a metterli in imba-razzo.

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Fino al Settecento gli autori non erano che i porta-voce del loro pubblico2; essi curavano i beni intellettua-li dei lettori, come i domestici e gli impiegati ne cura-vano i beni materiali. Accettavano e sanzionavano lamorale e il gusto corrente, non li inventavano né limutavano. Scrivevano le loro opere per un pubbliconettamente definito e limitato e non tentavano certo diacquistare nuovi lettori. Quindi non c’era tensione alcu-na tra pubblico vero e pubblico ideale3. Lo scrittoreignorava il tormentoso problema della scelta fra diver-se possibilità soggettive, e il problema morale della scel-ta fra diversi ceti sociali. Solo nel Settecento il pubbli-co si divide in due campi e l’arte in due tendenze riva-li. D’ora in poi ogni artista ha di fronte due ordini con-trastanti, il mondo dell’aristocrazia conservatrice e quel-lo della borghesia progressista; un gruppo che si attieneagli antichi valori tradizionali, presunti assoluti, e unoche stima anche quei valori – e specialmente quelli –legati al tempo e afferma che altri ne esistono, piúaggiornati e meglio rispondenti al bene comune. La bor-ghesia si affranca dai modelli aristocratici e l’aristocra-zia stessa comincia a dubitare della validità dei propricriteri, cosí che in parte passa nel campo borghese, perfavorire una letteratura che le è nemica e funesta. Pergli scrittori si sviluppa una situazione affatto nuova:quelli che continuano a servire i ceti conservatori, laChiesa, la corte e la nobiltà, finiscono per tradire i lorocompagni di classe; quelli invece che si fanno interpre-ti delle idee della borghesia in ascesa, si trovano a com-piere una funzione finora mai compiuta da nessunoscrittore importante, salvo poche eccezioni: essi com-battono per una classe oppressa o, comunque, non anco-ra al potere4. Questo pubblico non ha una sua ideologiagià bell’e pronta, ed essi stessi debbono collaborare adefinire il sistema concettuale, le nuove categorie e inuovi valori. In questo modo essi non sono piú sempli-

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ci portavoce dei lettori, ma, per cosí dire, i difensori ei maestri, e riprendono perfino qualcosa di quella dignitàsacerdotale perduta da tanto tempo, che né i poeti del-l’antichità classica né quelli del Rinascimento avevanoposseduta, e meno che mai i chierici del Medioevo, cheper lettori avevano solo dei chierici e, come letterati,non avevano alcun contatto con i laici. Durante laRestaurazione e la monarchia borghese i letterati ven-gono a perdere la singolare posizione che avevano avutonel Settecento; non sono piú i difensori e nemmeno imaestri del lettore, ne sono anzi gli involontari servito-ri, sempre ribelli, ma non per questo meno utili. Dinuovo essi divengono i portavoce di un’ideologia, ch’es-si trovano già piú o meno elaborata e chiaramente pre-scritta: il liberalismo della borghesia trionfante, che essaha derivato dall’illuminismo attraverso molteplici alte-razioni. Questo dev’essere il loro orientamento, sevogliono trovare lettori. È tuttavia singolare che essi loseguano senza però identificarsi in alcun modo con illoro pubblico. Anche gli scrittori dell’illuminismo anno-veravano fra i loro seguaci solo una parte del pubblicoletterario, anch’essi erano circondati da un mondo osti-le e pericoloso, ma almeno appartenevano allo stessocampo dei loro lettori. Persino i romantici, per quantospaesati, si sentivano vicini all’uno o all’altro ambientesociale, e potevano sempre dire per quale gruppo, perquale classe scendessero in campo. Ma a quale parte delpubblico si sente legato Stendhal? Al massimo agli happyfew [To the happy few (ai pochi eletti): dedica delle opereLa Chartreuse de Parme, Lucien Leuwen, Promenades dansRome], gli indesiderabili, gli esclusi, i vinti. E Balzac?S’identifica con la nobiltà, la borghesia o il proletaria-to? con la classe che gl’ispira magari qualche simpatia,ma ch’egli abbandona senza batter ciglio; o con quelladi cui ammira le inesauribili energie, e che tuttavia gliripugna; o con le masse, di cui ha paura come del fuoco?

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Gli scrittori che non sono puri maîtres de plaisir della bor-ghesia non hanno un loro vero pubblico: questo per ilfortunato Balzac come per l’incompreso Stendhal.

Lo stato di tensione, il rapporto difficile che corre traautori e lettori della generazione del 1830 si riflettononettissimi nel nuovo tipo d’eroe che appare nei roman-zi di Balzac e di Stendhal. Negli eroi di Rousseau, Cha-teaubriand e Byron, solitari e straniati dal mondo, ladelusione e il senso del dolore universale si trasformanoin rinunzia ad attuare i propri ideali, in disprezzo per lasocietà e spesso in disperato cinismo di fronte alle normee alle convenzioni. Il romanzo del disinganno diventa ilromanzo della disperazione e della rassegnazione. Scom-pare ogni tratto tragico-eroico, ogni volontà di autoaf-fermazione, ogni fede nel perfezionamento del proprioessere; e vi subentra la disposizione al compromesso, avivere senza scopo e a morire senza gloria. Nel roman-zo della delusione balenava ancora l’idea della tragedia,che faceva l’eroe in lotta contro la volgare realtà vitto-rioso pur nella sconfitta. Invece nel romanzo ottocen-tesco l’eroe risulta vinto nell’intimo, anche quando sem-bra giungere alla meta e, spesso, proprio in quel momen-to. Per l’eroe del giovane Goethe, di Chateaubriand odi Benjamin Constant, il dubbio sulla ragion d’esseredella propria personalità, sulla legittimità dei propri fininon esisteva; è il romanzo moderno che per primo creala cattiva coscienza dell’eroe nel conflitto con l’ordineborghese, e gli impone di accettare i costumi e le con-venzioni sociali, almeno come regola di gioco. Wertherè ancora l’individuo eccezionale, a cui il poeta accordafin da principio il diritto di ribellarsi al mondo stupidoe prosaico; invece Wilhelm Meister finisce i suoi annidi tirocinio riconoscendo che bisogna adattarsi a questomondo cosí com’è. La realtà esteriore è ormai piú insen-sata e ottusa, perché è diventata piú meccanica e arro-gante; la società, finora ambiente naturale e campo d’a-

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zione dell’individuo, ha perduto ogni importanza, ognivalore per i fini piú alti dell’individuo, e tuttavia anco-ra piú forte si è fatta la necessità di adattarvisi, di vive-re in essa e per essa.

La politicizzazione della società, iniziata con la Rivo-luzione francese, giunge all’acme durante la monarchiadi luglio. Il conflitto tra liberalismo e reazione, lo sfor-zo di conciliare le conquiste rivoluzionarie con gli inte-ressi delle classi privilegiate continua, investendo tuttii campi della vita pubblica. Il capitale finanziario trion-fa sulla proprietà terriera; aristocrazia e Chiesa non sonopiú protagoniste della vita politica; i progressisti sioppongono ai banchieri e agli industriali. L’antagonismopolitico e sociale di un tempo non si è certo attenuato,solo sono mutate le posizioni. Ora i contrasti piú profon-di sono quelli che dividono il capitalismo industriale dalproletariato e dalla piccola borghesia. I fini della lottadi classe si chiariscono, si inaspriscono i metodi, tuttosembra annunziare un’altra rivoluzione. Nonostante ifrequenti riflussi, il liberalismo guadagna terreno; len-tamente si prepara la democrazia dell’Europa occiden-tale. La legge elettorale viene cambiata, e il numerodegli elettori, da circa centomila, cresce di due volte emezzo. Si costituiscono in embrione gli elementi delsistema parlamentare e si gettano le basi della coalizio-ne proletaria. Veramente, nonostante la riforma eletto-rale, in Parlamento continuano a essere rappresentatesoltanto le classi possidenti, e il liberalismo che è giun-to al potere è semplicemente quello dell’alta borghesia.Insomma, la monarchia di luglio è un periodo di eclet-tismo, di compromessi, l’epoca del «mezzo», anche senon proprio del «giusto mezzo» come amava definirlaLuigi Filippo e come ora è indicata da tutti vuoi seria-mente vuoi con ironia. Esteriormente, è un tempo dimoderazione e tolleranza, ma nella realtà della piú duralotta per l’esistenza; è un’epoca di moderato progresso

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politico e di conservatorismo economico sull’esempioinglese. I Guizot e i Thiers esaltano l’idea della monar-chia costituzionale, auspicano che il sovrano regni e nongoverni, ma essi stessi sono lo strumento di un’oligarchiaparlamentare, di un esiguo partito di governo che tienein balia i piú vasti ceti borghesi con la magica parola enri-chissez-vous! La monarchia di luglio è un periodo di pro-sperità, di floridezza industriale e commerciale. Il dena-ro domina tutta la vita pubblica e privata: tutto si piegaal suo servizio, tutto gli si prostituisce – esattamente, oquasi, come descrive Balzac. Certo il dominio del capi-tale non comincia da ora; ma prima in Francia il dena-ro era soltanto uno dei mezzi per potersi affermare, enon il piú cospicuo né il piú efficace. Adesso invece ognidiritto, ogni potere, ogni attitudine viene a un trattoespressa in denaro. Ogni cosa dev’esser ridotta a queldenominatore per diventare comprensibile. D’ora in poitutta la storia antecedente del capitalismo appare unsemplice preludio. Non solo l’alta politica e l’altasocietà, non solo il Parlamento e la burocrazia hanno uncarattere plutocratico, non solo la Francia è dominatadai Rothschild e dagli altri juste-millionaires [gioco diparole fra milieu (mezzo) e million (milione)], come lichiama Heine, ma il re stesso è uno speculatore astutoe senza scrupoli. Per diciott’anni il governo, come diceTocqueville, è una specie di società commerciale: re,Parlamento e amministrazione si dividono i grossi boc-coni, si scambiano informazioni e favori, affari e con-cessioni, speculano sulle azioni e sulle rendite, sulle cam-biali e sulle ipoteche. Il capitalista afferra le redini dellasocietà assicurandosi una posizione quale mai avevaavuto. Finora una funzione del genere si era accompa-gnata alla trasfigurazione ideologica della ricchezza; ilricco doveva apparire il protettore della Chiesa, dellaCorona, o delle arti e delle scienze; ora invece gode deimassimi onori semplicemente perché è ricco. «D’ora in

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poi regneranno i banchieri», profetizza Laffitte, quan-do viene proclamato re Luigi Filippo. E nel 1836 undeputato dichiara in Parlamento: «Nessuna società puòvivere senza un’aristocrazia. Volete sapere chi sono gliaristocratici della monarchia di luglio? I grandi indu-striali; su di loro si fonda la nuova dinastia»5. Ma la bor-ghesia è ancora impegnata nella lotta per la supremazia,per il prestigio sociale, che la nobiltà le concede a malin-cuore, esitando. Essa è ancora una «classe in ascesa» edha ancora lo slancio dell’offensiva, la sicurezza senzadubbi di chi reclama i propri diritti. Ma è cosí certa divincere, che la sicurezza già comincia a mutarsi in com-piacimento, in autoapologia. La sua buona coscienzariposa già in parte su un’illusione ed essa si avvia a quel-lo stato in cui le rivelazioni del socialismo incrinerannola sua fiducia. Diventa sempre piú intollerante e retrivae dei suoi peggiori difetti – grettezza, piatto razionali-smo, mascheramenti idealistici della corsa al guadagno– fa le basi della sua filosofia. Ogni vero idealismo le parsospetto, ridicolo ogni distacco dal mondo; combatteogni intransigenza, ogni radicalismo, perseguita e repri-me ogni opposizione allo spirito del juste-milieu e allaprudente dissimulazione dei contrasti. Alleva i proprisatelliti all’ipocrisia e si trincera dietro le sue finzioniideologiche, tanto piú disperatamente, quanto piú peri-colosi diventano gli attacchi del socialismo.

Le tendenze fondamentali del moderno capitalismo,visibili fin dal Rinascimento, si palesano ora con bruta-le e intransigente chiarezza, non mitigate da nessuna tra-dizione. Specialmente sensibile si fa la tendenza allaconsiderazione obiettiva, lo sforzo cioè di sottrarre l’ap-parato di un’impresa economica a ogni influsso diretta-mente umano, a ogni considerazione delle circostanzepersonali. L’impresa diventa un organismo autonomo,che persegue interessi e fini suoi propri, diretta da unasua propria logica; un tiranno che asservisce chiunque lo

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avvicini6. La completa dedizione agli affari, il sacrificiospontaneo dell’imprenditore per resistere alla concor-renza, per la prosperità e l’incremento della ditta, quel-l’astratta ambizione del successo che lo fa spietato versodi sé, acquistano un aspetto pauroso, monomaniaco7. Ilsistema si affranca dai suoi promotori e si trasforma inun meccanismo, che nessuna forza umana può arresta-re. Questo automatismo dell’apparato è l’aspetto sinistrodel capitalismo moderno; esso gli dà quell’improntademoniaca che ci atterrisce nella descrizione di Balzac.Via via che i mezzi e le condizioni del successo sfuggo-no alla sfera dell’influenza individuale, negli uomini sifa sempre piú grave l’incertezza, il senso di essere inbalia di un mostro. E quanto piú gli interessi si fannoestesi e intricati, tanto piú selvaggia e disperata è lalotta, tanto piú multiforme il mostro, e inevitabile larovina. Infine ci si ritrova completamente circondati darivali, avversari, nemici; tutti combattono contro tutti;ognuno è sul fronte di una guerra perpetua, generale,veramente «totale»8. Ogni proprietà, ogni posizione,ogni influsso dev’essere giorno per giorno riguadagnato,riconquistato, estorto; tutto sembra provvisorio, insta-bile, infido9. Di qui lo scetticismo, il pessimismo gene-rale, il senso dell’angoscia che prende alla gola; il mondodi Balzac ne è pieno, ed esso rimane il carattere preci-puo nella letteratura dell’età capitalistica.

A Luigi Filippo e alla sua aristocrazia di finanzieri stadi fronte una forte, vasta opposizione che, oltre ai legit-timisti della nobiltà e del clero, comprende tutti coloroche sentono frustrate le speranze riposte nella rivolu-zione di luglio: da un lato la piccola borghesia patriot-tica e bonapartista, ma in fondo liberale; dall’altro lasinistra, composta dei borghesi repubblicani e dei socia-listi, a cui si aggiungono gli intellettuali militanti nel-l’uno o nell’altro settore. Il partito di governo, cosídetto «liberale», è quindi assediato da ogni parte da

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gruppi di opposizione e sovversivi, e Luigi Filippo, il «recittadino», è completamente estraneo alla stragrandemaggioranza del suo popolo10. Le tendenze radicali simanifestano e si sfogano nella costituzione di associa-zioni democratiche, partiti e sette, in scioperi, rivoltedella fame e attentati; a dirla breve, in quel che a ragio-ne si designò come uno stato di rivoluzione permanen-te. Questi torbidi non sono affatto il seguito puro e sem-plice delle rivoluzioni e delle rivolte antecedenti. Già lasommossa di Lione del 1831 se ne distingue per il suocarattere apolitico11; è l’arsi, l’inizio di quel movimentodi masse il cui simbolo, la bandiera rossa, appare per laprima volta nel 1832. La svolta comincia con una sco-perta caratteristica del pensiero socialista: «Le teoriedell’economia borghese sull’identità di interessi fra capi-tale e lavoro, sull’armonia universale e l’universalebenessere conseguenti alla libera concorrenza sono statecontraddette dai fatti, – osserva Engels, – in modo sem-pre piú convincente»12. Il socialismo come dottrina sisviluppa dal riconoscimento del carattere di classe del-l’economia borghese. Idee e tendenze socialiste le incon-triamo, naturalmente, fin dalla grande Rivoluzione fran-cese, specie nella Convenzione e nella congiura diBabeuf; ma di un movimento proletario di massa e diuna corrispondente coscienza di classe si può parlare solodopo il trionfo della rivoluzione industriale e lo stabilirsidelle grandi aziende meccanizzate. Qui dalla continuaconvivenza nasce la solidarietà fra i lavoratori, e quin-di tutto il moderno movimento operaio13. L’odierno pro-letariato, come integrazione dei piccoli gruppi operai,prima dispersi, è frutto dell’Ottocento e dell’industria-lismo; prima, la storia non aveva conosciuto nulla disimile14. La teoria socialista, fondata da filantropi e uto-pisti isolati e sorta dal disagio economico del popolo, daldesiderio di lenirlo e di risolvere il problema di una piúequa distribuzione della ricchezza, diventa un’arma effi-

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cace soltanto con l’organizzazione dell’attività indu-striale nelle città e con le lotte sociali che si combatto-no dopo il 1830; solo ora essa imbocca la via che Engelsha chiamato sviluppo «dall’utopia alla scienza». Anchela critica sociale di Saint-Simon e Fourier era nata dal-l’esperienza dell’industrialismo e dalla constatazione deisuoi effetti rovinosi; ma in quei pensatori il realismo eraancora molto commisto di romanticismo, e ai problemibene impostati facevano riscontro tentativi di soluzio-ne del tutto fantastici. Le tendenze religiose, emerse conla Restaurazione, anzi in certa misura già con il Con-cordato, e che dal 1830 si facevano sempre piú profon-de, non mancavano di influenzare la loro opera di rifor-matori e missionari. Da Saint-Simon fino ad AugusteComte, i socialisti e i filosofi sociali hanno ancora l’oc-chio fisso a quella che era stata l’ambizione dei roman-tici: tutti vorrebbero sostituire alla Chiesa medievale,come forma «organica», sintetica, un nuovo ordine, unanuova organizzazione sociale, realizzando la nuova «cri-stianità» con l’aiuto dei poeti e degli artisti.

Con la sempre maggiore politicizzazione, della vita,anche nella letteratura viene accentuandosi, fra il 1830e il 1848, l’interesse politico. In questo periodo quasinon si hanno opere politicamente indifferenti; perfinoil quietismo de l’art pour l’art assume una tinta politica.La nuova tendenza si rivela specialmente nel frequenteintrecciarsi della carriera politica con quella letteraria,e nel fatto che tanto i politici quanto i letterati appar-tengono per lo piú allo stesso ceto. Attitudini letterariesi considerano premesse naturali per una carriera politi-ca, e spesso il prestigio politico ricompensa meriti let-terari. Durante la monarchia di luglio, i politici che scri-vono e gli scrittori che fanno politica – Guizot, Thiers,Michelet, Thierry, Villemain, Cousin, Jouffroy, Nisard– sono gli epigoni dei «filosofi» settecenteschi; gli auto-ri della generazione successiva non avranno piú alcuna

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ambizione politica, né i politici alcuna autorità nell’am-bito culturale. Ma fino alla rivoluzione di febbraio lavita politica assorbe tutte le forze intellettuali. I giova-ni d’ingegno, che la povertà esclude dalla carriera poli-tica, si dedicano al giornalismo, che è ora l’inizio abi-tuale e la forma tipica della professione letteraria. Il gior-nalismo non solo è un mezzo per passare alla politica ealla letteratura vera e propria, ma è, già in sé, un’atti-vità che assicura spesso una notevole influenza e unreddito considerevole. Bertin, il redattore-capo del«Journal des Débats», soddisfatto e sicuro di sé, ci appa-re come la quintessenza della monarchia di luglio. Egliincarna la borghesia che si fa letterata, e la letteraturache si fa borghese. L’attività letteraria si trasforma nonsolo in un affare per i Bertin, ma, come nota Sainte-Beuve, in un’«industria» per quanti vi partecipano15.Essa diventa semplicemente un mezzo di procurarsiannunzi pubblicitari e abbonamenti. La stretta connes-sione fra letteratura e stampa quotidiana ha, secondo l’o-pinione di un contemporaneo, un effetto rivoluzionariocome l’uso del vapore nelle industrie; tutta la produ-zione letteraria viene a mutare carattere16. Forse si insi-ste troppo in questa analogia, in quanto l’industrializ-zarsi della letteratura non è in realtà che un sintomo diun’evoluzione generale della mentalità, e non fa chemettere in luce una tendenza ormai implicita nella pro-duzione artistica; tuttavia quando Émile de Girardin,scrittore insignificante, ma uomo d’affari pieno d’im-maginazione, fa propria l’idea di Dutacq, che fino allo-ra era affatto sconosciuto, e nel 1836 fonda il giornale«La Presse», è questo un evento d’importanza storica.La gran novità consiste nel fissare il costo annuo d’ab-bonamento a quaranta franchi, la metà del prezzo soli-to, proponendosi di colmare il deficit con annunzi pub-blicitari e avvisi. Nello stesso anno Dutacq fonda il«Siècle» con ugual programma, e gli altri giornali pari-

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gini ne seguono l’esempio, ognuno nel proprio settore.Il numero degli abbonati cresce e nel 1846 ha raggiun-to i duecentomila, di fronte ai settantamila di dieci anniprima. Le nuove iniziative spingono gli editori alla con-correnza. Essi debbono offrire ai loro lettori il cibo piúsapido e variato, per accrescere l’attrattiva del giornale,soprattutto in considerazione della pubblicità. D’ora inpoi ognuno deve trovare nel suo giornale quel che gliinteressa e gli serve; per ognuno esso deve sostituire unapiccola biblioteca e un’enciclopedia.

Accanto agli interventi degli esperti, i giornali reca-no articoli d’interesse generale, specie descrizioni diviaggi, storie di scandali e cronache giudiziarie. Ma l’at-trattiva maggiore è il romanzo a puntate. Tutti lo leg-gono, aristocratici e borghesi, il gran mondo e gli intel-lettuali, giovani e vecchi, uomini e donne, padroni e ser-vitori. «La Presse» apre la serie dei suoi romanzi d’ap-pendice (feuilletons), pubblicando Balzac che ogni anno,fra il 1837 e il 1847, fornisce un romanzo, ed EugenioSue, che le affida la massima parte delle sue opere. Aquesti autori il «Siècle» contrappone Alessandro Dumase l’enorme successo dei Tre Moschettieri reca al giornaleun notevole profitto. Il «Journal des Débats» deve la suapopolarità soprattutto ai Mystères de Paris di EugenioSue, che sarà d’ora in poi fra gli autori piú richiesti emeglio pagati. Il «Constitutionnel» gli offre centomilafranchi per il Juif errant, e questa rimarrà la misura deisuoi onorari. Ma i guadagni maggiori sono sempre quel-li di Dumas, che ricava circa duecentomila franchi all’an-no e a cui «La Presse» e il «Constitutionnel» per due-centoventimila righe a stampa pagano annualmente lasomma di sessantatremila franchi. Per far fronte all’e-norme richiesta, gli autori cari al pubblico si associanoi coolies della letteratura, che prestano loro inapprezza-bili servigi nella produzione in serie. Sorgono vere e pro-prie manifatture letterarie, dove i romanzi vengono fatti

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a macchina. In una azione giudiziaria viene provato cheDumas ha pubblicato con il suo nome piú di quanto glifosse materialmente possibile scrivere, anche lavorandoininterrottamente giorno e notte. Di fatto egli impiegasettantatre collaboratori, fra i quali un certo AugusteMaquet, a cui lascia piena libertà. L’opera letteraria oradiventa «merce» nel vero senso della parola: ha unatariffa, segue un modello fisso, e si consegna a termine.È un articolo commerciale, per cui si paga il prezzodovuto, che verrà ripreso. A nessun editore viene inmente di pagare i signori Dumas e Sue piú di quanto sidebba e si possa pagare, e gli autori dei romanzi d’ap-pendice non sono «strapagati», come non lo sono oggigli astri del cinematografo: i loro prezzi sono regolatidalla richiesta e non dipendono in alcun modo dal valo-re artistico dei prodotti.

«La Presse» e il «Siècle» sono i primi quotidiani cheescano con romanzi a puntate, ma la trovata non è loro.È invece un’idea di Véron, che già la mette in praticanella sua «Revue de Paris» fondata nel 182917. Bulozl’adotta poi nella sua «Revue des Deux Mondes», pub-blicando, fra l’altro, anche romanzi di Balzac. Ma in séil feuilleton è ancora piú antico di queste riviste; lo sitrova già verso il 1800. I giornali, che durante il Con-solato e il Primo Impero sono assai magri, per la cen-sura e altre restrizioni, tanto per offrire qualcosa ai let-tori pubblicano un’appendice letteraria. Dapprima èsolo una specie di cronaca mondana e artistica, madurante la Restaurazione si sviluppa in una vera pagi-na letteraria. Dal 1830 racconti e relazioni di viaggione formano l’argomento principale, e dopo il 1840 essonon reca piú che romanzi. Il Secondo Impero, appli-cando l’imposta di un centesimo su ogni copia di gior-nale che porti un’appendice, prepara al romanzo a pun-tate una rapida fine. È vero che piú tardi il genere hauna seconda fioritura, ma non influisce piú sull’evolu-

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zione letteraria, mentre ha lasciato profonde traccenella letteratura fra il 1840 e il ’50.

Il romanzo d’appendice è destinato, come il melo-dramma e il vaudeville, a un pubblico promiscuo e dinuovo tipo; dominano in questo romanzo gli stessi cri-teri di forma e di gusto che sono propri dei teatri popo-lari. Quanto allo stile, vi si predilige di regola l’eccessi-vo e il piccante, il grossolano e l’eccentrico; i soggettipreferiti sono quelli che trattano di ratti e adulteri, vio-lenze e crudeltà. Anche qui, come nel melodramma,caratteri e azione sono stereotipi18. La necessità di inter-rompere il racconto a ogni puntata, e ogni volta trova-re un finale atto a eccitare la curiosità del lettore per lapuntata successiva, spinge l’autore ad adottare una spe-cie di tecnica teatrale, che consenta di evidenziare e arti-colare come in singole scene autonome la narrazione.Alessandro Dumas, maestro della tensione drammatica,è anche un virtuoso di questa tecnica; infatti, quanto piúdrammatico è lo sviluppo di un romanzo a puntate,tanto piú forte ne è l’effetto sul pubblico. D’altra parteil particolare modo di lavoro per cui l’opera viene con-dotta giorno per giorno e le singole parti vengono pub-blicate per lo piú senza un piano preciso e senza possi-bilità di correggere quelle già uscite e di accordarle conquelle successive, determina una forma narrativa «anti-drammatica», episodica e improvvisata, un dilungarsidel corso degli eventi, nonché un disegno inorganico espesso contraddittorio dei caratteri. Tutta l’arte dellapreparazione degli effetti, la tecnica per assicurare aifatti una motivazione che risulti naturale, spontanea,non voluta, vanno cosí perdute. Talora i casi dell’in-treccio e gli sviluppi dei personaggi paiono tirati peicapelli; le figure secondarie che compaiono nel corso delracconto spesso sembrano piovere dal cielo, poiché l’au-tore ha trascurato di «presentarle» tempestivamente. Labrusca introduzione di certe figure è un errore frequente

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anche in Balzac, benché egli rimproveri appunto questaimprovvisazione alla Chartreuse de Parme. Ma inStendhal la costruzione trascurata e debole è la conse-guenza di una tecnica narrativa in se stessa episodica,picaresca, essenzialmente antidrammatica19; mentre inBalzac, che mira al romanzo drammatico, essa è undifetto che dipende dal modo di scrivere giornalistico,di chi vive alla giornata. Tuttavia non possiamo affer-mare che l’industrializzarsi della letteratura sia sempli-cemente una conseguenza del giornalismo e il romanzoameno debba il suo carattere rigidamente stereotipounicamente all’appendice; infatti, come provano gliesempi dell’Impero e della Restaurazione, verso il 1830già da un pezzo il romanzo era sulla via di ridursi a unostile puramente convenzionale20.

Il romanzo d’appendice significa una democratizza-zione senza precedenti della letteratura e un livella-mento quasi completo del pubblico. Mai un’arte avevatrovato unanime accoglienza in ambienti sociali e cul-turali cosí diversi e un tale accordo di sentimenti. Per-fino un Sainte-Beuve loda nell’autore dei Mystères deParis qualità che è dolente di non trovare in Balzac. Ladiffusione del socialismo va di pari passo con l’aumen-to dei lettori; ma le idee democratiche di Eugenio Suee la sua fede nel fine sociale dell’arte non bastano a spie-gare il successo dei suoi romanzi. Piuttosto è strano sen-tire il beniamino di un pubblico in gran parte borgheseentusiasmarsi per il «nobile lavoratore» e tuonare con-tro il «crudele capitalismo». Il compito ch’egli si assu-me, di svelare le piaghe della società malata, spiega, almassimo, la simpatia con cui lo tratta la stampa pro-gressista: il «Globe», la «Démocratie pacifique», la«Revue indipendente», la «Phalange» e il loro seguito.La maggioranza dei suoi lettori considera la sua ten-denza al socialismo come un soprappiú. Ma tutti senzadubbio trovano naturale che la letteratura tratti dei piú

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scottanti problemi sociali. L’energica affermazione diMadame de Staël, che la letteratura deve essere espres-sione della società, trova un generale consenso e diven-ta un assioma per la critica francese. Dal 1830 è regolagiudicare un’opera letteraria nei suoi rapporti con i pro-blemi d’attualità politica e sociale e, ad eccezione deigruppi relativamente ristretti che seguono il movimen-to de l’art pour l’art, nessuno si scandalizza vedendo l’ar-te al servizio della politica. Mai forse l’estetica pura, for-male, lontana da ogni riferimento pratico, ha avuto scar-so seguito come ora21.

Fino al 1848 le opere maggiori per numero e impor-tanza fanno capo a questa tendenza attivistica; dopoquell’anno, a un indirizzo quietistico. La delusione diStendhal è ancora aggressiva, estroversa, anarchica; larassegnazione di Flaubert è passiva, egocentrica, nichi-lista. Nel seno stesso del romanticismo la corrente prin-cipale non è piú ora l’art pour l’art di Théophile Gautiere di Gérard de Nerval. Romantici non si è pié nel vec-chio senso mistico e mistificatore di esuli nel mondo. Ilromanticismo continua, ma si trasforma, acquista unaltro significato. La tendenza anticlericale e antilegitti-mista che si era manifestata alla fine della Restaurazio-ne si acuisce in una visione rivoluzionaria. I piú deiromantici rinnegano l’arte pura e si accostano alle ideedi Saint-Simon e Fourier22. I corifei – Hugo, Lamarti-ne, George Sand – fanno professione di attivismo arti-stico e si pongono al servigio dell’arte «popolare» auspi-cata dai socialisti. Il popolo ha vinto, e anche nell’artebisogna esprimere questa svolta rivoluzionaria. Non soloGeorge Sand ed Eugenio Sue diventano socialisti, nonsolo Lamartine e Hugo si entusiasmano per il popolo, maanche scrittori come Dumas, Scribe, Musset, Mériméee Balzac civettano con le idee socialiste23. Questo idil-lio, d’altronde, finisce ben presto; infatti, come lamonarchia di luglio abbandona le mete democratiche

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della rivoluzione e diventa il regime della borghesia con-servatrice, cosí i romantici abiurano il socialismo e ritor-nano, sia pur con qualche modifica, alle antiche opinio-ni sull’arte. Alla fine non rimane nessun poeta di qual-che valore fedele all’idea sociale e per ora la causadell’«arte popolare» sembra perduta. Si verifica unasorta di acquetamento interiore dell’arte romantica chesi fa borghese e disciplinata. Sotto la guida di Lamarti-ne, Hugo, Vigny e Musset sorge un romanticismo acca-demico e conservatore, e anche un elegante romantici-smo da salotto. Il fiero e violento spirito ribelle è doma-to e la borghesia accoglie con entusiasmo questo roman-ticismo in parte ammansato dall’accademia, fatto percosí dire «classico», in parte fuso con il dandysmo deidiscepoli di Byron24. Sainte-Beuve, Villemain, Bulozsono le piú alte autorità, il «Journal des Débats» e la«Revue des Deux Mondes» sono gli organi ufficiali delnuovo gruppo letterario borghese, tinto di romanticismoe con tendenze accademiche25.

Ma a certe categorie del pubblico il romanticismosembra ancor troppo violento e arbitrario. Gli si con-trappone un nuovo classicismo, sobrio, strettamenteborghese, l’arte della cosí detta école de bon sens e deljuste-milieu estetico. Il successo di Ponsard, la rinascitadella tragédie classique e la moda della Rachel sono i sin-tomi piú evidenti di questo nuovo gusto. Dopo i «mor-bosi» eccessi di un’atmosfera rovente, si vuol respiraredi nuovo aria fresca. Si vuol aver a che fare con carat-teri equilibrati, regolari, esemplari, con sentimenti epassioni normali, universalmente comprensibili, con unaconcezione che si fondi sull’equilibrio, l’ordine, la mode-razione: si vuole insomma una letteratura che rinunzialla mordacità, alle trovate bizzarre e all’espressioneeccentrica dei romantici. Il 1843 vede il successo dellaLucrèce e il fiasco dei Burgraves; e al trionfo di Ponsardsu Victor Hugo, si accompagna quello di Scribe, Dumas,

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Ingres su Stendhal, Balzac e Delacroix. Dall’arte la bor-ghesia non vuole piú scosse, ma divertimento; per essail poeta non è un vate, ma un maître de plaisir. DietroIngres viene l’infinita serie dei pittori accademici, cor-retti ma noiosi; dietro a Ponsard, quella dei fidati, mainsignificanti fornitori dei teatri statali e comunali. Cisi vuol divertire in pace e quindi si torna a favorire l’ar-te «pura», apolitica.

L’art pour l’art nasce dal romanticismo, per il qualerappresenta uno strumento nella lotta per la libertà; è laconseguenza e, in certo modo, il vero risultato dell’e-stetica romantica. Il movimento che in origine si era pro-posto solo la negazione delle regole imposte all’arte dalclassicismo, si è trasformato in rivolta contro ogni vin-colo esteriore, un’emancipazione da tutti i valori intel-lettuali e morali estranei all’arte. Per Gautier la libertàdell’arte significa già l’indipendenza dai criteri di valo-re della borghesia, l’indifferenza ai suoi fini utilitari e ilrifiuto di contribuire a attuarli. L’art pour l’art diventala torre d’avorio in cui i romantici si ritirano dalla vitapratica. L’accordo con l’ordine costituito è il prezzoch’essi pagano per questa loro quiete e per la superioritàdel loro atteggiamento puramente contemplativo. Finoal 1830 la borghesia si era ripromessa dall’arte un appog-gio ai propri fini, e per questo aveva acconsentito asvolgere una propaganda politica attraverso l’arte.«L’uomo non è fatto soltanto per cantare, credere,amare... La vita non è un esilio, ma una missione...»,scrive il «Globe» nel 182526. Ma dopo il 1830 la bor-ghesia comincia a diffidare dell’arte, e all’alleanza diprima preferisce la neutralità. La «Revue des DeuxMondes» ora pensa che non è necessario, anzi neppurdesiderabile, che l’artista abbia idee politiche e socialisue proprie; e cosí pensano i critici piú autorevoli, fracui Gustave Planche, Nisard e Cousin27. La borghesia faproprio il principio de l’art pour l’art; esalta la natura

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ideale dell’arte e l’alta posizione dell’artista al di sopradei partiti politici; lo chiude cioè in una gabbia d’oro.Cousin riprende dalla filosofia kantiana l’idea dell’au-tonomia e rinnova la teoria del carattere «disinteressa-to» dell’arte; e qui gli viene in taglio la tendenza alla spe-cializzazione, che prende il sopravvento con il capitali-smo. Effettivamente l’art pour l’art corrisponde sia aquella divisione del lavoro che con l’industrialismoaumenta sempre piú, sia a una necessità di difesa del-l’arte minacciata dal pericolo di venir assorbita dallavita industrializzata e meccanizzata. Esso rappresentainnegabilmente una razionalizzazione, un disincanta-mento e anche una limitazione dell’arte, ma nello stes-so tempo un tentativo di salvarne la particolare naturae la spontaneità nella generale meccanizzazione.

Senza dubbio l’art pour l’art ha dato espressione aquello che è il problema piú intricato dell’estetica. Nullarivela cosí netto il dualismo, l’intimo dissidio dell’at-teggiamento estetico. È l’arte fine a se stessa, o soltan-to un mezzo? La risposta varierà, non solo a secondadella condizione storica e sociale, ma anche a secondadell’elemento che si considera nel complesso quadro del-l’arte. L’opera d’arte è stata paragonata a una finestrada cui si può osservare la vita, senza tener conto dellastruttura, della trasparenza, del colore dei vetri dellafinestra stessa28. Quest’analogia fa dell’opera soltanto unveicolo, dell’osservazione e della conoscenza, appuntocome un vetro o una lente, indifferente in sé e sempli-ce strumento. Ma come si può volgere lo sguardo allastruttura del vetro, senza badare al quadro che si apreoltre la finestra, cosí anche l’opera d’arte si può conce-pire come una forma indipendente, che ha in sé la suaragion d’essere, un contesto significativo in sé conchiu-so e perfetto; e tutto quel che la trascende, ogni «sguar-do attraverso la finestra» ne pregiudica l’intima coe-renza. Il senso dell’opera d’arte oscilla continuamente

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tra questi due aspetti: l’immanenza, rescissa dalla vita,da ogni realtà che trascenda l’opera stessa, e la funzio-ne determinata dalla vita, dalla società, dalla prassi. Dalpunto di vista dell’esperienza estetica immediata, l’au-tonomia e l’autosufficienza appaiono la vera sostanzadell’opera d’arte, poiché solo in quanto essa si staccadalla realtà sostituendosi interamente ad essa, solo inquanto costituisce un cosmo totale, in sé perfetto, essaè in grado di suscitare una completa illusione. Ma que-sta illusione non è affatto tutto il contenuto dell’arte espesso non ha parte alcuna nella sua efficacia. I piú alticapolavori rinunziano all’illusionismo ingannatore di unmondo estetico chiuso in sé e rinviano a qualcosa che litrascende. Essi sono in diretto rapporto con i grandi pro-blemi del loro tempo e cercano sempre una risposta alladomanda: come trarre un senso dalla vita umana? comeparteciparvi?

Il paradosso piú arduo dell’opera d’arte sta nel fattoche essa sembra esistere per sé e nello stesso tempo nonsoltanto per sé; che essa si rivolge a un pubblico con-creto, storicamente e socialmente definito e insiemesembra ignorare ogni pubblico. La «quarta parete» dellascena appare a volte il piú naturale presupposto, altrevolte la piú arbitraria finzione dell’estetica. Distrug-gendo, con una tesi, un indirizzo morale, un intento pra-tico l’illusione, si impedisce, è vero, il godimento este-tico assoluto; tuttavia è l’unico modo di provocare unavera adesione all’opera, un’adesione che investa tuttol’essere dello spettatore o del lettore. Quest’alternativaperò è affatto estranea all’intenzione dell’artista. Anchel’opera politicamente e moralmente piú tendenziosa puòesser compresa come arte pura, cioè pura forma, se èdavvero un’opera d’arte; e ogni prodotto artistico, ancheprivo, per l’autore, di qualsiasi fine pratico, può esserconsiderato come espressione e strumento della causa-lità sociale. L’attivismo di Dante non esclude affatto

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un’interpretazione puramente estetica della Divina Com-media, né il formalismo di Flaubert esclude una spiega-zione sociologica di Madame Bovary e dell’Education sen-timentale.

Verso il 1830 i rapporti fra le principali correnti arti-stiche – l’«arte sociale», l’école de bon sens e l’art pourl’art – sono complicati e per lo piú contraddittori. Que-ste contraddizioni caratterizzano l’atteggiamento deisansimoniani e dei fourieristi sia verso il romanticismo,sia verso il classicismo borghese. Del primo essi rifiuta-no le simpatie per la Chiesa e per la monarchia, la visio-ne romanzesca e irreale della vita, l’egoistico individua-lismo, ma specialmente il quietismo de l’art pour l’art.D’altronde li attrae nel romanticismo il liberalismo, ilconcetto della libertà e spontaneità dell’arte, la rivoltacontro le regole e l’autorità dei classici. E ancora ammi-rano fortemente nei romantici le aspirazioni realistiche,ch’essi riconoscono affini al loro interesse per la vita, allaloro disposizione verso la realtà. L’affinità fra socialismoe realismo spiega anzitutto la loro simpatia per Balzacdi cui, soprattutto in principio, essi giudicano con moltofavore le opere29. Con questi sentimenti contrastanti difronte al romanticismo è connesso il loro atteggiamen-to, altrettanto contraddittorio, verso il classicismo bor-ghese. Il consenso al liberalismo dell’estetica romanticali porta a condannare il ritorno ai modelli classici del-l’arte borghese; invece l’avversione agli arbitrî e alleesagerazioni della poesia, e specialmente del teatroromantico, li spinge a una parziale adesione al classici-smo di Ponsard»30. A questa indecisione dei socialisticorrisponde da un lato l’incertezza del gusto borghesediviso tra il romanticismo accademico e il dramma diPonsard; dall’altro, l’oscillare del romanticismo stessotra l’attivismo e l’art pour l’art. Ma con queste tre cor-renti ne incrocia una quarta, che storicamente è la piúimportante: il realismo di Stendhal e di Balzac. Anch’es-

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so si trova in un rapporto contraddittorio con il roman-ticismo. In questo caso l’ambivalenza è frutto princi-palmente di quel dissidio che di solito esiste tra duegenerazioni o due tendenze intellettuali di cui una è laprosecuzione dell’altra. Il realismo rappresenta la con-tinuazione e la dissoluzione del romanticismo; Stendhale Balzac ne sono i piú legittimi eredi e i piú ardentiavversari.

In arte il realismo non è una concezione chiara e uni-taria, che segua costantemente uno stesso concetto dellarealtà, bensí un’interpretazione della vita sempre diver-sa, volta a un fine determinato, a un compito concreto,e limitata a fenomeni particolari. Ci si professa realisti,non perché si ritenga a priori che ci sia piú arte nella rap-presentazione naturalistica che in quella stilizzatrice,ma perché nella realtà si scopre un carattere, una ten-denza, che si vorrebbe fortemente accentuare, favorireo combattere. In sé, tale scoperta non deriva dall’osser-vazione del vero; se mai, l’interesse per il vero ne è unaconseguenza. La generazione del 1830 comincia la suacarriera letteraria con la coscienza che un totale muta-mento è avvenuto nella struttura della società; in partelo approva, in parte lo combatte, comunque si trattasempre di una reazione estremamente attiva, ed èappunto da questo atteggiamento impegnato che derivala sua tendenza realistica. Il realismo dunque non mirasemplicemente al vero, alla «natura» o alla «vita» ingenere, ma in modo particolare alla vita sociale, cioè aquella sfera della realtà che per questa generazione haassunto un’importanza particolare. Stendhal e Balzac siassumono il compito di rappresentare la nuova societàtrasformata; proprio lo sforzo di esprimerne la novità ei caratteri particolari li porta al realismo e determina illoro concetto della verità artistica. La coscienza socialedella generazione del 1830, la sua sensibilità a fenome-ni in cui sono in gioco interessi sociali, la sua perspica-

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cia per i cambiamenti nella società e nella sua scala divalori, fanno degli scrittori di questa generazione i crea-tori del romanzo sociale e del moderno realismo.

La storia del romanzo comincia nel Medioevo con l’e-popea cavalleresca. Questa a dir vero ha poco di comu-ne con il romanzo moderno; pure la sua composizioneaggiuntiva, la sua tecnica prolissa che allinea senza fineavventure ed episodi, sono all’origine di una tradizioneche si continua non solo nel romanzo picaresco o nellestorie eroiche e pastorali del Rinascimento e dell’etàbarocca, ma addirittura nel romanzo d’avventure del-l’Ottocento e in quelle evocazioni del fluire della vita edell’esperienza che sono i romanzi di Proust e Joyce. Aprescindere dall’inclinazione alla forma aggiuntivacomune a tutto il Medioevo, e dalla concezione cristia-na che tende a vedere la vita non come un fenomeno tra-gico, che culmina in singoli conflitti drammatici, macome un itinerario con le sue varie stazioni, questa strut-tura dipende soprattutto dal fatto che la poesia era reci-tata e che il pubblico vi portava un’ingenua avidità dinuovi argomenti. La stampa, cioè la diretta lettura dilibri, e la visione sintetica dell’arte rinascimentale fannosì che la narrazione diffusa del Medioevo cominci acedere a una rappresentazione piú unitaria, meno epi-sodica. Il Don Quijote, nonostante la sua struttura essen-zialmente picaresca, costituisce anche formalmente unacritica alla prolissità dei romanzi cavallereschi. La svol-ta decisiva, verso l’unità e la semplificazione del roman-zo, la dobbiamo al classicismo francese.

La Princesse de Clèves è un caso affatto isolato, poi-ché in genere i romanzi eroici e pastorali del Seicentonon sono diversi dalle storie d’avventure del Medioevoche s’ingrossano a valanga rotolando senza fine. Il capo-lavoro di Madame de Lafayette invece aveva attuato,dimostrando che si trattava di una possibilità sempreattuabile, l’idea del «romanzo d’amore», con un’azione

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coerente, un’acme drammatica e l’analisi psicologica diun singolare conflitto.

D’ora in poi il romanzo d’avventure costituisce unaforma letteraria di second’ordine; rimane fuori dei con-fini dell’arte ufficiale e viene a godere dei vantaggi diciò che è insignificante e irresponsabile. Il Grand Cyruse l’Astrée sono letti principalmente dall’aristocrazia dicorte, ma li si legge, per cosí dire, in via strettamenteprivata e ci si abbandona a quel piacere come a un vizio,o almeno come a una debolezza, di cui non si può esse-re certo orgogliosi. Bossuet nell’orazione funebre perEnrichetta d’Inghilterra rammenta come un elogio chela defunta non si curava affatto dei romanzi in voga edei loro insulsi eroi; ciò basta per farsi un’idea di comeil genere fosse giudicato in pubblico. Ma l’aristocrazia,quando si trattava dei suoi svaghi privati, non si lascia-va guidare dalle regole dei classicisti, e continuavaimperterrita a godersi avventure e stravaganze.

Ancora nel Settecento, per lo piú, il romanzo non sidiscosta dal prolisso genere picaresco. Non solo il GilBlas e il Diable boiteux, ma anche i romanzi di Voltaire,benché brevi, sono costruiti a episodi, e Gulliver eRobinson rispondono perfettamente al principio del-l’addizione. Perfino Manon Lescaut, la Vie de Mariannee le Liaisons dangereuses sono ancora forme di transizio-ne dalle antiche storie d’avventure al romanzo d’amo-re, che a poco a poco diventa il genere principale ecomincia a dominare la letteratura preromantica. ConClarissa Harlowe, la Nouvelle Héloïse e il Werther trion-fa nel romanzo il principio drammatico dando inizio aun processo che culminerà in opere come MadameBovary di Flaubert e Anna Karenina di Tolstoj. L’atten-zione si accentra ormai sullo sviluppo psicologico; i datiesterni vengono considerati solo in quanto provocanoreazioni psichiche. È questo il segno piú evidente dellaprogressiva tendenza al soggettivismo e all’introversio-

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ne che si sviluppa nella cultura del tempo; tendenza chesi afferma anche piú fortemente nel romanzo della for-mazione intima, il cosiddetto Bildungsroman, che rap-presenta lo stadio successivo del processo e, dal puntodi vista della storia, stilistica, è la forma letteraria piúimportante del secolo. La storia interiore dell’eroediventa la storia del formarsi di un mondo. Solo untempo per cui lo sviluppo individuale è la fonte piúimportante della cultura poteva suscitare questa formadi romanzo che non a caso ha avuto origine in un paesecome la Germania, ove meno profonde erano le radicidi una cultura collettiva. Comunque il Wilhelm Meisterdi Goethe è il primo Bildungsroman in senso stretto, seb-bene se ne trovino le origini in opere piú antiche, soprat-tutto di tipo picaresco, come il Tom Jones di Fielding eil Tristram Shandy di Sterne.

Il romanzo diventa il maggior genere letterario delSettecento, perché esprime nel modo piú ampio eprofondo il problema culturale del tempo, il contrastotra individuo e società. In nessun’altra forma letterariagli antagonismi della società borghese si affermano cosíintensi, o con altrettanta efficacia vengono descritte lelotte e le sconfitte dell’individuo. Non per nulla Frie-drich Schlegel vede nel romanzo il «genere romantico»per eccellenza. Il romanticismo vi ravvisa la piú adeguatarappresentazione del conflitto tra l’io e il mondo, ilsogno e la vita, la poesia e la prosa, e l’espressione piúprofonda di quella rassegnazione, che considera l’unicasoluzione del conflitto. La soluzione invece che ne dàGoethe nel Wilhelm Meister è diametralmente oppostaa quella romantica: l’opera in realtà rappresenta nonsolo il punto d’arrivo del romanzo settecentesco, maanche il prototipo da cui, direttamente o indirettamen-te, si possono far derivare le creazioni piú tipiche delgenere, Le rouge et le noir, Les illusions perdues, L’édu-cation sentimentale e Der Grüne Heinrich [Enrico il

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Verde], per non nominare che le piú famose. Ma oltre aquesto, il Wilhelm Meister rappresenta la prima criticaimportante del romanticismo come forma di vita. QuiGoethe – ed è il vero messaggio dell’opera – mostraquanto sia sterile lo straniarsi dei romantici dalla realtà,e afferma che al mondo si rende giustizia se vi si è inti-mamente legati, e che solo dall’interno lo si può rifor-mare. Egli non vela né abbellisce il dissidio tra mondointimo e mondo esterno, tra l’io spirituale e la realtà con-venzionale, ma riconosce e dimostra che il disprezzoromantico del mondo è un’evasione di fronte al veroproblema31. L’esortazione goethiana a vivere col mondoe secondo le sue regole si involgarí in seguito nella let-teratura borghese, trasformandosi in un invito alla col-laborazione senza riserve. Il pacato, ma non certo pas-sivo adeguarsi alla situazione esistente, divenne cosíconciliante servilismo e utilitario culto del mondo.Goethe è responsabile di questo processo solo in quan-to non si avvide dell’impossibilità di appianare pacifi-camente i contrasti, per cui il suo ottimismo un po’ faci-le poté apparire come ideologia della politica borghesedi conciliazione. Assai piú acutamente di lui Stendhal eBalzac videro le tensioni che dominavano l’epoca e legiudicarono in modo piú realistico. Il romanzo sociale,a cui essi affidarono le loro intuizioni, non solo va oltreil romanzo della delusione ma anche oltre quello goethia-no dello sviluppo intimo. La loro rassegnazione superail disprezzo romantico del mondo, e la stessa criticagoethiana del romanticismo. Il loro pessimismo risultada un’analisi che non si fa illusioni sulla possibilità dirisolvere la questione sociale.

Il realismo, con cui Stendhal e Balzac descrissero lasituazione, la loro comprensione per la dialettica da cuiera mossa la società, era senza esempio nella letteraturadel tempo; ma l’idea del romanzo sociale era nell’aria.Sottotitoli come Scene del gran mondo o Scene della vita

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privata si incontrano già molto prima di Balzac32. «Moltigiovani descrivono le cose, come avvengono ogni gior-no in provincia... non ne vien fuori molta arte, ma moltaverità», scrive Stendhal a proposito del romanzo socia-le dei suoi giorni33. Da lungo tempo si notavano dap-pertutto indizi e tentativi, ma con Stendhal e Balzac ilromanzo sociale diventa senz’altro il romanzo moderno,e ormai pare impossibile rappresentare un personaggioavulso dalla società, che si sviluppi e agisca al di fuoridi un determinato ambiente. La realtà della vita socia-le entra nella coscienza dell’uomo e non potrà piú esser-ne rimossa. Le grandi opere letterarie dell’Ottocento,quelle di Stendhal, Balzac, Flaubert, Dickens, Tolstoj eDostoevskij, e ancora quelle di un Proust e di un Joyce,sono romanzi sociali, a qualunque categoria apparten-gano. Un personaggio si considera ormai vero e plausi-bile solo se è radicato nella società; e diventa argomen-to del nuovo romanzo realista, solo per la problematicasociale che la sua vita coinvolge. Questo concetto socio-logico dell’uomo è la scoperta dei romanzieri della gene-razione del 1830, ed è la ragione dell’interesse di Marxper le opere di Balzac.

La società del tempo trova in Stendhal e Balzac duecritici severi, spesso malevoli; ma l’uno giudica da libe-rale, l’altro da conservatore. Pure, nonostante le sueopinioni reazionarie, fra i due artisti il piú avanzato èBalzac; egli vede piú nettamente la struttura dellasocietà borghese e nel descriverne le tendenze è piúobiettivo di Stendhal, radicale in politica, ma contrad-dittorio in tutto il suo modo di pensare e di sentire.Nella storia dell’arte non c’è esempio che dimostri piúchiaramente che un artista è utile alla causa del pro-gresso non tanto per le sue convinzioni e le sue simpa-tie, quanto per la potenza con cui sa rappresentare iproblemi e le contraddizioni della realtà sociale.Stendhal giudica il suo tempo secondo le idee, ormai

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antiquate, del Settecento, e gli sfugge il significato sto-rico del capitalismo. Balzac considera addirittura trop-po avanzate anche queste idee, ma nei suoi romanzi nonpuò fare a meno di descrivere la società in modo tale,che un ritorno alle condizioni e alle idee prerivoluzio-narie risulta del tutto impensabile. Per Stendhal la cul-tura illuministica, la visione intellettuale di Diderot,Elvezio e Holbach è senz’altro esemplare e imperitura;egli ne considera la decadenza come un fenomeno tran-sitorio e ne prevede la rinascita in quel tempo da cui eglisi attende anche un giusto apprezzamento dell’arte sua.Balzac invece riconosce che l’antica civiltà si è ormaidisgregata, che l’aristocrazia stessa si è fatta strumen-to di questo processo, e proprio in questo vede un segnodella forza irresistibile dell’evoluzione capitalistica. Laposizione di Stendhal è essenzialmente politica ed egli,nel descrivere la società, è attento soprattutto al «mec-canismo dello stato»34. Balzac invece fonda il suo edi-ficio sociale sull’economia, anticipando in certo modole teorie del materialismo storico. Egli sa bene che levarie forme della scienza, dell’arte e della morale sono,come quelle della politica, funzioni della realtà econo-mica e che la civiltà borghese, individualista e raziona-lista, affonda le sue radici nelle forme dell’economiacapitalistica. Quest’intuizione non è certo meno fecon-da perché il poeta crede di ravvisare nella società feu-dale il proprio ideale di civiltà meglio che in quella delcapitalismo borghese. Nonostante l’entusiasmo per l’an-tica monarchia, la Chiesa cattolica e la società aristo-cratica, nel mondo di Balzac il realismo e il materiali-smo sono come fermenti intellettuali che distruggonogli ultimi resti del feudalesimo.

I romanzi di Stendhal sono cronache politiche: Lerouge et le noir è la storia della società francese durantela Restaurazione, La Chartreuse de Parme, il quadro del-l’Europa dominata dalla Santa Alleanza, Lucien Leuwen,

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l’analisi storico-sociale della monarchia di luglio. Ancheprima, naturalmente, c’erano stati romanzi a sfondostorico e politico, ma a nessuno, prima di Stendhal,sarebbe venuto in mente d’impostare un romanzo pro-prio sul sistema politico del tempo. Prima di lui nessu-no fu mai cosí conscio del momento storico, nessunosentí cosí fortemente che di tali momenti è compostatutta la storia, in una continua cronaca delle generazio-ni. Il presente è per Stendhal l’ora fatale della primagenerazione postrivoluzionaria, tempo di promesse e disperanze inadempiute, di energie inutilizzate e d’inge-gni delusi. Egli lo vive come una paurosa tragicomme-dia, in cui la borghesia arrivata al potere gioca una partenon meno deplorevole di quella dell’aristocrazia cospi-ratrice, come un crudele dramma politico, in cui non cisono che intriganti, siano essi reazionari o liberali. In untal mondo, egli si domanda, dove tutto è menzogna eipocrisia, non è forse buono ogni mezzo che porti al suc-cesso? La cosa piú importante è di non fare il gabbato,cioè di mentire, di finger meglio degli altri. Tutti i gran-di romanzi di Stendhal s’imperniano sul problema del-l’ipocrisia, sul segreto per trattare con gli uomini, peringannare il mondo; sono tutti per cosí dire dei manua-li di realismo e amoralismo politico. Nella sua critica aStendhal, Balzac osserva che La Chartreuse de Parme èun nuovo Principe, che Machiavelli non avrebbe potutoscrivere altrimenti, se fosse vissuto esule nell’Italia del-l’Ottocento. Il motto machiavellico di Julien Sorel «Quiveut la fin veut les moyens» [ «Chi vuole il fine vuole imezzi»] ha qui la sua formulazione classica, ripetuta-mente usata dallo stesso Balzac: nel mondo bisognaaccettare le regole del suo gioco, se si vuol parteciparvie contar qualcosa.

Per Stendhal la nuova società si distingue dalla vec-chia anzitutto per le diverse forme del potere, che sisono costituite in seguito allo spostarsi delle forze e al

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mutato valore politico delle classi; per lui il sistema capi-talistico è la conseguenza della nuova struttura politica.Egli descrive la società francese nel momento in cui laborghesia si è già assicurata il potere economico, maancora deve lottare per imporsi sul piano sociale. Que-sta lotta egli la rappresenta da un punto di vista perso-nale, soggettivo, precisamente come si configura perl’intellettuale in ascesa. L’isolamento di Julien Sorel è ilmotivo dominante di tutta l’opera stendhaliana, il temache viene variato e modulato negli altri romanzi, spe-cialmente nella Chartreuse de Parme e nel Lucien Leuwen.Per Stendhal la questione sociale consiste nel destino diquei giovani ambiziosi di umile origine, che la cultura hastrappato al loro ambiente: rimasti, alla fine dell’epocarivoluzionaria, senza mezzi e senza legami, abbagliatidalle occasioni della Rivoluzione e dalla fortuna diNapoleone, vogliono avere nella società una parte ade-guata al loro ingegno e alle loro ambizioni. Ma essi sco-prono che poteri, influenza, posti importanti sono tuttinelle mani dell’antica nobiltà e della nuova aristocraziadel denaro e che dappertutto la mediocrità ha il soprav-vento sulle doti e sull’ingegno. Il principio che ognunoè l’artefice della propria fortuna – idea affatto estraneaagli uomini dell’ancien régime, ma familiare alla gioventúrivoluzionaria – perde il suo valore.

Vent’anni prima il destino di Julien Sorel sarebbestato tutt’altro; a venticinque anni sarebbe diventatocolonnello, a trentacinque generale: ecco il motivo cheritorna sempre. Egli è nato troppo tardi o troppo pre-sto; è come sospeso fra un’epoca e l’altra, fra una clas-se e l’altra. Qual è il suo vero posto? per chi parteggia?È ancora il vecchio, ben noto problema del romantici-smo, che anche ora come allora rimane insoluto. L’ori-gine romantica delle idee politiche di Stendhal si rivelanel modo piú chiaro nel fatto che egli fonda le pretesedel suo eroe semplicemente sul privilegio del talento,

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dell’intelligenza e dell’energia. Per criticare la Restau-razione e giustificare la Rivoluzione egli parte dal pre-supposto che vera vitalità ed energia si possono ancoratrovare soltanto nel popolo. Le circostanze del famosoomicidio del seminarista Berthet, ch’egli riprenderà nelRouge et noir, sono per lui una prova che d’ora in poi igrandi uomini usciranno da quei ceti inferiori ancorapieni d’energia e capaci di vere passioni, a cui apparte-neva non solo Berthet, ma, com’egli sottolinea, ancheNapoleone.

Cosí la coscienza della lotta di classe entra nella let-teratura. Naturalmente, anche prima i narratori aveva-no rappresentato il conflitto tra i vari ceti; nessuna rap-presentazione viva della realtà sociale poteva trascurar-lo. Ma il suo vero significato rimaneva oscuro ai perso-naggi e anche all’autore. Lo schiavo, il servo della gleba,il contadino figuravano abbastanza spesso nell’anticaletteratura – soprattutto come figure comiche – e il ple-beo era descritto non solo come un infingardo, ma anche– ad esempio, nel Paysan parvenu di Marivaux – come ilnuovo ricco; tuttavia mai accadeva che un uomo diumile condizione, cioè al di sotto della media borghesia,fosse presentato come il campione di una classe disere-data. Julien Sorel è il primo eroe di romanzo che sia con-sapevole della sua origine plebea e l’abbia sempre pre-sente; per lui ogni successo è una vittoria sulla classedominante e ogni sconfitta un’umiliazione. Neppure aMadame de Rênal, l’unica donna ch’egli ami davvero,può perdonare di esser ricca e di appartenere a quellaclasse davanti a cui egli crede di dover sempre stare inguardia. Nei suoi rapporti con Mathilde de la Mole lalotta di classe ormai si confonde con la lotta dei sessi.E la sua allocuzione ai giudici non è se non una affer-mazione della lotta di classe, una sfida lanciata agliavversari da chi ha il collo sotto la scure: «Signori, ionon ho l’onore di appartenere alla vostra classe, – egli

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dice. – Voi vedete in me un contadino, che si è ribella-to all’umiltà della sua sorte... Io vedo uomini che vor-ranno punire in me e scoraggiare per sempre quella clas-se di giovani che, nati in basso e oppressi dalla povertà,hanno la fortuna di potersi istruire e l’audacia di mesco-larsi a quel che l’orgoglio dei ricchi chiama la società...»E tuttavia all’autore non importa unicamente, e neppu-re in modo particolare, la lotta di classe; la sua simpatianon va senz’altro ai poveri e agli oppressi, ma ai figlia-stri geniali e sensibili della società, alle vittime della clas-se dominante senza cuore e senza fantasia. Perciò JulienSorel, il figlio di contadini, Fabrizio del Dongo, il ram-pollo di una famiglia di antichissima nobiltà, e LucienLeuwen, l’erede di un patrimonio di milioni, ci appaio-no come fratelli d’arme, compagni di lotta e di pena, chesi sentono ugualmente stranieri e sperduti in questomondo volgare e prosaico. La Restaurazione ha creatocondizioni in cui il conformismo è l’unica via al succes-so e in cui piú nessuno può respirare e muoversi libera-mente, qualunque sia la sua origine.

Ma il destino comune degli eroi stendhaliani nullatoglie al fatto che la lotta di classe è l’origine sociologi-ca del nuovo tipo di eroe e che Fabrizio e Lucien nonsono che trasposizioni ideologiche di Sorel, metamorfo-si del «plebeo ribelle», varietà dell’«infelice che muoveguerra a tutta la società». Senza un ceto medio insidia-to dalla reazione, senza quegli intellettuali condannatialla passività, fra cui lo stesso Stendhal, la figura diFabrizio del Dongo sarebbe inconcepibile come quelladi Julien Sorel. Henri Beyle, funzionario dell’esercitoimperiale, nel 1815 viene messo in pensione a metàpaga; per anni cerca di ottenere un altro impiego, manon riesce neppure a diventare bibliotecario. Vive involontario esilio lontano dalla Francia, tagliato fuori daogni possibilità di carriera, come un naufrago. Odia lareazione, ma quando parla di libertà pensa unicamente

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a sé, al diritto di inseguire la sua felicità. La felicità del-l’individuo, la felicità in senso puramente epicureo è perlui lo scopo di ogni attività politica. Il suo liberalismo èil risultato del suo destino personale, della sua educa-zione, dello spirito ribelle determinato in lui da espe-rienze infantili, del suo fallimento nella vita, ma non diuno schietto sentimento democratico. Egli è un enfantde gauche35, anzitutto perché soggiace a un complesso diEdipo, ma anche perché allievo del nonno che, fedelealunno dei «filosofi» settecenteschi, lo alleva nel cultodell’illuminismo. L’insuccesso lo conferma in questo spi-rito e ne fa un ribelle; ma sentimentalmente egli è unindividualista e un aristocratico, alieno da ogni istintogregario. Il suo culto romantico dell’eroe, l’esaltazionedella personalità forte, dotata, eccezionale, il suo con-cetto degli happy few, la morbosa avversione a tuttoquel che è plebeo, l’estetismo, il dandysmo sono tutteforme di un preziosismo e di un autocompiacimento ari-stocratico.

Ha paura della repubblica, si tiene lontano dalla folla,ama gli agi e il lusso e il suo ideale politico è una monar-chia costituzionale che assicuri al fiore dell’intellettua-lità una vita senza crucci. Ama i salotti signorili, l’oziodell’epicureo, la gente ben educata, frivola e intelligen-te. Teme che la repubblica e la democrazia rendano piúpovera e squallida la vita, teme la vittoria delle rozzemasse ignoranti sulla società colta, che della vita sagodere la bellezza nel modo piú raffinato. «Amo il popo-lo e odio gli oppressori, – dice, – ma sarebbe un tor-mento per me dover sempre vivere con il popolo».

Benché solidale con Julien Sorel, Stendhal lo accom-pagna con sguardo severamente critico e, pur ammiran-do l’ingegno e l’integrità del giovane ribelle, non dissi-mula affatto le sue riserve sulla sua natura plebea. Egline comprende l’amarezza, ne condivide il disprezzo perla società, ne approva l’ipocrisia senza scrupoli e il rifiu-

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to di collaborare con la gente che lo circonda, ma ciòch’egli non capisce e non approva è la folle méfiance, lamorbosa, umiliante diffidenza del plebeo afflitto dacomplessi d’inferiorità e da rancori, la sua impotentebrama di vendetta che infuria alla cieca, la brutta invi-dia che lo sfigura. L’analisi dei sentimenti di Julien,dopo la lettera di Mathilde che gli dichiara il suo amore,mostra chiarissima la distanza che divide Stendhal dalsuo eroe. Di fatto essa è la chiave di tutto il romanzo eci ricorda che nella storia di Julien Sorel non dobbiamovedere una semplice confessione dell’autore. Anzi, que-sti è preso da un senso di repulsione, di paura, di ribrez-zo di fronte a quel sospetto maniaco. «Lo sguardo diJulien era crudele, la sua espressione orrenda», dicesenza alcuna simpatia, senza tentare affatto di scusarlo.Non gli venne mai fatto di pensare che la piú grandecolpa della società verso Julien era appunto di averlo resocosí diffidente e perciò cosí infelice, cosí inumano?

Le opinioni politiche di Stendhal sono altrettantocontraddittorie. Per origine egli appartiene alla borghe-sia, ma per educazione diventa uno dei suoi avversari.Sotto Napoleone egli è un alto funzionario, partecipaalle ultime campagne dell’imperatore, che forse gli faprofonda impressione, ma certo non lo entusiasma: eglimantiene le sue riserve di fronte al despota violento eallo spietato conquistatore36. Anche per lui da principiola Restaurazione significa la pace, la fine del lungo,inquieto, incerto periodo rivoluzionario; nella nuovaFrancia, dapprima egli non si sente affatto estraneo escontento. Ma via via che si accorge come al misero pen-sionato sia chiusa ogni prospettiva, e quale sia il verovolto della Restaurazione, cresce in lui, con l’odio e lanausea per il nuovo regime, l’entusiasmo per Bonapar-te. Il suo debole per la vita bella e comoda lo rendeavverso al livellamento sociale; ma il suo stato povero eoscuro alimenta la sua diffidenza e l’ostilità verso l’or-

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dine attuale impedendogli di aderire alla reazione. Ledue tendenze sono sempre presenti nel pensiero diStendhal; e, secondo le circostanze della sua vita, pre-vale or l’una or l’altra. Nel periodo, per lui cosí oscuro,della Restaurazione, crescono sempre piú il suo scon-tento e il suo radicalismo politico; ma quando le sue con-dizioni personali migliorano, egli si calma e da ribellediventa un difensore dell’ordine e un moderato conser-vatore37. Le rouge et le noir è ancora la confessione di unospostato e di un sedizioso, La Chartreuse de Parme è giàl’opera di un animo placato nella tranquilla rinunzia38.La tragedia è diventata tragicommedia, alla genialitàdell’odio è subentrata una saggezza cordiale, quasi con-ciliante, un piú aperto, superiore umorismo che certoosserva con inesorabile obiettività, ma riconosce la rela-tività delle cose e la debolezza di tutto ciò ch’è umano.Veramente nel tono del poeta s’insinua cosí una certafrivolezza, che ricorda la tolleranza del «tutto com-prendere – tutto perdonare»; ma quanto lontano èStendhal dal conformismo della piú tarda borghesia chetutto perdona nell’ambito delle sue convenzioni, manulla fuori di esse! Che diverso senso dei valori! Cheentusiasmo in Stendhal per la giovinezza, il coraggio,l’ingegno, il bisogno di felicità, l’abitudine a goderla ea crearla; e che stanchezza, che tedio, che timore dellafelicità nella borghesia ormai saldamente al potere! «...Devo esser piú felice di un altro, perché possiedo quelche gli altri non hanno... – dice il conte Mosca. – Ebbe-ne, siamo giusti, l’abitudine di questo pensiero deveguastarmi il sorriso... deve darmi un’aria da egoista...soddisfatta... E il suo, che sorriso incantevole! – (egliparla di Fabrizio). – Ne traspare la spontanea felicitàdella prima giovinezza e la suscita». Eppure Mosca nonè un furfante. È soltanto un debole, e si è venduto.Stendhal si sforza in ogni modo di comprenderlo. Anzi,nel Rouge et noir si chiedeva: «Chi sa quel che si deve

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passare sulla via di una grande impresa? – Danton harubato, Mirabeau si è venduto. – Napoleone in Italia harubato milioni, se no, non sarebbe andato avanti... Sol-tanto Lafayette non ha mai rubato. – Bisogna rubare,bisogna vendersi?» Evidentemente si tratta di ben altroche dei milioni di Napoleone: Stendhal scopre l’ineso-rabile dialettica di ogni atto che opera nella realtà, ilmaterialismo di ogni esistenza, di ogni prassi. Una sco-perta sconvolgente per un romantico genuino, anche setravagliato da forti inibizioni.

Nell’Ottocento nessuno come Stendhal è diviso fraattrazione e opposizione al romanticismo. Anche in que-sto si riflette il dissidio della sua visione politica.Stendhal è un rigido razionalista e positivista; ognimetafisica, ogni pura speculazione, ogni confuso ideali-smo gli è estraneo, odioso. L’essenza della morale, delladirittura intellettuale sta per lui nello sforzo «di vederchiaro in quel che è», nel resistere alle seduzioni dellasuperstizione e dell’autoinganno. «La sua fervida fan-tasia le velava talvolta le cose, – dice di una delle suecreature predilette, la duchessa Sanseverina, – eppurele erano ignote quelle illusioni gratuite che suggerisce laviltà». Ai suoi occhi il fine piú alto è l’ideale di Voltai-re e di Lucrezio: vivere liberi dalla paura. Il suo ateismoè lotta contro il despota della Bibbia e del mito, ed èsolo un aspetto del suo appassionato realismo ribelle aogni menzogna, a ogni inganno. Il suo orrore della reto-rica e del pathos, delle parole e delle frasi magnilo-quenti, dello stile smagliante, esuberante, enfatico diChateaubriand e di De Maistre, la sua predilezione perla chiara, concisa concretezza del «codice civile», per le«buone definizioni», per le frasi brevi, precise, disa-dorne: tutto in lui esprime un materialismo rigido,intransigente – «eroico», come dice Bourget – e il desi-derio di veder chiaro e far veder chiaro in quel che è.Ogni esagerazione, ogni ostentazione gli ripugna, e seb-

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bene egli sia spesso entusiastico, non è mai pomposo. Siè osservato, per esempio, ch’egli non dice mai «libertà»,ma sempre «le due Camere e la libertà di stampa»39;anche questo è un segno della sua avversione a tuttoquanto è irreale ed enfatico; anche questo fa parte dellasua lotta contro il romanticismo e contro il suo stessosentimento romantico.

Il suo sentire infatti è schiettamente romantico; «eglipensa come Elvezio, ma sente come Rousseau», è statodetto40. I suoi eroi sono idealisti delusi, spiriti avventu-rosi, appassionati, anime intatte di fanciulli non conta-minati dalla sozzura della vita. Come il loro celebre pre-decessore, Saint-Preux, amano la solitudine e i luoghialti e remoti, dove possono sognare indisturbati e abban-donarsi ai loro ricordi. I loro sogni, le loro memorie, iloro piú segreti pensieri sorgono dai piú teneri affetti.Ecco la grande forza che in Stendhal bilancia la ragio-ne, la fonte della piú pura poesia e del piú profondofascino dell’opera sua. Ma in lui il romanticismo non èsempre poesia pura, schietta e limpida arte; spesso impli-ca elementi romanzeschi, fantastici, morbosi e macabri.Anzitutto il suo culto del genio non è solo entusiasmoper quel che è grande e sovrumano, ma gusto dello stra-vagante e del curioso; egli esalta la «vita pericolosa» nonsolo perché adora l’intrepido eroismo, ma anche perchéama giocare con la perversità e il delitto. Le rouge et lenoir è, se vogliamo, un romanzo nero, con una fine ecci-tante e orrida; La Chartreuse de Parme è un romanzod’avventure pieno di sorprese, salvataggi miracolosi,crudeltà e situazioni melodrammatiche. Il «beylismo»non è solo una religione della forza e della bellezza, maanche un culto del piacere e un vangelo della violenza –una variante del satanismo romantico. Tutta la criticastendhaliana alla civiltà ha un carattere romantico; siispira all’entusiasmo di Rousseau per lo stato di natura,ma conclude a un entusiasmo insieme esaltato e negati-

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vo, che rimprovera al mondo civile non solo la perditadella spontaneità, ma anche il diminuito coraggio per igrandi delitti pittoreschi. Il bonapartismo di Stendhal èla prova migliore della natura complessa, in parte anco-ra fortemente romantica, del suo mondo intellettuale.Oltre l’esaltazione estetizzante del genio, entrano inquesto culto la stima per chi viene dal basso e vuole ele-varsi, ma anche la solidarietà per il vinto, la vittima dellareazione e dell’oscurantismo. Per Stendhal, Napoleoneè il tenentino che diventa signore del mondo, il cadettodella favola che scioglie l’enigma e ottiene la figlia delre; ma è anche l’eterno martire e l’eroe dello spirito,troppo buono per questo mondo corrotto, e votato alsacrificio. Anche qui immoralismo e satanismo roman-tico si confondono e trasformano l’apoteosi della gran-dezza – nel bene come nel male –, l’ammirazione peressa nonostante il male che spesso necessariamente nederiva, in un culto della grandezza proprio perché dispo-sta anche al male, anche al delitto. Il Napoleone diStendhal, come Julien Sorel, appartiene agli antenati diRaskol´nikov; essi incarnano quel che per Dostoevskijera il romanticismo dell’Occidente e ch’egli volle fataleal suo eroe.

Anche la rassegnazione stendhaliana conserva trattiromantici e mostra di derivare dal romanzo della delu-sione piú direttamente che non il freddo e oggettivo pes-simismo balzachiano. Ma i romanzi di Stendhal fini-scono male come quelli di Balzac; la differenza è quin-di nel modo, non nel grado della rinunzia. Anche i suoieroi sono sconfitti, anch’essi affondano miseramente o,peggio, sono costretti alla capitolazione, ai compromes-si, muoiono giovani o si appartano delusi. Alla fine sonotutti stanchi della vita, logori, consunti, bruciati; cessa-no di lottare e patteggiano con la società. La morte diJulien è una specie di suicidio e la fine dell’eroe nellaChartreuse de Parme è una sconfitta altrettanto triste. Il

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tono della rinunzia risuona già in Armance, dove il temadell’impotenza è il chiaro simbolo dell’isolamento cheaffligge tutti gli eroi stendhaliani. Il motivo riecheggianella persuasione del giovane Fabrizio di essere incapa-ce di vero amore; e un analogo dubbio sorge in JulienSorel. Comunque, la potenza di Eros che colma di feli-cità spegnendo l’essere egoisticamente individuale, l’ab-bandono intero all’istante e il perfetto oblio di sé nelladedizione all’amata gli sono ignoti. Per gli eroi diStendhal non esiste felicità del presente; la felicità peressi è sempre già alle loro spalle, ci pensano soltantoquando è già trascorsa. Il senso tragico che Stendhal hadella vita mai si esprime in modo tanto straziante comequando Julien scopre che i giorni di Vergy e di Verriè-res, vissuti inconsciamente e distrattamente, e ora ine-sorabilmente e per sempre svaniti, erano la cosa piúbella, piú buona, piú preziosa che la vita avesse da offri-re. Solo il passare delle cose ci fa consci del loro valore;solo nell’ombra della morte Julien impara ad apprezza-re la vita e l’amore di Madame de Rénal; solo in carce-re Fabrizio scopre la vera felicità e la vera, intimalibertà. Chi sa, si domanda Rilke davanti alla gabbia diun leone, dov’è la libertà: davanti o dietro le sbarre?Domanda schiettamente stendhaliana e altamenteromantica.

Nonostante la sua avversione allo stile colorito edenfatico, anche formalmente Stendhal è un erede delromanticismo, e in senso assai piú stretto di quanto sipossa dire, piú o meno, per ogni artista moderno. L’i-deale classico dell’unità, dell’ordine rigoroso, dellasubordinazione a un’idea principale, l’equilibrato svi-luppo dell’argomento, senza arbitrî soggettivi, e senzamai perdere di vista il lettore, in lui scompaiono deltutto, sostituiti da una visione in cui domina unica-mente la volontà di esprimersi, e che mira a rendere l’e-sperienza nel modo piú diretto, semplice e autentico. I

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romanzi di Stendhal appaiono come un insieme di pagi-ne di diario e di schizzi, che anzitutto cercano di fissa-re i moti dell’animo, il meccanismo dei sentimenti e illavorio mentale dell’autore. Espressione, confessione,comunicazione soggettiva sono la meta vera; il fluiredelle esperienze, il ritmo stesso della corrente sono ilvero argomento; in confronto, ciò che la corrente tra-scina e porta con sé appare quasi secondario.

Piú o meno, ogni arte moderna, post-romantica, èimprovvisazione e all’origine di questo sta sempre l’ideache il sentimento, lo stato d’animo, l’ispirazione sianopiú ricchi e piú vicini alla vita, che non l’abilità, il gustocritico e la costruzione sapiente. Consciamente o no,tutta la concezione moderna parte dalla convinzioneche gli elementi piú validi dell’opera d’arte siano le fan-tasie improvvise, le felici trovate, i doni della divina ispi-razione e che per l’artista il meglio sia di abbandonarsiall’inventiva. Perciò l’invenzione del particolare è cosíimportante nell’arte moderna, e tanto piú forte è il suoeffetto quanto piú frequenti vi sono le svolte inattese ei motivi accessori imprevisti. Già Beethoven, rispetto aisuoi predecessori, fa l’effetto di improvvisare, benché leopere di quelli, specie quelle di Mozart, siano nate inmodo evidentemente piú agevole, sereno e ispirato dellecomposizioni beethoveniane che invece sono state pre-parate con molta cura, spesso attraverso numerosiabbozzi. Mozart sembra sempre seguire un piano obiet-tivo, necessario, invariabile, mentre Beethoven in ognitema, in ogni motivo, in ogni tono ha l’aria di dire «per-ché lo sento così», «perché lo odo così» e «perché voglioche sia così». Le opere dei maestri piú antichi sonocomposizioni ben articolate e costruite, melodie schiet-te e nitide, mentre le opere di Beethoven e dei compo-sitori piú tardi sono recitativi, gridi dal fondo del cuorein pena.

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In Port Royal Sainte-Beuve osserva che per il classi-cismo il maggior poeta era chi creava l’opera piú per-fetta, piú chiara, piú gradevole, mentre noi moderni daun poeta ci aspettiamo soprattutto uno stimolo, cioè unmotivo per sognare e poetare con lui41. I nostri poetiprediletti sono quelli che suggeriscono molte cose accen-nandole appena e lasciando sempre qualcosa d’inespres-so, che tocca a noi indovinare, chiarire, integrare. L’o-pera incompiuta, inesauribile, indefinibile è per noi lapiú affascinante, la piú profonda ed espressiva. Tuttal’arte psicologica di Stendhal mira a stimolare la colla-borazione del lettore nell’osservazione e nell’analisi.Due fondamentalmente sono i metodi di analisi psico-logica. I classici francesi partono dall’idea unitaria di uncarattere e sviluppano i diversi attributi psichici da unasostanza in sé immutabile. La forza persuasiva del per-sonaggio cosí creato sta nella logica coerenza dei tratti,ma in sé l’immagine è piuttosto il mito che il ritratto diun uomo. L’introspezione del lettore nulla aggiunge, sipuò dire, all’interesse e alla verosimiglianza dei perso-naggi; questi s’impongono in linee grandi e nitide,vogliono esser contemplati e ammirati, non analizzati einterpretati. Il metodo psicologico di Stendhal, che sisuol considerare ugualmente analitico, benché diame-tralmente opposto a quello classico, non parte dall’unitàlogica della personalità, ma dalle sue manifestazioni sin-gole, e nel quadro non accentua i contorni, ma le sfu-mature e i valori tonali. L’immagine complessiva constadi particolari, di osservazioni singole, di puntuali preci-sazioni, in un contesto per lo piú cosí lacunoso e con-traddittorio, che il lettore viene sempre rinviato all’in-trospezione e all’interpretazione soggettiva del com-plesso e caotico quadro. Per i classici un carattere eratanto piú plausibile quanto piú era chiaro e coerente, orainvece una figura poetica risulta tanto piú viva e per-suasiva, quanto piú è complicata e rapsodica, quanto piú

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chiede di essere integrata dalla personale esperienza dellettore.

La tecnica di Stendhal dei petits faits vrais non vuoldire che la vita psichica consista tutta di piccole mani-festazioni effimere, in sé e per sé irrilevanti, ma inveceche un carattere è imprevedibile e indefinibile e contie-ne innumerevoli aspetti capaci di modificarne la misurafondamentale e di romperne l’unità. Incoraggiare il let-tore a osservare e poetare insieme con l’autore e ammet-tere che il soggetto è inesauribile significa una cosa sola:dubitare che l’arte sia in grado di dominare la realtà.L’intricata psicologia moderna è un segno della nostraincapacità di comprendere l’uomo odierno con la stessasicurezza con cui il classicismo aveva compreso l’uomodel Sei e del Settecento. Ma di fronte a quest’insuffi-cienza, esclamare con Zola: «La vita è piú semplice»42,sarebbe pura cecità di fronte alla complessa natura dellavita moderna. Per Stendhal la complicazione psicologi-ca è il frutto della sempre piú chiara consapevolezza del-l’uomo odierno, della sua appassionata introspezione,della sua attenzione a ogni moto del cuore e della mente.Ma quando lo scrittore afferma: «L’uomo ha in sé dueanime» (Le rouge et le noir), con ciò non intende ancoral’intima scissione che in Dostoevskij rende l’uomo estra-neo a se stesso, ma semplicemente quel dualismo che fadel nostro intellettuale un essere che insieme agisce econtempla, attore e spettatore di se stesso. Stendhal neconosce la piú grande felicità e la peggior miseria: l’au-tocoscienza che ne accompagna la vita spirituale. Quan-do egli ama, gode della bellezza, si sente intimamentelibero da ogni vincolo, non soltanto per questo s’allie-ta, ma anche per la coscienza della sua felicità43. Tutta-via, mentre dovrebbe interamente abbandonarvisi, sciol-to da ogni imperfezione e insufficienza, è sempre pienodi problemi e di dubbi: E questo è tutto? – si domanda– questo, il celebrato amore? È dunque possibile amare,

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sentire, estasiarsi e intanto osservarsi cosí freddamentee tranquillamente? La risposta di Stendhal non è certoquella corrente, che tra sentimento e ragione, passionee riflessione, amore e ambizione ammette una distanzainsuperabile; egli è invece persuaso che l’uomo moder-no sente, si inebria e si esalta diversamente da un con-temporaneo di Racine o di Rousseau. Per costoro senti-mento spontaneo e suo riflettersi nella coscienza eranocose inconciliabili, per Stendhal e i suoi eroi sono inve-ce cose inscindibili; nessuna delle loro passioni è fortequanto il desiderio d’essere sempre consci di ciò cheavviene nel loro intimo. Questa consapevolezza signifi-ca, rispetto alla letteratura precedente, un mutamentonon meno profondo del realismo stendhaliano; e il supe-ramento della psicologia classicoromantica è per la suaarte una premessa essenziale quanto l’annullamento del-l’alternativa tra romantica fuga dal mondo e ottimismoantiromantico.

I caratteri di Balzac sono piú coerenti, meno com-plicati e problematici di quelli di Stendhal; in certomodo essi segnano un ritorno alla psicologia delle opereclassiche e romantiche. Sono monomani, soggiogati dauna sola passione e ogni loro passo, ogni parola sembraobbedire a un ordine. Ma è strano che tale costrizionenon menomi la verosimiglianza delle figure, che risulta-no in definitiva piú reali di quelle stendhaliane, megliorispondenti per altro, con le loro antinomie, alle nostreconcezioni psicologiche. Ci troviamo di fronte al miste-ro di un’arte travolgente, benché straordinariamentedisuguale di valore, che costituisce un fenomeno fra i piúinesplicabili nella storia della creazione artistica. Delresto i personaggi di Balzac non sempre sono cosí sem-plici come si usa affermare: alla loro maniaca unilatera-lità spesso si associa una grande ricchezza di tratti indi-viduali. Forse sono meno brillanti e «interessanti» degli

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eroi stendhaliani, ma appaiono piú vivi, inconfondibilie indimenticabili.

Si è chiamato Balzac gran pittore di ritratti, ricondu-cendo l’irresistibile efficacia della sua arte alla potenzadelle sue figure. Di fatto, parlando di Balzac, si pensaanzitutto alla giungla umana dei suoi romanzi, alla follae alla varietà dei tipi a cui dà vita; ma per lui il fattorepsicologico non è il piú importante. Quando si cerca dichiarire l’origine del suo mondo, ci si deve sempre rifa-re alla sua sociologia, parlando delle condizioni materia-li da cui sorge il suo cosmo intellettuale. A differenza diStendhal, Dostoevskij o Proust, per lui c’è una cosa piúessenziale, piú irriducibile della realtà psichica. Un per-sonaggio non ha importanza di per sé; comincia ad esse-re interessante e significativo soltanto come rappresen-tante di un gruppo sociale, come esponente di un con-flitto tra opposti interessi di classe. Lo stesso Balzac con-sidera sempre i suoi personaggi come fenomeni naturalie, quando vuol indicare i fini dell’arte sua, non parla maidella sua psicologia, ma sempre soltanto della sua socio-logia, della sua storia naturale della società e della fun-zione dei singoli individui nella vita dell’organismo socia-le. Tuttavia, non già come «dottore in scienze sociali»,come gli piacque chiamarsi, egli divenne il maestro di unnuovo tipo di romanzo, ma come assertore della nuovaidea dell’uomo, secondo cui «l’individuo esiste solo inrapporto con la società». Come da una scoperta geologi-ca si può trarre tutto un mondo, – egli dice nella Recher-che de l’absolu, – cosí ogni monumento di una civiltà,ogni casa, ogni mosaico esprime tutta una struttura socia-le; tutto è espressione e testimonianza di quel grande pro-cesso. Una sorta d’ebbrezza, d’estasi lo afferra di frontea questa causalità sociale, a questa legge ineluttabile, chesola può spiegare il senso del presente, e quindi risolve-re il problema su cui s’impernia tutto il suo mondo. LaComédie humaine difatti deve la sua intima unità, non al

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concatenarsi dell’azione, né al ricorrere dei personaggi,ma alla presenza di questo problema come motivo domi-nante, che in realtà ne fa un unico grande romanzo, lastoria della moderna società francese.

Balzac libera la narrativa dalle angustie dell’autobio-grafia e della pura psicologia, in cui si era rinchiusa nellaseconda metà del Settecento. Egli spezza quei limiti divicenda individuale, cui si attenevano sia i romanzi diRousseau e di Chateaubriand, sia quelli di Goethe e diStendhal, e si emancipa dallo stile di confessione che erastato proprio del Settecento, pur non riuscendo, natu-ralmente, a spogliarsi d’un tratto d’ogni elemento liri-co-autobiografico. Balzac anzi trova il suo stile assailentamente: in un primo tempo continua la letteraturain voga durante la Rivoluzione, la Restaurazione e ilromanticismo, e anche nella piena maturità conservareminiscenze di certi mediocri romanzi precedenti. Eglinon può negare che la sua arte derivi dal misteriosoromanzo nero e dal melodrammatico romanzo d’appen-dice, come da quello amoroso e storico; e il suo stilediscende da Pigault-Lebrun e da Ducray-Duminil, comeda Byron e da Walter Scott44. Non solo Ferragus e Vau-trin, ma anche Montriveau e Rastignac rientrano nellaserie romantica dei ribelli, dei proscritti, e il gusto delromanzo nero riaffiora, non solo nella vita degli avven-turieri e dei delinquenti, ma, come è stato osservato,anche nella descrizione della vita borghese45. La societàmoderna con i suoi politici, burocrati, banchieri, con glispeculatori, i gaudenti, le cocottes, i giornalisti, gli pareun incubo, un’implacabile danza macabra. Egli conce-pisce il capitalismo come una malattia della società e perun certo tempo vagheggia l’idea di trattarla da un puntodi vista medico, in una Patologia della vita sociale46. Lasua diagnosi è che esiste un’ipertrofia del desiderio diprofitto e di potenza, e la causa del male sta per lui nel-l’egoismo e nell’irreligiosità dell’epoca. In tutto egli

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vede le conseguenze della Rivoluzione e imputa il crol-lo delle antiche strutture gerarchiche – monarchia, Chie-sa e famiglia – all’individualismo, alla libera concorren-za e alla smodata, sfrenata ambizione. Balzac descrivecon mirabile acume i sintomi dell’epoca d’espansioneeconomica in cui vive la sua generazione, penetra lefatali contraddizioni interne del sistema capitalistico, manello spiegarne l’origine dà troppa parte all’arbitrio, edegli stesso non crede fermamente alla cura che prescri-ve. L’oro, il luigi d’oro e lo scudo, le azioni, le cambia-li, le polizze e le carte da gioco, ecco gl’idoli e i feticcidella nuova società: il «vitello d’oro» è qui una realtà piútremenda che nel Vecchio Testamento e il richiamo deimilioni è piú seducente di quello della meretrice apoca-littica. Balzac ritiene che le sue tragedie borghesi, anchese imperniate soltanto sul denaro, siano piú crudeli deldramma degli Atridi; e infatti le parole di Grandetmorente alla figlia: «Tu me ne renderai conto laggiú»,superano in orrore i toni piú cupi della tragedia greca.Le cifre, le somme, i bilanci sono qui gli scongiuri e glioracoli di una nuova mitologia, di un nuovo mondomagico. Come nella favola i doni degli spiriti malvagi,qui i milioni emergono dal nulla e subito spariscono,dileguano. Balzac facilmente scivola in un tono fiabesco,quando si tratta di denaro. Gli piace far la parte di queigeni che coprono di doni i mendicanti, e con i suoi eroisi rifugia volentieri in un’orgia romantica di sogni. Masugli effetti ultimi dell’oro, sulle devastazioni ch’essoprovoca, sull’avvelenamento dei rapporti umani chedetermina, egli non s’inganna mai; il suo senso dellarealtà mai lo tradisce.

La caccia al denaro e al profitto distrugge la vitafamigliare, allontana la moglie dal marito, la figlia dalpadre, il fratello dal fratello, trasforma il matrimonio inun’associazione d’interessi, l’amore in un affare e inca-tena le vittime l’una all’altra come schiavi. Si può imma-

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ginare nulla di piú sinistro dell’obbligo imposto dal vec-chio Grandet alla figlia, erede della sua ricchezza? o diquei tratti del carattere paterno che riaffiorano in Eugé-nie, appena essa diventa padrona di casa? C’è qualcosadi piú spettrale di questa forza della natura, di questodominio della materia sulle anime? Il denaro estranial’uomo da se stesso, distrugge gli ideali, corrompe gl’in-gegni, prostituisce artisti, poeti, studiosi, del genio fa undelinquente, trasforma in avventurieri e in giocatorid’azzardo coloro che erano nati per essere dei capi. Laclasse sociale piú responsabile della spietata economiamonetaria, quella che ne trae il massimo profitto, ènaturalmente la ricca borghesia; ma la lotta selvaggia ebestiale ch’essa scatena, coinvolge tutti i ceti: l’aristo-crazia, che ne è la vittima maggiore, come le altre clas-si. Eppure, di fronte all’anarchia del presente, Balzacnon trova altro rimedio da proporre se non un rinnova-mento di quest’aristocrazia, che vorrebbe educata alrazionalismo e al realismo borghese e aperta ai plebeid’ingegno. Egli è un ardente fautore della feudalità,ammira gl’ideali intellettuali e morali ch’essa rappre-senta e ne deplora la rovina; ma appunto per questo ètanto piú spietato e obiettivo nel descriverne la dege-nerazione e anzitutto la deferenza per le borse d’orodella borghesia. Lo snobismo di Balzac fa sempre uneffetto penoso, ma i suoi scarti politici sono affattoinnocenti, poiché, sebbene sostenga con tanto zelo lacausa dell’aristocrazia, egli non è un aristocratico, ilche, come giustamente si è notato47, muta la sostanzadelle cose. Il suo atteggiamento è tutto speculativo; nonviene dal cuore né dall’istinto.

Balzac non solo è uno scrittore borghese fino almidollo, che attinge spontaneamente e profondamentedall’intimo orientamento della sua classe, ma è anche ilpiú felice apologeta della borghesia, e non dissimula lasua ammirazione per quanto essa ha fatto. Solo, è pieno

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d’isterica paura e fiuta dappertutto disordine e rivolu-zione. Egli combatte tutto quel che minaccia l’ordinecostituito e difende tutto quello che pare sostenerlo. Ilmiglior baluardo contro l’anarchia e il caos sono per luiil trono e la Chiesa, e il feudalesimo è soltanto il siste-ma che consegue al loro dominio. Egli non consideraaffatto la monarchia, la Chiesa e la nobiltà quali sonodiventate dopo la Rivoluzione, ma soltanto gl’idealich’esse rappresentano, e combatte la democrazia e illiberalismo perché sa che tutto l’edificio gerarchico fatal-mente crollerà, se si comincia a criticarlo. Egli pensainfatti che «una potenza discussa non dura».

L’uguaglianza è una folle utopia, in nessun luogo delmondo si è attuata. E come ogni comunità – prima d’o-gni altra la famiglia – riposa sul principio autoritario,cosí tutta la società deve reggersi su questo principio. Idemocratici e i socialisti sono astratti sognatori, nonsolo perché credono alla libertà e all’uguaglianza, maanche perché idealizzano smisuratamente il popolo e ilproletariato. Pure gli uomini sono in fondo tutti ugua-li; tutti pensano al proprio vantaggio e fanno solo i pro-pri interessi. La società nel suo complesso è dominatadalla logica della lotta di classe; la guerra tra ricchi epoveri, forti e deboli, privilegiati e paria non avrà maifine. «Ogni potere tende alla propria conservazione» (LeMédecin de campagne), e ogni classe oppressa a distrug-gere i suoi oppressori: questi i fatti immutabili. Ma Bal-zac, a cui sono già familiari i concetti della lotta di clas-se, conosce anche il metodo rivelatore del materialismostorico. «Uno scassinatore si manda all’ergastolo, – diceVautrin nelle Illusions perdues, – mentre un uomo checon una bancarotta fraudolenta rovina intere famiglie,se la cava con qualche mese... I giudici che condannanoil ladro fanno buona guardia alla barriera tra ricco epovero... ma sanno che il bancarottiere causa al massi-mo uno spostamento della ricchezza».

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Questa è la differenza essenziale tra Balzac e Marx:il poeta della Comédie humaine giudica la lotta del pro-letariato esattamente come quella delle altre classi, unalotta cioè che mira a vantaggi e privilegi; Marx invecevi scorge l’inizio di un’era nuova e, nel suo trionfo, l’at-tuazione di una condizione ideale e definitiva48. Primadi Marx, e in forma che Marx stesso giudicherà esem-plare, Balzac scopre la natura ideologica del pensiero.«La virtú comincia con il benessere», dice nella Rabouil-leuse, e nelle Illusions perdues Vautrin parla del «lussodell’onestà», che ci si può permettere solo quando sidisponga di posizione e censo adeguati. Già nel suoEssai sur la situation du parti royaliste (1832) Balzac indi-ca come proceda il formarsi dell’ideologia. «Le rivolu-zioni si compiono, – egli afferma, – prima nelle cose enegli interessi, poi si estendono alle idee e infine si tra-sformano in principî». Il nesso che lega il pensiero all’e-sistenza materiale e la dialettica di vita e coscienza, eglili scopre già in Louis Lambert dove l’eroe, com’egli osser-va, dopo lo spiritualismo della sua giovinezza, vede sem-pre piú chiara la materialità del pensiero. Evidente-mente non fu un caso se Balzac e Hegel riconobberoquasi a un tempo la struttura dialettica dei contenutidella coscienza. L’economia capitalistica e la modernaborghesia erano piene di contraddizioni e mettevano inluce il duplice condizionamento dello sviluppo storicopiú chiaramente delle civiltà precedenti. Le basi mate-riali della società borghese non solo già di per sé eranopiú trasparenti di quelle del feudalesimo, ma il nuovoceto dirigente era assai meno preoccupato dell’antico ditravestire ideologicamente le premesse economiche delsuo potere. Del resto, la sua ideologia era ancora trop-po recente, perché se ne potesse dimenticare l’origine.

Nella concezione di Balzac il tratto saliente è il rea-lismo, la considerazione nuda e obiettiva dei fatti. Il suomaterialismo storico e la sua teoria delle ideologie non

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sono che obiettivazioni del suo senso della realtà. Equesta posizione realistica e critica Balzac la mantieneanche di fronte a quei fenomeni a cui sentimentalmen-te è legato. Così, pur con le sue opinioni conservatrici,egli sottolinea soprattutto la forza incoercibile dello svi-luppo che ha portato alla moderna società capitalistico-borghese, e non cade mai nel provincialismo degli idea-listi nel giudicare la civiltà della tecnica. Egli è netta-mente favorevole all’industria moderna, nuova potenzauniversale49; ammira la moderna metropoli con le suegrandi proporzioni, il suo dinamismo, il suo slancio.Parigi lo inebria; egli l’ama pur cosí viziosa, anzi forseper la mostruosità dei suoi vizi. Infatti, quando parla del«grand chancre fumeux, étalé sur les bords de la Seine»[«Gran cancro fumoso, che s’adagia sulle rive dellaSenna»], ogni parola tradisce il fascino che si cela die-tro l’espressione violenta. Il mito di Parigi nuova Babi-lonia, città di luci notturne e di segreti paradisi, patriadi Baudelaire e di Verlaine, di Constantin Guy e diToulouse-Lautrec, il mito della Parigi pericolosa, sedut-trice, irresistibile, ha la sua origine nelle Illusions perdues,nell’Histoire des Treize e nel Père Goriot. Balzac è ilprimo scrittore entusiasta di una moderna metropoli, ilprimo che si compiaccia di fronte a un impianto indu-striale. Parlare di «délicieuses fabriques» in mezzo aldolce paesaggio di una valle, non era ancor venuto inmente a nessuno50. Quest’ammirazione per la nuovavita, creatrice pur nel suo impeto spietato, è un com-penso al pessimismo balzachiano, è la sua forma di spe-ranza, di fiducia nell’avvenire. Egli sa che non è piú pos-sibile ritornare alla vita patriarcale e idillica della piccolacittà e del villaggio; ma sa pure che questa non era affat-to cosí romantica e poetica, come di solito la si descri-ve, poiché «naturalezza» non significava che ignoranza,malattia e povertà (Le Médecin de campagne, Le Curé devillage). Il «misticismo sociale» dei romantici gli è affat-

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to estraneo, nonostante le sue inclinazioni per il roman-zesco51; e specialmente sulla «purezza morale» e l’«inno-cenza» dei contadini egli non si fa illusioni. Giudica lequalità buone e cattive del popolo con la stessa obietti-vità con cui analizza le virtú e i vizi dell’aristocrazia eil suo atteggiamento verso le masse è altrettanto pocodogmatico, contraddittorio anzi, che quello, di odio eamore insieme, verso la borghesia.

Balzac, senza volerlo e senza saperlo, è uno scrittorerivoluzionario. Le sue vere simpatie lo portano verso iribelli e i nichilisti. La maggior parte dei suoi contem-poranei lo sentono politicamente infido; essi sanno chein fondo egli è un anarchico, sempre solidale con i nemi-ci della società, con chi è fuori rango, con gli spostati.Louis Veuillot osserva ch’egli difende trono e altare inun modo che potrebbe valergli tutta la riconoscenza deiloro nemici52. Alfred Nettement nella «Gazette de Fran-ce» (febbraio 1836) scrive che Balzac vuole vendicarsidella società per tutte le ingiustizie subite in gioventú,e solo per questo esalta le nature antisociali. Nei suoiricordi (ottobre 1833) Charles Weiss sottolinea che Bal-zac si dichiara legittimista, ma parla sempre come unliberale. Victor Hugo afferma che, volente o nolente,egli appartiene alla razza dei poeti rivoluzionari, e nellesue opere si manifesta il cuore di uno schietto demo-cratico. Zola infine rileva il contrasto tra gli elementipalesi e quelli latenti della sua visione e osserva, preve-nendo l’interpretazione marxista, che l’ingegno di unpoeta può benissimo contrastare con le sue opinioni. Mail vero senso di questo antagonismo lo scopre e lo defi-nisce Engels. Per primo egli studia in forma suscettibi-le di ulteriore sviluppo scientifico la contraddizione trale vedute politiche e l’arte del poeta, formulando cosíuno dei piú importanti principî euristici della sociologiaartistica. Da allora in poi è acquisito che arte progressi-sta e politica conservatrice possono benissimo coesiste-

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re e che ogni onesto artista che descriva fedelmente esinceramente la realtà fa opera di per sé illuminante eliberatrice. Un tale artista contribuisce involontaria-mente a distruggere quelle convenzioni e quegli schemi,quei tabú e quei dogmi su cui poggia l’ideologia reazio-naria, ostile al progresso. In una lettera divenuta cele-bre, dell’anno 1888, a una certa miss Harkness, Engelsscrive fra l’altro: «Il realismo di cui parlo può manife-starsi perfino nonostante le opinioni dell’autore... Bal-zac, che io ritengo un maestro del realismo di gran lungasuperiore a tutti gli Zola passati, presenti e futuri, nellaComédie humaine ci dà un’eccellente storia realisticadella «società» francese, descrivendo quasi a mo’ di cro-naca, quasi anno per anno, dal 1816 fino al 1848, lapressione sempre crescente della borghesia in ascesacontro la società nobiliare che dopo il 1815 si ricostituíe, per quanto poteva, tenne alta la bandiera della vieil-le politesse française [antica cortesia francese]. Egli descri-ve come gli ultimi residui di questa società per lui esem-plare a poco a poco soccombano all’assalto dei volgariarricchiti, o ne vengano corrotti... Certo, Balzac politi-camente era un legittimista; la sua grande opera è uncontinuo epicedio sull’inevitabile decadenza della buonasocietà; tutte le sue simpatie vanno alla classe condan-nata. E tuttavia la satira non è mai piú acuta, né l’iro-nia piú amara, di quando entrano in scena appunto gliuomini e le donne di quella classe piú profondamentecara all’autore, la nobiltà... Che Balzac sia così costret-to ad agire contro le proprie simpatie sociali, i propripregiudizi politici, ch’egli veda ineluttabile il tramontodei suoi diletti nobili e li descriva come gente che nonmerita destino migliore; e che egli veda i veri uomini delfuturo soltanto là dove allora si potevano trovare – que-sto io lo considero uno dei massimi trionfi del realismoe uno dei piú grandiosi tratti del vecchio Balzac»53.

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Balzac è un naturalista che si abbandona alla forzaespansiva di una volontà artistica, tutta tesa ad arric-chire e differenziare il materiale dell’esperienza. Ma siesiterà a considerarlo veramente tale, se per naturalistas’intende chi si adegua perfettamente ai dati della realtà,e usa lo stesso criterio di verità in tutti i piani dell’ope-ra. Piuttosto si dovrà constatare che la sua fantasiaromantica e la sua inclinazione al melodramma finisco-no sempre per avere la meglio e che spesso egli non solosceglie i caratteri piú eccentrici e le situazioni piú inve-rosimili, ma addirittura costruisce i fondi delle sue sto-rie in modo che non è possibile immaginarseli concre-tamente, e solo i colori e i toni suggeriscono l’impres-sione voluta. Definirlo senz’altro un naturalista può solocondurre a delusioni. È assurdo e vano paragonarlo,come psicologo o ricreatore di ambienti, ai maestri delpiú tardo romanzo naturalistico, quali Flaubert o Mau-passant. Le sue opere vanno godute come descrizionidella realtà e insieme come sogni tra i piú audaci e sfre-nati; pretendere che esse siano qualcosa di diverso daquesto miscuglio indiscriminato di elementi, ne impediràsempre la comprensione. L’arte di Balzac è dominata daun appassionato desiderio di abbandonarsi alla vita, main complesso è relativamente poco quel che essa deveall’osservazione diretta; il piú è invenzione, immagina-zione, sentimento.

Ogni opera d’arte, anche la piú naturalistica, è un’im-magine ideale e una versione leggendaria della realtà.Anche nello stile meno convenzionale certi elementi,come, ad esempio, i colori chiari e le macchie senzacontorni della pittura impressionistica o le figure incoe-renti e inconsistenti del romanzo moderno, noi le accet-tiamo senz’altro, come veri e giusti. Ma in Balzac ladescrizione della realtà è ancora piú arbitraria che nellamaggior parte dei naturalisti. Egli suscita l’impressionedella vita soprattutto sottomettendo dispoticamente il

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lettore al suo capriccio, alla totalità microcosmica del suomondo fittizio che esclude a priori la concorrenza dellarealtà empirica. Le figure e gli scenari appaiono cosíautentici, non perché i singoli tratti con cui sono dise-gnati corrispondano all’esperienza reale, ma perché illoro disegno è altrettanto sottile e circostanziato, che sefosse stato osservato e ritratto dal vero. Il senso di esserdi fronte a una densa realtà, ci viene dal fatto che i sin-goli elementi di quel microcosmo sono inscindibilmen-te connessi, e le figure appaiono inimmaginabili senzal’ambiente, i caratteri senza l’aspetto fisico, le personesenza gli oggetti circostanti.

Le opere classiche sono isolate dal mondo esterno:chiuse nella loro sfera estetica stanno l’una accanto all’al-tra, in una rigorosa solitudine. Qualsiasi tratto natura-listico, ogni evidente dipendenza da un modello rompel’immanenza di questa sfera, e ogni struttura ciclica cheintervenga a collegare le diverse rappresentazioni arti-stiche annulla l’autonomia dell’opera singola. Per la mag-gior parte le opere medievali sono composizioni aggiun-tive di questo tipo, che includono piú unità indipen-denti; tali sono l’epos cavalleresco e i romanzi d’avven-tura, con la loro vicenda interminabile e le figure inparte ricorrenti; tali i cicli della pittura medievale e gliinnumeri episodi dei misteri. Balzac, con il suo sistema,con l’idea della Comédie humaine come quadro unitarioin cui includere i singoli romanzi, in pratica ritorna pro-prio a questo modo di composizione medievale, facen-do sua una forma per cui non avevano senso e valorel’autonomia e la cristallina perfezione dell’opera classi-ca. Ma come è giunto Balzac a questa forma «medieva-le»? Come ha potuto questa tornare attuale a metà del-l’Ottocento? La concezione medievale era stata intera-mente eclissata dal classicismo rinascimentale, dall’ideadi unità e subordinazione. Finché il classicismo si eramantenuto in vigore, la composizione ciclica non aveva

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mai potuto affermarsi; ma il classicismo durò soltantofinché durò la convinzione di poter dominare la realtàmateriale. L’arte classica decade quando nasce il sensodella soggezione dell’essere alle condizioni materiali.Anche in questo senso i romantici precorrono Balzac.

Zola, Wagner e Proust segnano le tappe ulteriori diquesto sviluppo e affermano sempre piú la tendenzaall’opera ciclica, enciclopedica, universale, in contrastocon il principio dell’unità e della scelta. L’artista moder-no vuol essere partecipe di una vita che appare inesau-ribile e non si lascia chiudere nella misura di un’operasingola. Egli può esprimere la grandezza solo ricorren-do all’estensione, la forza solo rompendo ogni limite.Proust era evidentemente conscio delle sue connessionicon la forma ciclica di Wagner e di Balzac. «Il musici-sta (Wagner), – egli scrive, – dovette provare la stessaebbrezza di Balzac quando guardò alle sue creazioni conl’occhio di un estraneo e insieme, di un padre... Egliallora osservò che sarebbero state assai piú belle, seunite in un ciclo da figure ricorrenti e aggiunse un’altrapennellata, l’ultima, sublime, all’opera sua... un’unitàche era un complemento, ma non certo un artificio...un’unità prima non riconosciuta, ma perciò tanto piúvera e vitale...»54.

Dei duemila personaggi della Comédie humaine, oltrequattrocentosessanta ricorrono in piú romanzi. Henryde Marsay, per esempio, lo incontriamo in venticinqueopere diverse e in Splendeurs et misères des courtisanescompaiono centocinquanta personaggi che anche altro-ve hanno una parte piú o meno importante55. La ric-chezza delle figure trascende l’opera singola e si ha sem-pre l’impressione che Balzac non ci dica tutto quel chene sa.

Quando fu chiesto a Ibsen, perché all’eroina di Casadi bambola avesse dato un nome esotico, rispose che erail nome di sua nonna che era italiana. La nonna vera-

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mente si chiamava Eleonora, ma da bimba la chiama-vano col vezzeggiativo di Nora. All’obiezione che tuttociò non compariva affatto nel dramma, egli rispose stu-pito: «Ma i fatti sono fatti». Thomas Mann ha piena-mente ragione: Ibsen rientra nella stessa categoria a cuiappartengono gli altri due grandi del teatro ottocente-sco, Zola e Wagner56. Anche in lui l’opera singola ha per-duto la microcosmica compiutezza della forma classica.Aneddoti come quello di Ibsen riferito non si contanonei rapporti di Balzac con i suoi personaggi. Notissimoè quello di Jules Sandeau, che mentre sta raccontando-gli di sua sorella malata, viene da lui interrotto: «Tuttobene, ma torniamo alla realtà: che marito daremo aEugénie Grandet?» Altrettanto nota la domanda concui aggredisce uno dei suoi amici: «Lo sai chi sposeràFélix de Vaudeville? Una Grandeville. È proprio unbuon partito». Ma il piú bello e caratteristico è l’aned-doto di Hofmannsthal, che fa dire a Balzac in un dialo-go immaginario: «Il mio Vautrin la ritiene [la Veneziasalvata di Otway] il piú bello di tutti i drammi. Io domolta importanza al giudizio di un uomo come lui»57.Per Balzac l’esistenza dei suoi personaggi anche fuoridell’opera è una realtà cosí evidente, che potrebbe sem-pre dire che cosa pensano, o dovrebbero pensare, Vau-trin o de Marsay o Rastignac di un dramma o di un libroqualsiasi. E va tant’oltre in questo, che gli avviene spes-so di richiamarsi a personaggi della Comédie humaineanche quando non compaiono affatto in quel determi-nato romanzo, e di citare i titoli di certe parti dell’ope-ra complessiva come fonti d’informazione oggettive.

Si sa quanto volentieri Paul Bourget sfogliasse ilRépertoire della Comédie humaine, il «Chi è?» dei per-sonaggi di Balzac58. Ancor oggi questa passione serve ariconoscere un vero «balzacien» ed è, in ogni caso, ilsegno di una effettiva comprensione della natura diquest’opera inscindibile dalla vita reale, solo in parte

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concepita e solo in parte valida sul piano estetico. Bal-zac rappresenta nella storia dell’arte un momento fug-gevole, che sta fra l’epoca esclusivamente artistica dellapoesia classica e romantica e la successiva fase dell’e-stetismo di Flaubert e di Baudelaire: la breve ora diun’arte completamente immersa nei problemi del pre-sente. Nell’Ottocento non c’è scrittore piú lontano dilui da l’art pour l’art e dal purismo artistico. Non è pos-sibile gustare senza disagio e a pieno le opere di Balzac,se fin da principio non ci si rende conto ch’esse sonoun miscuglio mal dosato, in parte grezzo, che ben pocoha a vedere con i principî classicistici del «nulla di piúe nulla di meno» e della riduzione ad un unico piano deidati dell’esperienza. L’opera d’arte d’un sol getto èsempre una finzione; anche le creazioni piú completesono piene di elementi caotici e disparati. Ma i roman-zi di Balzac sono davvero l’esempio tipico dell’operariuscita a dispetto di ogni norma estetica. Giudicando-li coi criteri delle opere classiche, sarà facile riscontrarvile piú grossolane offese alle leggi dell’arte, anche a quel-le piú liberali. Sotto la loro diretta impressione, quan-do non si è ancora spenta nell’animo nostro la furia sui-cida dei personaggi, la tempesta delle scene, la voce cru-dele dei delusi e dei ribelli, saremo obbligati ad ammet-tere che in queste opere quasi tutto quel che si può ana-lizzare razionalmente è «sbagliato». Dovremo conce-dere che Balzac non sa comporre né sviluppare nitida-mente l’azione, che i suoi caratteri sono spesso confu-si ed eterogenei come gli ambienti e gli sfondi, che ilsuo naturalismo non soltanto è incompleto, ma anchescorretto, e talvolta la sua psicologia è, non solo inve-rosimile, ma anche goffa e sommaria. E soprattuttonon ci si potrà dissimulare che a tutte queste insuffi-cienze si aggiungono difetti di gusto da far rizzare icapelli; che al nostro autore manca ogni senso critico,e ogni mezzo è buono per lui pur di sorprendere e sog-

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giogare; che piú nulla gli rimane della cultura settecen-tesca, del suo riserbo, della sua eleganza, della sua ama-bile scorrevolezza; che il suo gusto è degno del pubbli-co dei peggiori romanzi d’appendice; che per lui nullaè mai eccessivo, esagerato, stravagante; ch’egli è inca-pace di esprimere quanto gli sta a cuore senza enfasi esenza superlativi; che è sempre pronto a vantarsi, asballarle grosse e a raccontare fandonie; che è un disgu-stoso ciarlatano appena vuol darsi l’aria di studioso e difilosofo e, come pensatore, è tanto piú grande quantomeno sa d’esser tale, quando pensa e ragiona secondoil suo spontaneo sentire, gli immediati interessi dellasua vita e la sua posizione storica.

Specialmente sgradevoli sono i suoi difetti di gustoin fatto di stile: l’abbondanza confusa del suo discorso,la pesante solennità, le metafore studiate e pompose,l’entusiasmo sempre acceso, la commozione che vuolessere sempre sublime. Nemmeno i dialoghi sono impec-cabili; anche qui ci sono punti morti e toni «falsi,»,come le stecche di un cantante. È noto come Tainecerca di spiegare e giustificare le singolarità stilistiche diBalzac. Ammesso che in letteratura ci sono vari lin-guaggi ugualmente legittimi, fa notare che l’autore dellaComédie humaine non si rivolge piú al pubblico dei salot-ti del Sei e del Settecento, ad un pubblico cioè sensibi-le alle piú lievi allusioni e non solo ai colori sfacciati eai toni acuti, ma a gente su cui ha presa solo ciò che èstrano, sensazionale, eccessivo, in altre parole i lettoridel romanzo d’appendice59. Ecco, senza dubbio, un otti-mo esempio di critica sociologica; infatti, sebbene moltiautori della generazione di Balzac abbiano saputo evi-tare i suoi errori stilistici, pochi sono stati cosí intima-mente uniti al loro tempo. Ma invece di scusare le pec-che di Balzac non si dovrebbe piuttosto cercar di capi-re quell’immediata contiguità di grandioso e di scaden-te che c’è in lui? E la spiegazione sociologica non

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dovrebbe anzitutto dimostrare che le caratteristiche delsuo stile sono legate alla sua stessa origine plebea e cheegli è l’espressione intellettuale della nuova borghesia,relativamente incolta, ma straordinariamente viva ecapace?

È stato ripetutamente osservato che nelle sue opereBalzac fa un quadro della generazione successiva piú chedella propria, e che i suoi nouveaux riches e parvenus, isuoi speculatori e avventurieri, gli artisti e le cocottessono tipici del Secondo Impero piú che della monarchiadi luglio. Di fatto, pare che la vita abbia imitato l’arte.Balzac è di quegli scrittori profeti, che sono in ultimaanalisi piú visionari che osservatori. Profeta, visionario:sono veramente parole dettate dall’imbarazzo e piú chealtro servono a dissimulare la nostra perplessità di fron-te a un’arte, di cui ogni insufficienza par che accresca ilmagico effetto. Ma che altro dire davanti a un’operacome il Chef-d’œuvre inconnu che unisce la piú profon-da intuizione della vita e del presente a un’incredibileingenuità? Vi si narra di Frenhofer, il piú grande allie-vo di Mabuse, l’unico a cui il maestro ha trasmesso l’ar-te d’infondere vita alle figure dipinte. Da dieci anni eglilavora a un’opera – un’immagine femminile – sforzan-dosi di giungere al piú alto fine di ogni arte, al segretodi Pigmalione. Ogni giorno egli si sente piú vicino allameta, eppure rimane sempre qualcosa d’invincibile, inso-lubile, irraggiungibile. Crede che sia colpa della realtà,del fatto che non ha ancora trovato il modello adatto.Un giorno Poussin, nel suo entusiasmo per l’arte, gliconduce la sua amica, che si dice abbia il corpo piú per-fetto che mai sia stato dipinto. Frenhofer è affascinatodalla bellezza della donna, ma poi i suoi occhi si distol-gono da quel corpo giovanile e tornano al quadro incom-piuto e impossibile a compiersi. La realtà non lo trat-tiene piú, egli ha ucciso in sé la vita. Ma il quadro, l’o-pera della sua vita, che egli, piú geloso che Poussin della

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sua donna, finora non ha voluto svelare a occhi estranei,il quadro non è che un incomprensibile groviglio di lineesinuose e di macchie sovrapposte, accumulate nel corsodi tanti anni, sotto cui non si distinguono che le formedi una gamba perfetta. Balzac ha preveduto il destinodell’arte dell’ultimo secolo e l’ha rappresentato da arti-sta in modo insuperabile. Egli ha individuato le conse-guenze dell’estraniarsi dalla vita e dal pubblico e megliodei piú colti e intelligenti fra i suoi contemporanei hacompreso la minaccia dell’estetismo e del nichilismo, ilpericolo di autodistruzione che doveva divenire unapaurosa realtà al tempo del Secondo Impero.

1 henri guillemin, Le Jocelyn de Lamartine, 1936, p. 59.2 Per quel che segue, cfr. jean-paul sartre, Qu’est-ce que la litté-

rature?, in «Les Temps Modernes», ii, 1947, pp. 971 sgg. Anche inSituations , II, 1948.

3 Ibid., p. 976.4 Ibid., p. 981.5 s. charléty, La Monarchie de Juillet, in e. lavisse, Histoire de la

France contemporaine, V, 1921, pp. 178-79.6 w. sombart, Der moderne Kapitalismus, III, i, pp. 35-38, 82,

657-61.7 id., Der Bourgeois, 1913, p. 220.8 Cfr. louis blanc, Histoire de dix ans, III, 1843, pp. 90-92. w. som-

bart, Die deutsche Volkswirtschaft des 19. Jahrhunderts, 7a ed., 1927, pp.399 sgg.

9 emil lederer, Zum sozialpsychologischen Habitus der Gegenwart,in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», vol. XLVI, 1918,pp. 122 sgg.

10 paul louis, Histoire du socialisme en France de la Révolution à nosjours, 1936, 3a ed., pp. 64, 97. - j. lucas-dubreton, La Restauration etla Monarchie de Juillet, 1937, pp. 160-61.

11 p. louis, Histoire du socialisme en France ecc. cit., pp. 160-7.12 friedrich engels, Die Entwicklung des Sozialismus von der Uto-

pie zur Wissenschaft, 4a ed., 1891, p. 24.13 robert michels, Psychologie der antikapitalistischen Massenbewe-

gungen, in Grundriß der Sozialökonomie, IX, 1, 1926, pp. 244-246, 270.14 w. sombart, Die deutsche Volkswirtschaft cit. p. 471.

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15 sainte-beuve, De la littérature industrielle, in «Revue des DeuxMondes», 1839. Anche in Portraits contemporains, 1847.

16 jules champfleury, Souvenirs et portraits, 1872, p. 77.17 eugène gilbert, Le Roman en France pendant le 19e siècle, 1909,

p. 209.18 nora atkinson, Eugène Sue et le roman-feuilleton, 1929, p. 211.

alfred nettement, Études critiques sur le feuilleton-roman, 1845, I,p. 16.

19 Cfr. maurice bardèche, Stendhal romancier, 1947.20 andré le breton, Le Roman français au 19e siècle, I, 1901, pp. 6-

7, 73. - m. bardèche, Balzac romancier, 1947, pp. 2-8, 12-13.21 c.-m. des granges, La Presse littéraire sous la Restauration, 1907,

p. 22.22 h. j. hunt, Le Socialisme et le romantisme en France, 1935, pp.

195, 340.23 Ibid., pp. 203-4. - albert cassagne, La Théorie de l’art pour l’art

en France, 1906, pp. 61-71.24 Cfr. edmond estève, Byron et le romantisme français, 1907, p. 228.25 Cfr. pierre moreau, Le Classicisme des romantiques, 1932, pp.

242 sgg.26 Articolo di charles rémusat del 12 marzo 1825, citato da a.

cassagne, La Théorie ecc. cit., p. 37.27 Ibid.28 josé ortega y gasset, La Deshumanización del Arte, 1925, p. 19.29 h. j. hunt, Le socialisme ecc. cit., pp. 157-58.30 Ibid., p. 174.31 g. lukàcs, Goethe und seine Zeit, 1947, pp. 39-40 [trad. it.,

Goethe e il suo tempo, Milano 1949].32 m. bardèche, Balzac romancier cit., pp. 3, 7.33 Citato da jules marsan, Stendhal, 1932, p. 141.34 m. bardèche, Stendhal romancier cit., p. 424.35 a. thibaudet, Stendhal, 1931. - henri martineau, L’Œuvre de

Stendhal, 1945, p. 198.36 Cfr. jean mélia, Stendhal et Taine, in «La Nouvelle Revue»,

1910, p. 392.37 pierre martino, Stendhal, 1934, 302.38 h. martineau, L’Œuvre de Stendhal cit., p. 470.39 é. faguet, Politiques et moralistes, III, 1900, p. 8.40 m.bardèche, Stendhal romancier cit., p. 47.41 sainte-beuve, Port-Royal, 1888, 5a, ed., VI, pp. 266-67.42 émile zola, Les Romanciers naturalistes, 1881, 2a ed., p. 124.43 Cfr. paul bourget, Essais de psychologie contemporaine, 1885,

p. 282.44 andré le breton, Balzac, 1905, pp. 70-73.

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45 m. bardèche, Balzac romancier cit., p. 285.46 bernard guyon, La Pensée politique et sociale de Balzac, 1947,

p. 432.47 v. grib, Balzac, «Critics Group Series», n. 5, 1937, p. 716.48 marie bor, Balzac contre Balzac, 1933, p. 38.49 e. buttke, Balzac als Dichter des moaernen Kapitalismus, 1932,

p. 28.50 balzac, Correspondance, 1876, I, p. 433.51 ernest seillière, Balzac et la morale romantique, 1922, p. 61.52 andré bellessort, Balzac et son œuvre, 1924, p. 175.53 karl marx - friedirich engels, Über Kunst und Literatur, a cura

di I. K. Luppol, 1937, pp. 53-54. - Anche in «International Literatu-re», luglio 1933, n. 3, p. 114.

54 m. proust, La Prisonnière, I [trad. it., La prigioniera, Torino1950].

55 e. preston, Recherches sur la technique de Balzac, 1926, pp. 5, 222.56 t. mann, Die Forderung des Tages, 1910, pp. 273 sgg.57 hugo von hofmannsthal, Unterhaltungen über literarische Gegen-

stände, 1904, p. 40.58 a. cerfberr - j. christophe, Répertoire de la Comédie humaine,

1887.59 taine, Nouveaux essais de critique et d’histoire, 1865, pagine

104-13.

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Capitolo secondo

Il Secondo Impero

I romantici erano pienamente consapevoli della per-dita di prestigio subita dallo scrittore dopo la Rivoluzio-ne e contro il pubblico ostile cercavano un rifugio nel-l’individualismo. Il loro senso d’isolamento si esprimevain un umore aspramente battagliero, ma essi non pensa-vano certo che fosse vana la loro lotta contro la società.Gli scrittori della generazione del 1830 furono i primi adimettere lo spirito combattivo dei loro predecessori e atrovarsi a proprio agio nell’isolamento; la loro protestasi limitò ad accentuare la loro differenza dal pubblico,che essi servivano. Gli scrittori della generazione suc-cessiva andarono tant’oltre con il loro orgoglio, da rinun-ziare anche a quelle manifestazioni coprendosi sotto ilvelo di una ostentata impersonalità e insensibilità. Ma sitrattava di un ritegno ben diverso dall’obiettività delSei e del Settecento. Gli scrittori classici volevanodistrarre o istruire il lettore, oppure discutere con luideterminati problemi della vita. Invece, dall’età roman-tica in poi, la letteratura non era piú stata conversazio-ne e discussione fra pubblico e autore, ma una confes-sione e un’autoesaltazione di quest’ultimo. Naturalequindi, che quando Flaubert e i Parnassiani cercano dicelare i loro sentimenti personali, non si tratta di un sem-plice ritorno allo spirito della letteratura preromantica,ma della forma piú altezzosa e arrogante dell’individua-lismo, quello che sdegna persino di comunicare.

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Il 1848 e le sue conseguenze hanno completamentestraniato i veri artisti dal pubblico. Anche questa volta,come nel 1789 e nel 1830, la Rivoluzione era seguita aun periodo di fervore intellettuale fecondissimo e, comele rivoluzioni precedenti, si era conclusa con la sconfit-ta della democrazia e della libertà intellettuale. La vit-toria della reazione provocò un appiattimento senzaesempio del pensiero e un completo imbarbarimento delgusto. La congiura dell’alta borghesia contro la rivolu-zione, la denunzia della lotta di classe come un tradi-mento verso la nazione, che divise in due campi avver-si una società per sua natura pacifica1, la soppressionedella libertà di stampa, la creazione della nuova buro-crazia come il piú forte sostegno del regime, l’insediar-si dello stato poliziesco come giudice supremo in ogniquestione di morale e di gusto, provocarono nella cul-tura della Francia una scissione senza precedenti. Sideterminò cosí fra gli intellettuali quel contrasto tutto-ra aperto fra conformismo e ribellione, e quell’opposi-zione allo stato che ha trasformato una parte degli intel-lettuali in un elemento di disgregazione.

Il socialismo fu sacrificato senza resistenza all’«ordi-ne» ristabilito. Nel primo decennio dopo il colpo distato non si verifica in Francia nessun movimento ope-raio degno di nota. Il proletariato è esausto, intimidito,confuso, le sue associazioni sono sciolte, i suoi capiimprigionati, espulsi o ridotti al silenzio2. Le elezioni del1863, rinforzando notevolmente l’opposizione, sono ilprimo sintomo di un cambiamento. Gli operai tornanoad associarsi, gli scioperi si moltiplicano e Napoleone IIIè costretto a nuove concessioni. Il socialismo non avreb-be certo raggiunto cosí presto il suo scopo, se non aves-se trovato un aiuto involontario nell’alta borghesia libe-rale, che nel cesarismo di Napoleone vedeva un perico-lo per la propria potenza. Lo sviluppo politico dopo il1860, il declino del governo autoritario e la decadenza

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dell’Impero si spiegano con questo intimo dissidio delregime3. Il potere di Napoleone III si appoggiava al capi-tale finanziario e alla grande industria; l’esercito, pre-zioso nella lotta contro il proletariato, era tanto piú inu-tile contro l’alta borghesia, in quanto poteva sussisteresolo grazie ad essa. Il Secondo Impero è inconcepibilesenza l’ondata di prosperità con cui venne a coincidere.Esso trovò appoggio e giustificazione nella ricchezzadei suoi cittadini, nelle nuove invenzioni tecniche, nellacostruzione di ferrovie e di canali, nell’infittirsi e acce-lerarsi degli scambi, nella diffusione e nella crescenteflessibilità del credito. Durante la monarchia di luglioera ancora la politica che piú attraeva i giovani d’inge-gno; ora le forze migliori le assorbe l’economia. La Fran-cia diventa capitalistica, non solo nei rapporti latenti, maanche nelle forme palesi della sua cultura.

Il capitalismo e l’industrialismo non escono, è vero,dai binari ben noti, ma solo ora si sviluppano in tutta laloro ampiezza, e la vita quotidiana degli uomini, le abi-tazioni, i trasporti, la tecnica dell’illuminazione, il nutri-mento e il vestire subiscono dal 1850 in poi mutamen-ti piú radicali di quanti ne abbiano subiti nei secoli dal-l’inizio della civiltà urbana. Incomparabilmente piúgrande e piú che mai diffuso, il bisogno di lusso e anzi-tutto l’amore dei piaceri.

Il borghese diventa sicuro di sé, pretenzioso, arro-gante e crede di poter coprire con un lusso esteriore lamodestia delle sue origini e il carattere promiscuo dellanuova società mondana, in cui assumono un’importan-za fin qui inaudita demi-monde, attrici e stranieri. Ladisgregazione dell’antico regime entra nello stadio fina-le e, scomparsi gli ultimi rappresentanti della buonasocietà di un tempo, la cultura francese attraversa unacrisi piú sensibile che ai giorni della sua prima scossa.Nell’arte, soprattutto nell’architettura e nella decora-zione degli interni, il cattivo gusto predomina come mai

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prima. Per la classe ricca, abbastanza importante pervoler brillare, ma non abbastanza antica per saper evi-tare l’ostentazione, nulla è troppo prezioso e carico. Siusano senza discernimento materiali genuini e falsi, siriprendono e si contaminano gli stili. Rinascimento eBarocco non sono che mezzi, come il marmo e l’onice,il velluto e la seta, gli specchi e i cristalli. Si imitanopalazzi di Roma e castelli della Loira, atri pompeiani esale barocche, le ebanisterie Luigi XV e gli arazzi LuigiXVI. Parigi acquista un nuovo splendore, un nuovoaspetto di metropoli. Ma la sua grandezza è tutta appa-rente, il pretenzioso materiale spesso non è che un sur-rogato: il marmo è stucco, la pietra è intonaco. Le pom-pose facciate sono posticce, la ricca decorazione è inor-ganica e non strutturale. L’architettura assume un aspet-to instabile, degno della classe di parvenus che la diri-ge. Parigi ridiventa la capitale dell’Europa, ma non è,come una volta, il centro dell’arte e della cultura, bensíla metropoli dei piaceri, la città dell’opera, dell’operet-ta, dei balli, dei boulevards, dei ristoranti, dei magaz-zini, delle esposizioni universali, dei piaceri bell’e pron-ti e a buon mercato.

Il Secondo Impero è il classico tempo dell’ecletti-smo: un tempo senza stile proprio nell’architettura e nel-l’artigianato e senza unità stilistica nella pittura. Sorgo-no nuovi teatri, alberghi, case d’affitto, caserme, magaz-zini, mercati, intere vie che s’irradiano da piazze circo-lari; Parigi è quasi riedificata da Haussmann, ma tuttociò, se si prescinde dal nuovo criterio degli ampi spazi edalla tecnica della costruzione in ferro che ora cominciaa diffondersi, non ha alcuna originalità architettonica.Naturalmente anche in altri tempi si era avuta una com-presenza di stili diversi, rivali; ed anche l’antitesi tra unostile storicamente valido, ma non accetto ai ceti domi-nanti, e uno meno importante, affatto sterile nel pro-cesso evolutivo, ma caro al pubblico, non era un feno-

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meno nuovo. Tuttavia mai era accaduto che le tenden-ze veramente significative dell’arte avessero cosí scarsaeco presso i contemporanei. In questo caso noi sentia-mo che la storia dell’arte e della letteratura, in quantotratta delle manifestazioni esteticamente valide e stori-camente significative, meno che per ogni altra epocarisulta aderente alla reale vita artistica del tempo; inaltre parole, che la storia delle tendenze progressive,significanti per il futuro e quella delle tendenze chehanno avuto una voga o un influsso momentaneo ver-tono su due serie di fatti completamente distinti. UnOctave Feuillet o un Paul Baudry, a cui si dedicano diecirighe nei nostri manuali, apparivano al pubblico del lorotempo incomparabilmente piú importanti di Flaubert oCourbet, a cui noi dedichiamo tante pagine. La vitaartistica del Secondo Impero è dominata da una produ-zione facile e piacevole, destinata a una borghesia chesi è fatta indolente e intellettualmente pigra. La grassaborghesia, a cui dobbiamo quella pretenziosa architet-tura che si rifà ai modelli piú grandiosi, ma è per lo piúvacua e disorganica, e riempie le sue case degli oggettipiú costosi, ma spesso perfettamente superflui, scoper-ta falsificazione dei modelli storici, favorisce una pittu-ra che si riduce a una gradevole decorazione murale, unaletteratura di frivolo divertimento, una musica leggerae lusinghevole e un teatro che celebra i suoi trionfi congli espedienti della pièce bien faite. Prevale un gustoincerto, cattivo, facilone, mentre l’arte vera divieneesclusivo possesso di una cerchia d’intenditori, che nonè piú in grado di offrire alcun compenso adeguato allavoro dell’artista.

Il naturalismo, che in germe contiene tutta l’evolu-zione successiva, e può rivendicare le opere d’arte piúsignificative del secolo, è una corrente di opposizione,cioè lo stile di una piccola minoranza, sia fra gli artistiche fra il pubblico. È il bersaglio dell’accademia, del-

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l’università e della critica, insomma di tutti i circoliufficiali e autorevoli. E l’ostilità si acuisce via via che siprecisano i fini e i presupposti del movimento, e dalcosiddetto «realismo» si sviluppa il «naturalismo». Madistinguere cosí le due fasi, che in realtà non hannolimiti netti, si rivela praticamente affatto inutile, se nonaddirittura ingannevole. In ogni caso è piú opportunocomprendere col solo nome di naturalismo l’intero feno-meno, riservando il concetto di realismo alla filosofia chesi contrappone all’idealismo romantico. Se per naturali-smo si intende lo stile artistico e per realismo la conce-zione filosofica la cosa rimane chiara, mentre volendodistinguere naturalismo e realismo in arte non si fa checomplicare le cose e porsi un problema fittizio. Inoltreil concetto di realismo applicato all’arte verrebbe a sot-tolineare troppo l’opposizione al romanticismo, facendodimenticare che si tratta di una diretta continuazionedegli intenti dell’arte romantica e che in sostanza ilnaturalismo è piuttosto una lotta incessante con lo spi-rito romantico che una vittoria su di esso. Il naturalismoè un romanticismo con nuove convenzioni, con nuovi,e piú o meno arbitrari, postulati di verosimiglianza. Lamaggior differenza tra romanticismo e naturalismo stanell’indirizzo scientifico della nuova tendenza, cheapplica i criteri delle scienze esatte alla rappresentazio-ne artistica della realtà. Il predominio dell’arte natura-listica nella seconda metà dell’Ottocento non è che unsintomo del trionfo di una generale concezione scienti-fica e della mentalità razionalistico-tecnicistica sullo spi-rito idealistico e tradizionale.

Si può dire che il naturalismo derivi tutti i suoi cri-teri di verosimiglianza dall’indagine scientifica. Il suoconcetto della verità psicologica si fonda sul principio dicausalità, quello del corretto sviluppo di un intreccio sul-l’eliminazione del caso e del miracolo; la sua descrizio-ne dell’ambiente, sull’idea che ogni fenomeno naturale

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rientra in una serie infinita di condizioni e moventi; lasua valorizzazione del particolare caratteristico, sulmetodo dell’osservazione scientifica, che non trascuraalcuna circostanza, per quanto irrilevante; la sua rinun-zia alla composizione troppo perfetta, sul caratterenecessariamente non conclusivo dell’indagine scientifi-ca. Ma la fonte principale della dottrina naturalistica èl’esperienza politica della generazione del 1848: l’in-successo della rivoluzione, la repressione di giugno e ilcolpo di stato di Luigi Napoleone. Il disinganno deidemocratici, il brusco e generale cader delle illusioni, siesprimono benissimo nella visione obiettiva, spassiona-ta, strettamente aderente all’esperienza, delle scienzenaturali. Fallito ogni ideale, caduta ogni utopia, ci siattiene ai fatti, e nulla piú. L’origine politica del natu-ralismo ne spiega anzitutto gli aspetti antiromantici emorali: il rifiuto di sfuggire alla realtà e l’esigenza diun’assoluta onestà nel descrivere i fatti; lo sforzo d’es-sere impersonali e impassibili per garantire l’obiettivitàe la solidarietà sociale; l’attivismo che vuol mutare larealtà, non solo conoscerla e descriverla; lo spirito dimodernità, che si attiene al presente come alla sola cosache importi; infine il carattere popolare nella scelta deisoggetti e del pubblico. La frase di Champfleury4, «Lepublic du livre à vingt sous, c’est le vrai public» [«Il veropubblico è quello dei libri da venti soldi»], mostra inquale senso la rivoluzione del 1848 abbia agito sulla let-teratura e quanto il nuovo concetto di «popolarità» siadiverso da quello dei vecchi scrittori d’appendice. Que-sti scrivevano per le masse, perché volevano scrivere pertutti; i naturalisti invece, Champfleury e la sua cerchia,vogliono scrivere anzitutto per le masse. Comunque, sidistinguono nella letteratura naturalistica due correnti:il naturalismo degli scrittori che vengono dalla bohème– Champfleury, Duranty e Murger – e quello dei possi-denti, di Flaubert e dei Goncourt5. Son due campi oppo-

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sti: la bohème odia ogni tradizione, mentre a Flauberte ai suoi amici riesce sospetto ogni scrittore che ambi-sca al favore popolare.

Il naturalismo comincia come movimento del prole-tariato artistico; il suo primo maestro è Courbet, uomodel popolo e artista affatto insensibile alla rispettabilitàborghese. Sciolta l’antica bohème, mentre i suoi mem-bri diventano i beniamini del pubblico borghese roman-ticizzante, si forma intorno a Courbet un nuovo circo-lo, un altro cénacle della bohème. Il pittore degli Spac-capietre deve la sua posizione di guida alle sue qualità diuomo, piuttosto che di artista; anzitutto alla sua origi-ne, al fatto ch’egli descrive la vita del popolo e con l’ar-te sua si volge al popolo, o almeno al piú vasto pubbli-co, vive la vita precaria e libera dell’artista proletario,disprezza il borghese e i suoi ideali, è un convinto demo-cratico e un rivoluzionario, un perseguitato e un reiet-to. La teoria naturalistica sorge appunto a difesa dellasua arte contro la critica tradizionalista. Quando vieneesposto il Funerale di Ornans (1850) Champfleury dichia-ra: «D’ora in poi i critici debbono decidersi pro o con-tro il realismo». Cosí la gran parola è detta6. Sostanzial-mente in quest’arte né la teoria né la pratica sono nuove,anche se la vita quotidiana forse non ha mai avuto unarappresentazione cosí brutale; quel che è nuovo è la ten-denza politica, il messaggio sociale, la vita del popoloritratta senza degnazione, senza alcun tono di superio-rità, satirico o bozzettistico. Ma per quanto sia nuovoquesto atteggiamento sociale, per quanto si parli, nel-l’ambiente di Courbet, del fine umanitario e del com-pito politico dell’arte, la bohème è e rimane erede del-l’estetismo romantico. Spesso essa attribuisce all’arteun’importanza che non le fu concessa nemmeno dallepiú esaltate teorie romantiche, e fa un profeta di un pit-tore confusionario e chiacchierone, un avvenimento sto-rico Dell’esposizione di un quadro invendibile.

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Ma la passione che anima Courbet e i suoi seguaci èfondamentalmente politica; in loro l’orgoglio nasce dallapersuasione di essere i campioni della verità e gli araldidel futuro. Champfleury afferma che il realismo non èche l’arte della democrazia e i Goncourt definisconosenz’altro la bohème come il socialismo nella letteratu-ra. Agli occhi di Proudhon e di Courbet realismo e rivol-ta politica sono manifestazioni diverse di uno stessoatteggiamento, né essi vedono un’essenziale differenzatra verità sociale e verità artistica. In una lettera del1851 Courbet dichiara: «Io non sono soltanto un socia-lista, ma un democratico e un repubblicano, insomma unpartigiano della rivoluzione e anzitutto un realista, cioèil sincero amico della verità vera»7. E Zola non fa chesviluppare l’idea di Courbet, quando afferma8: «LaRépublique sera naturaliste ou elle ne sera pas» [«Larepubblica sarà naturalista o non sarà»]. Quindi il rifiu-to del naturalismo non è, nelle classi dirigenti, che istin-to di autoconservazione; si sente giustamente che ogniarte che osi ritrarre la vita senza pregiudizi né remore,è di per sé un fatto rivoluzionario. Questo pericolo èavvertito dai conservatori anche piú nettamente chedall’opposizione9. Gustave Planche nella «Revue desDeux Mondes» dice esplicitamente che l’opposizione alnaturalismo è una professione di fede nell’ordine costi-tuito e, rifiutandolo, si rifiuta a un tempo il materiali-smo e la democrazia10.

La critica conservatrice degli anni fra il ’50 e il ’60adduce contro il naturalismo tutti i noti argomenti ecerca di dissimulare sotto il manto dell’estetica i pre-giudizi sociali e politici che determinano il suo atteg-giamento. Il naturalismo, dicono, non ha ideali némorale superiore, sguazza nel brutto e nel volgare, nelmorboso e nell’osceno, è un’indiscriminata, servile imi-tazione del vero. Ma quel che li turba non è evidente-mente il grado, ma l’oggetto dell’imitazione. Sanno fin

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troppo bene che Courbet, distruggendo la kalokagathìaclassico-romantica ed eliminando il vecchio ideale dibellezza mantenutosi quasi intatto, pur fra rivoluzionie mutamenti sociali, fin verso il 1850, propugna un’u-manità nuova e un nuovo ordine di vita. Sentono chela deformità dei suoi contadini e dei suoi operai, la vol-gare corpulenza delle sue borghesi è una protesta con-tro la società esistente e che «il dispregio dell’ideali-smo» e «il grufolare nel fango» sono le armi rivoluzio-narie della pittura naturalista. Millet celebra con la suapittura l’apoteosi del lavoro manuale, e dei contadini fagli eroi di una nuova epopea. Daumier descrive il bor-ghese conservatore, ostinato e ottuso, ne deride la poli-tica, la giustizia, i piaceri, e svela tutta la spettrale com-media che si cela dietro il suo decoro. È evidente chela scelta dei temi qui è determinata da motivi politicipiú che artistici.

Persino il quadro di paesaggio diventa una dimostra-zione contro la cultura della società dominante. Il pae-saggio moderno nasce veramente come antitesi alla vitadella città industriale; ma quello romantico rappresen-tava ancora un mondo autonomo, il quadro di una vitairreale, ideale, senza alcun diretto rapporto con quellaquotidiana. Era un mondo cosí diverso dalla scena dellarealtà contemporanea, che lo si concepiva come antite-si ad essa, difficilmente come protesta. Invece il paysa-ge intime della pittura moderna ritrae un ambiente cheper la sua intimità e quiete, è, sì, affatto diverso dallacittà, ma pur cosí vicino ad essa per il suo carattere sem-plice, antiromantico, quotidiano, da indurre spontanea-mente al confronto. Le vette montane e gli specchi mari-ni dei romantici, e anche i boschi e i cieli di Constable,avevano in sé qualcosa di favoloso, di mitico; invece ipittori di Barbizon ci mostrano radure e bordi di fore-ste cosí naturali e familiari, cosí accessibili al nostropiacere, che a un abitante della città moderna debbono

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sempre apparire come un ammonimento e un rimpro-vero. La scelta di questi motivi comuni, «non poetici»rivela lo stesso spirito democratico che affiora nei tipidi Courbet, Millet e Daumier; con la sola differenza chei paesisti sembrano dire: la natura è bella sempre e dap-pertutto, per avvedersene non occorrono motivi «idea-li»; mentre i pittori di figura vogliono provare che l’uo-mo è brutto e miserabile, l’oppresso come l’oppressore.Ma il paesaggio dei naturalisti, pur cosí schietto e sem-plice, diventa presto convenzionale com’era stato quel-lo dei romantici. Questi dipingevano la poesia delboschetto sacro, i naturalisti la prosa della vita campa-gnola: la radura con le bestie al pascolo, il fiume con lachiatta, il campo con la bica di fieno. Anche qui, comesovente nella storia dell’arte, il progresso sta piú nel rin-novarsi, che nello scomparire dei motivi tradizionali. Imutamenti piú radicali derivano dal principio della pit-tura «all’aria aperta», che del resto non viene messo inpratica subito e quasi mai coerentemente e si limita perlo piú a «dar l’impressione» che il quadro sia dipintoall’aria aperta. Anche l’idea di questa tecnica ha alla suabase, oltre i palesi elementi scientifici, un fondo etico-politico, quasi a significare: «Fuori, all’aria libera, allaluce della verità!»

Il carattere sociale della nuova arte si esprime anchein una piú marcata tendenza dei pittori a raggrupparsi,a fondare colonie di artisti, a condurre vita in comune.La «scuola di Fontainebleau» che non è una scuola néuna conventicola, ma un gruppo fluido, dove i membriseguono ciascuno la propria via e sono uniti solo dallaserietà degli intenti, rappresenta già lo spirito collettivodei tempi nuovi. E le successive confraternite e coloniedi artisti, i comuni tentativi di riforma e i gruppi d’a-vanguardia dell’Ottocento esprimono sempre la stessatendenza alla coalizione e alla cooperazione. La coscien-za della propria funzione storica, la percezione del senso

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e delle necessità dell’ora, intuizioni del romanticismo,guidano ormai la mente degli artisti. La frase di Cour-bet, «faire de l’art vivant» [«Far dell’arte viva»] e ilmotto attribuito a Daumier, «Il faut être de son temps»[«Bisogna essere del proprio tempo»] dicono una cosasola: il desiderio di rompere l’isolamento romantico eriscattare l’artista dal suo individualismo.

Anche il fatto che la litografia assurga ora a espres-sione d’arte è un sintomo di questa tendenza sociale.Essa non corrisponde soltanto a quella democratizza-zione del godimento artistico che in letteratura si èattuata col romanzo d’appendice, ma segna il trionfodello spirito popolare e del giornalismo a un livelloincomparabilmente piú alto. Il giornalismo pittorico diDaumier è anche uno dei vertici dell’arte del tempo,mentre il romanzo d’appendice di Balzac segna uno sca-dimento dell’autore e non giunge ad elevare il livellogenerale.

I naturalisti rappresentavano veramente il loro tempo,o almeno, se non tutto, la parte maggiore e piú impor-tante del pubblico contemporaneo? La maggioranza dicoloro che ordinavano, compravano o giudicavano pub-blicamente i quadri, che dirigevano le accademie e deci-devano sulle opere da esporre, no certamente. Le ideeartistiche di costoro erano in genere piuttosto liberali, mala loro tolleranza cessava di fronte al naturalismo. Essiamavano e favorivano l’accademico idealismo di Ingrese della sua scuola, la romantica pittura aneddotica diDecamps e di Meissonier, gli eleganti ritratti di Win-terhalter e di Dubufe, i quadroni pseudobarocchi di Cou-ture e di Boulanger, le decorazioni mitologico-allegorichedi Bouguereau e di Baudry11, cioè la forma grande, fasto-sa, ma vuota, in tutte le sue variazioni. Invece per leopere dei naturalisti non c’era posto in quelle case pienedi mobili e di drappeggi, né negli arcaizzanti saloni dirappresentanza. L’arte moderna fu bandita e cominciò a

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perdere ogni funzione pratica. La stessa distanza che sinota tra la pittura naturalistica e l’elegante «decorazio-ne murale» si riscontra anche tra poesia e letteraturaamena, tra musica seria e musica leggera. Al pari dellapittura progressista, erano prive di un’effettiva funzio-ne anche la letteratura e la musica non destinate al purodivertimento. Finora anche le opere letterarie piú validee piú serie, come i romanzi di Prévost, Voltaire, Rous-seau e Balzac, avevano trovato un pubblico relativa-mente vasto, anche se spesso indifferente alla qualitàartistica. Ma ora la letteratura cessa di essere a un tempoarte e divertimento, e di soddisfare con le stesse operele esigenze di ceti di diversa cultura.

Le opere piú valide non sono piú considerate letturaamena e perdono ogni attrattiva per il lettore comune,a meno che non lo attirino per qualche particolare moti-vo e ottengano un successo di scandalo, come ad esem-pio Madame Bovary di Flaubert. Un’adeguata conside-razione queste opere la trovano solo in un gruppo esi-guo di letterati e d’intellettuali, e anche questa puòchiamarsi «arte di atelier», come tutta la pittura pro-gressista: è una letteratura destinata a specialisti, artistied esperti. Lo straniarsi degli artisti dal presente e la lororinunzia a ogni comunione col pubblico va tant’oltre,ch’essi non solo accettano l’insuccesso come cosa natu-rale, ma considerano il successo come segno di scarsovalore artistico, e scorgono proprio nell’incomprensionedei contemporanei una promessa d’immortalità.

Il romanticismo ancora conservava in sé un elemen-to popolare capace di parlare a ceti piuttosto vasti; ilnaturalismo invece, almeno nelle opere piú notevoli,non ha nulla che sappia attrarre il gran pubblico. Conla morte di Balzac termina l’età romantica; è, vero chel’arte di Victor Hugo è ancora nel suo pieno sviluppo,ma come grande movimento letterario il romanticismoè ormai concluso. Il ripudio dell’ideale romantico da

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parte dei piú eminenti scrittori segna anche la comple-ta rottura con i gruppi autorevoli del pubblico e della cri-tica. La partie de résistance [La parte dei resistenti], chein letteratura corrisponde al partito dell’ordine, è piúfavorevole al romanticismo di quanto lo sia al naturali-smo, che pur ne è la diretta conseguenza storica. La cri-tica conservatrice combatte lo spirito della rivolta inogni forma, romantica o naturalistica, e antepone laragionevolezza a ogni specie di spontaneità; esige peròdalla poesia l’espressione di «puri sentimenti» e consi-dera la «profondità» come il criterio dell’arte vera. Maquest’estetica del sentimento non è che una nuovaforma, sebbene non sempre chiarissima, dell’anticakalokagathìa; essa si fonda sulla presunta identità dispontaneità sentimentale e validità morale nella vita psi-chica e postula una mistica corrispondenza fra il bene eil bello.

L’effetto morale dell’arte è il suo piú importanteassioma e l’artista educatore il suo piú alto ideale. L’at-teggiamento della ricca borghesia a proposito de l’artpour l’art si è nuovamente modificato. Dopo una primaripulsa, e un successivo consenso, ora si dichiara defi-nitivamente ostile all’arte «pura», moralmente indiffe-rente. Fiaccata la ribellione dell’artista, non c’è piú nullada temere, se anche egli s’immischia di questioni prati-che; l’art pour l’art può esser buttata a mare, e si può tor-nare a riconoscere all’artista la funzione di guida spiri-tuale. La minaccia ora viene dal naturalismo; ma poichéi suoi esponenti propugnano, se non l’art pour l’art, unatrattazione spregiudicata e senza riguardi delle questio-ni morali, cioè un amoralismo artistico, la condanna del’art pour l’art coinvolge anche loro. Il governo includeanche l’arte e gli artisti nel suo programma di educazionee di correzione. I caporedattori e i critici delle grandiriviste e dei giornali, i Buloz, i Bertin, Gustave Planche,Charles Rémusat, Arnaud de Pont-Martin, Émile

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Montégut sono le maggiori autorità del regime; i suoi piúillustri poeti sono Jules Sandeau, Octave Feuillet, Étmi-le Augier e Dumas figlio; università e accademie sono lesue scuole e i suoi laboratori per questa igiene spiritua-le; il procuratore generale e il prefetto di polizia, i custo-di dei suoi principî morali. Gli esponenti del naturali-smo hanno da lottare contro l’ostilità della critica finverso il 1860, contro l’università per tutta la vita. L’ac-cademia rimane chiusa per loro, né possono mai conta-re su aiuti dello stato. Flaubert e i fratelli Goncourt ven-gono denunziati per offese alla morale, a Baudelaireviene inflitta una forte multa.

Il processo contro Flaubert e il successo strepitoso diMadame Bovary (1857) decidono la battaglia in favoredel naturalismo. Il pubblico si appassiona e presto anchela critica cede le armi; solo i piú cocciuti e miopi rea-zionari restano all’opposizione. Questa volta sono i let-tori a imporre il nuovo gusto ai critici, anche se l’inte-resse del pubblico non ha cause puramente artistiche.Sainte-Beuve, sensibilissimo alle oscillazioni delle ten-denze intellettuali, ritorna al suo liberalismo di gio-ventú. Egli si associa al gruppo di Taine, Renan, Berthe-lot e Flaubert, critica il governo e proclama il trionfo delnaturalismo. Questa sua conversione, che è nello stessotempo politica e artistica, è acutamente sintomatica perla situazione intellettuale; essa prova che il naturalismo,pur diviso nei due campi della bohème e dei rentiers, hale sue radici nel liberalismo. Neppure di Flaubert, con-servatore in politica, si può affermare che rappresentiuna posizione reazionaria, antisociale e antiliberale. Lasua opposizione al sistema politico del Secondo Imperoe all’opportunismo della borghesia, come si esprimesoprattutto nell’Education sentimentale, certo rispecchiail suo pensiero meglio della diffamazione della demo-crazia, che fa nelle sue lettere spesso troppo impulsivee contraddittorie. La critica sociale avversa al regime è

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un tratto comune a tutta la letteratura naturalistica, eFlaubert, Maupassant, Zola, Baudelaire e i Goncourt,pur diversamente orientati in politica, sono perfetta-mente concordi nel loro non-conformismo12. Il «trionfodel realismo» si ripete e i suoi esponenti contribuisco-no tutti a minare le basi della società esistente. Nelle suelettere, Flaubert deplora piú volte la soppressione dellalibertà e l’odio contro le tradizioni della grande rivolu-zione13. Egli è un aperto avversario del suffragio uni-versale e dell’egemonia delle masse incolte14, ma noncerto un alleato della borghesia dominante. Le sue opi-nioni politiche sono spesso ingenue e confuse, ma espri-mono sempre un onesto intento razionalistico e reali-stico e un atteggiamento alieno da ogni utopia, sia purquella dei benefattori del popolo e dei fanatici del pro-gresso. Del socialismo gli repugnano non tanto gli aspet-ti materialistici, quanto quelli irrazionali15. Per timored’ogni dogmatismo, d’ogni fede cieca, d’ogni sorta divincoli, egli respinge ogni attivismo politico e combat-te contro tutto ciò che possa distoglierlo dalla sua cer-chia strettamente privata16. Per timore d’illudersi, diven-ta un nichilista. Ma si sente legittimo crede della Rivo-luzione e dell’illuminismo e imputa la decadenza dellospirito alla fatale vittoria di Rousseau su Voltaire17.

Flaubert si aggrappa al razionalismo come all’ultimoresto del Settecento antiromantico, e basta pensare allapatologica angoscia del nostro tempo per capire il sensodel suo ammonimento di fronte alle tendenze irrazionalie suicide del romanticismo di origine rousseauiana. «Diquale colpa dovrebbero rispondere gli uomini?», scrivea una malata di nervi, che si tormenta con fissazioni reli-giose e rimorsi18. Pare un grido d’allarme, un ultimotentativo di mantenersi in equilibrio in un mondominacciato da ogni parte. La lotta di Flaubert con lo spi-rito del romanticismo, il suo continuo oscillare di fron-te ad esso, che gli dà sempre il senso di essere un tradi-

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tore, non è che una manovra per conservare tale equili-brio. Tutta la sua vita e la sua opera oscillano tra duepoli, tra le inclinazioni romantiche e l’autodisciplina, lanostalgia della morte e la volontà di restar vivo e sano.Egli, che è un provinciale, è vicino al romanticismo,ormai un po’ fuori moda, piú dei suoi coetanei parigi-ni19, e ancora passati i vent’anni vive nel mondo fittizioe nella surriscaldata atmosfera spirituale di una gioventústrappata alle sue radici e fuor del suo tempo. Piú tardiegli ricorda spesso in quale paurosa condizione, minac-ciato dalla follia e dal suicidio, si trovasse allora con isuoi amici20 e come riuscisse a salvarsi soltanto con unosforzo inaudito di volontà e un’autodisciplina ferrea espietata. Fino alla crisi, subita a ventidue anni, egli è unuomo tormentato da visioni, depressioni, da una furiaselvaggia di sentimenti; è un malato che va incontro allacatastrofe per la sua eccitabilità e sensibilità. La suavita tutta dedita all’arte, il carattere regolare e intran-sigente del suo lavoro, il rigore inumano che assume inlui l’indirizzo de l’art pour l’art, il tono impersonale delsuo stile, insomma tutta la sua teoria e la sua prassi diartista non sono che uno sforzo disperato per salvarsidalla rovina certa. L’estetismo assume in lui, sul pianopsicologico, la stessa funzione che aveva avuto per iromantici su un piano sociologico: la funzione di fugadalla realtà ormai insopportabile.

Flaubert si libera dal romanticismo; e arriva a supe-rarlo rappresentandolo poeticamente, trasformandosi daamante soggiogato, in analista e critico del movimento.Egli contrappone alla realtà della vita quotidiana ilmondo dei sogni romantici e diventa naturalista perrivelarne il carattere falso e malsano. Ma non si stancamai di dire quanto odii la volgarità quotidiana e glispiaccia il naturalismo di Madame Bovary e de L’Educa-tion sentimentale, e quanto gli sembri puerile tutta la dot-trina. E tuttavia egli è il primo vero scrittore naturali-

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sta, il primo a dare nelle sue opere un quadro – dellarealtà rispondente alle teorie del naturalismo. Sainte-Beuve riconosce con sguardo sicuro le conseguenze dellasvolta che Madame Bovary rappresenta nella storia dellaletteratura francese: «Flaubert adopera la penna comealtri il bisturi», scrive nella sua recensione, e caratterizzail nuovo stile come il trionfo di un anatomico e di unfisiologo nell’arte21. Dalle opere di Flaubert, Zola deri-va tutta la sua teoria del naturalismo e considera l’au-tore di Madame Bovary e de L’Education sentimentalecome il padre del romanzo moderno22. Flaubert, soprat-tutto di fronte alle esagerazioni e agli effetti violenti diBalzac, rappresenta la totale rinunzia all’azione melo-drammatica, avventurosa, e anche soltanto appassio-nante; descrive con amore la vita quotidiana monotona,uguale, piatta; evita ogni estremo nel dar forma ai per-sonaggi, astenendosi dall’accentuare in loro il bene o ilmale; rinunzia ad ogni tesi, ad ogni morale, ad ogni ten-denza, insomma ad ogni indiretto intervento negli avve-nimenti e ad ogni diretta interpretazione dei fatti.

Questa sua impersonalità e imparzialità non deriva-no però esclusivamente dai principî del naturalismo, nérispondono solo all’esigenza estetica che l’oggetto del-l’opera d’arte agisca come realtà immediata e non per-ché raccomandato dall’autore; la sua non è soltanto unareazione agli eccessi di Balzac e un ritorno al concettodell’opera come un microcosmo in sé conchiuso, unsistema in cui «l’autore, come Dio nell’universo, dev’es-sere sempre presente e mai visibile»23. Né si tratta sol-tanto della convinzione, da allora cosí spesso ripresa eriaffermata – dai Goncourt, da Maupassant, Gide,Valéry e altri – che dei piú bei sentimenti si fanno i versipeggiori, e la partecipazione personale, la schietta com-mozione, il sussulto dei nervi e le lacrime agli occhi nonfanno che pregiudicare l’acutezza dello sguardo; no,l’impassibilità di Flaubert non è solo un principio tec-

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nico, ma piuttosto contiene un’idea nuova, una nuovamorale per l’artista. Il suo «Nous sommes faits pour ledire et non pour l’avoir» [«Siamo fatti per dirlo, non peraverlo»] è la formulazione estrema e intransigente diquella rinunzia alla vita da cui è nato il romanticismocome visione artistica e filosofica; ma, dato il suo inti-mo dissidio, è nello stesso tempo il piú netto rifiuto delromanticismo. Infatti, quando Flaubert proclama che lapoesia non è «la schiuma del cuore» egli vuol salvare lapurezza del cuore come quella della poesia.

Dal riconoscimento che la confusa, esaltata, roman-tica sensibilità della sua giovinezza era in procinto didistruggerlo come artista e come uomo, Flaubert derivòun nuovo metodo di vita e una nuova estetica. «Ci sonobambini, – scrive nel 1852, – su cui la musica agisce sfa-vorevolmente; hanno gran disposizione, ricordano lemelodie sentite una volta sola, il pianoforte li eccita, dàloro il batticuore; si fanno magri e smunti, si ammalanoe; quando sentono musica, i loro poveri nervi spasima-no come quelli dei cani. Fra questi bimbi si cercheran-no invano i Mozart del futuro. In loro il talento si è stra-volto, l’idea è passata nella carne, dov’è sterile, e per lacarne esiziale...»24. Flaubert non sospettava quantoromantiche fossero quella distinzione di «idea» e«carne», e la sua rinunzia alla vita per amore dell’arte;e non si accorse mai che la soluzione vera, antiromanti-ca del suo problema, soltanto la vita poteva offrirla. Lapersonale soluzione che egli ne tenta rientra tuttavia trai grandi atteggiamenti simbolici dell’umanità occiden-tale; essa rappresenta l’ultima incarnazione importantedella concezione romantica, quella in cui il romanticismoviene negato provocando negli intellettuali borghesi lacoscienza della loro incapacità a dominare la vita e faredell’arte uno strumento per la vita. Come ha sottoli-neato Brunetière, l’autoavvilimento è connaturato allapsicologia borghese25, ma occorre aggiungere che auto-

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critica e autonegazione diventano un fattore decisivonella vita culturale soltanto dal tempo di Flaubert. I bor-ghesi della monarchia di luglio credevano ancora in sestessi e nella missione della loro arte.

La critica flaubertiana del romanticismo, l’orrore del-l’esibizionismo romantico, della prostituzione delle pro-prie esperienze personali e dei piú intimi sentimentiricordano l’antipatia di Voltaire per la cruda schiettez-za di Rousseau. Ma Voltaire era ancora immune daromanticismo e, quando si opponeva a Rousseau, nonaveva da combattere anche contro se stesso; il suo carat-tere borghese era chiaro e sicuro. Invece Flaubert èpieno di contraddizioni e il suo rapporto contradditto-rio con il romanticismo corrisponde a un rapporto ana-logo con la borghesia. È stato spesso osservato che l’o-dio contro il bourgeois è la fonte della sua ispirazione el’origine del suo naturalismo. Nella sua mania di perse-cuzione lo spirito borghese assurge a sostanza metafisi-ca, una specie di «cosa in sé» impenetrabile, inesauri-bile. «Il borghese, – egli scrive a un amico, – è per mequalcosa d’indefinibile»: parola in cui all’idea d’inde-terminato si unisce quella d’infinito. La scoperta che iborghesi stessi sono diventati romantici, anzi, per cosídire, rappresentano l’elemento romantico per eccellen-za, e che nessun altro declama con tanta sensibilità ecommozione i versi dei poeti romantici, e le Bovarysono le ultime rappresentanti dell’ideale romantico, hacontribuito molto ad allontanare Flaubert dal romanti-cismo. Ma borghese è la sua indole piú profonda ed eglilo sa. «Io rinunzio alla posizione del letterato, – eglidichiara: – ... sono soltanto un borghese che vive in cam-pagna e si occupa di letteratura»26. Sotto processo per ilsuo romanzo, egli, preparando la propria difesa, scriveal fratello: «Si deve sapere al Ministero degli Interni chenoi a Rouen siamo quel che si dice una famiglia e abbia-mo profonde radici nel paese». Ma questo aspetto di

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Flaubert si esplica anzitutto nel suo modo di lavorostrettamente disciplinato, nell’antipatia per il disordinedella creazione «geniale.». Egli cita le parole di Goethesull’«esigenza quotidiana» e si fa un dovere di esercita-re il mestiere di scrittore come una professione metodi-ca, indipendente dalla voglia, dall’ispirazione e dall’u-more. Ma la sua monomania, il suo sforzo per la formaperfetta, il suo estetismo concreto nascono da questaconcezione borghese-artigiana dell’attività artistica.Com’è noto, l’art pour l’art risponde solo in parte alsenso romantico della vita, avulsa dalla società e dallapratica; per certi aspetti esprime anzi un’etica del lavo-ro schiettamente borghese e artigiana, tutta volta all’e-secuzione27. L’antipatia di Flaubert per il romanticismoè strettamente connessa con la sua avversione all’artistacome tipo, con la sua ripugnanza per i sognatori e gliidealisti irresponsabili. Nell’artista e nel romantico eglicombatte la personificazione di un costume, che gli pareminacci tutta la sua esistenza morale. Egli odia il bor-ghese, ma ancor piú il vagabondo. Egli sa che negli arti-sti c’è sempre un elemento distruttore, una forza disgre-gatrice e antisociale. Sa che l’artista nella vita tendeall’anarchia e al caos e che il suo lavoro, già per il moven-te irrazionale da cui nasce, cerca di sottrarsi ad ogniordine e ad ogni disciplina, ad ogni perseveranza e sta-bilità. Quel che già sentiva Goethe28, e di cui ThomasMann farà il problema centrale della sua psicologia del-l’artista – cioè l’inclinazione dell’artista al patologico eal criminale, il suo esibizionismo spudorato, il suo istrio-nismo senza dignità, insomma tutta l’esistenza di vaganscui è obbligato – deve aver profondamente turbato eoppresso Flaubert. L’ascesi, ch’egli s’impone, la dili-genza artigianesca, quel monastico celarsi dietro l’ope-ra, debbono in definitiva testimoniare della sua serietà,della sua decenza e probità borghese, che non ha nien-te di comune con il «panciotto rosso» di Gautier. Il pro-

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letariato artistico è ormai diventato un fatto sociale nontrascurabile; la borghesia lo sente come un pericolo rivo-luzionario e gli scrittori borghesi solidarizzano con leicontro questo pericolo, come piú tardi contro la Comu-ne, che sveglia in loro tutti gli istinti borghesi repressi.

Tuttavia una dottrina come l’estetismo flaubertianonon è una soluzione chiara, definitiva, ma una forza dia-lettica che, mutando direzione, mette in dubbio la suastessa validità. Contro l’irruenza romantica della suagioventú, Flaubert cerca quiete e riparo nell’arte; ma inquesta funzione essa prende proporzioni fantastiche efigura demoniaca. Non solo soppianta ogni altra cosa chepossa appagare l’anima e placarla, ma diventa il princi-pio stesso della vita. Pare che solo essa abbia realtà,costituisca un punto fermo nel flusso di ciò che passa edilegua, si corrompe e si dissolve. La dedizione della vitaall’arte assume qui un carattere mistico-religioso; non èpiú semplicemente servizio o sacrificio, ma un fissarsi,estatici, all’unica realtà, un dissolversi e un annullarsinell’idea. «L’art, la seule chose vraie et bonne de la vie»[«L’arte, la sola cosa vera e buona della vita»] scriveFlaubert all’inizio della sua carriera29; e alla fine30:«L’homme n’est rien, l’œuvre tout» [«L’uomo non ènulla, l’opera è tutto»]. Il virtuosismo artigianesco, l’e-saltazione della maestria tecnica in contrasto con il dilet-tantismo romantico, in origine esprimeva il desideriod’inserirsi in un saldo ordine di vita sociale; l’ultimoestetismo di Flaubert è invece un nichilismo antisocia-le e avverso alla vita, una fuga da tutto ciò che è con-nesso con la pratica e con l’uomo di carne e d’ossa. Visi esprime l’estremo disprezzo del mondo, l’estremaripulsa. «La vita è cosí orribile, – geme Flaubert, – chela si può sopportare soltanto fuggendola. E lo si fa viven-do nell’arte»31. «Nous sommes faits pour le dire et nonpour l’avoir», è un crudele messaggio, l’accettazione diun destino infelice, inumano. «Tu potrai descrivere il

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vino, l’amore, le donne, la gloria soltanto se non seibevitore, né amante, né sposo, né soldato», scrive Flau-bert, e soggiunge che l’artista «è qualcosa di mostruosoe innaturale». Il romantico era troppo intimamente lega-to alla vita, al desiderio di vita; egli era tutto sentimen-to e natura. Per Flaubert l’artista non ha piú alcun diret-to rapporto con la vita; non è che un automa, un’astra-zione, qualcosa d’inumano e contro natura.

Nell’opposizione al romanticismo l’arte ha perdutoogni carattere spontaneo, è ormai divenuta un premioche l’artista deve conquistare lottando con se stesso, conla sua origine romantica, le sue inclinazioni e i suoiimpulsi. Per attività artistica, finora s’intendeva, se nonproprio un abbandono intero al proprio talento, alme-no un lasciarsene guidare; ora l’opera ha sempre l’ariadi un tour de force, di un prodotto dello sforzo, di unaconquista nella lotta contro se stessi. Faguet osservache lo stile epistolare di Flaubert è ben diverso da quel-lo dei romanzi e che il bello stile e la lingua corretta nongli riescono affatto agevoli e naturali32. Nulla illumina ladistanza fra l’uomo e l’artista piú nitidamente di questaconstatazione. Pochi sono gli scrittori di cui si conoscacosí bene il metodo di lavoro, ma non ce n’è sicuramentealcuno che abbia scritto le sue opere con tanto tormen-to e spasimo, contrastando cosí aspramente ai propriistinti. Ma quella continua lotta con la lingua, la lottaper trovare la parola giusta, l’unica giusta, non è che ilsegno di un’invalicabile distanza tra il «possedere» lavita e il «raccontarla». Non c’è parola, come non c’èforma, che sia l’unica giusta; sono invenzioni di esteti,per i quali la funzione vitale dell’arte è del tutto perdu-ta. «Io preferisco crepare come un cane piuttosto cheprecipitare anche di un istante la mia frase, prima chesia matura»; non parla cosí uno scrittore che abbia conl’opera sua uno spontaneo rapporto umano. Lo Shake-speare di Matthew Arnold sorriderebbe di questi scru-

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poli nell’Eliso. Il lamento sulla lotta quotidiana che stor-disce il cuore, il cervello e i nervi, sulla vita da forzatoin catene che è costretto a fare, è il motivo dominantedelle lettere di Flaubert. «Da tre giorni mi sbatto sututti i mobili, perché mi venga in mente qualcosa», scri-ve nel 1853 a Louise Colet33. «Non riesco piú a distin-guere i giorni della settimana... faccio una vita da pazzo,assurda... È il nulla puro, assoluto», scrive nel 1858 aErnest Feydeau34. «Lei non sa quel che vuol dire star lìa sedere tutta una giornata, con il capo fra le mani perspremersi una parola dal povero cervello», scrive nel1866 a George Sand35. Col suo orario regolare di setteore al giorno egli scrive una pagina al giorno, poi ventipagine in un mese, poi due pagine in una settimana. Èuna cosa pietosa. «La rage des phrases t’a desséché lecœur» [«La smania delle frasi ti ha inaridito il cuore»],gli dice la madre, e forse nessuno ha detto di lui cosa piúcrudele e piú giusta. Il peggio è che Flaubert, nonostanteil suo estetismo, dubita anche dell’arte. In fondo, forsenon è che un gioco di birilli, forse è tutta ciarlataneria,osserva egli una volta36. La sua incertezza, il suo lavorosforzato e tormentato, a cui manca del tutto la spensie-ratezza degli antichi scrittori, derivano dal fatto cheegli sente l’opera sua sempre in pericolo e non gli riescedi crederci veramente. «Quel che faccio adesso, –dichiara mentre lavora a Madame Bovary, – può facil-mente diventare qualcosa alla Paul de Kock... In unlibro come questo una riga fuor di posto può allontana-re dalla meta...»37. E mentre scrive L’Education senti-mentale: «Quel che mi spinge alla disperazione è il sensodi far qualcosa d’inutile, contrario all’arte»38. Diventauna formula fissa nelle sue lettere dire ch’egli si occupadi cose che non gl’importano, e che non riesce mai a scri-vere quel che realmente vorrebbe, né come vorrebbe39.

La frase di Flaubert: «Madame Bovary, c’est moi» èdoppiamente vera. Spesso dovette sembrargli che non

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solo il romanticismo dei primi anni, ma anche la reazionecritica ad esso, la funzione di giudice che esercitava pro-prio nell’atto stesso della sua creazione fosse un falsifi-care la vita. Proprio perché egli visse cosí intensamenteil problema di questa menzogna, la crisi dell’autoingan-no, la deformazione della propria personalità, MadameBovary è un’opera d’arte cosí vera e attuale. Con la pro-blematica del romanticismo vennero in luce tutti i pro-blemi dell’uomo moderno che fugge il presente, rifiutail luogo che dovrebbe esser suo, cerca quel che è lonta-no, perché teme la responsabilità di quel che è prossimoe attuale. L’analisi del romanticismo portò a diagnosti-care la malattia di tutto il secolo, a scoprire la nevrosile cui vittime non hanno mai chiara coscienza del lorostato e, sempre desiderose di essere nei panni altrui, nonsi vedono come sono, ma come vorrebbero essere. Inquesto autoinganno e in questa falsificazione della vita,in questo bovarismo, come è stata chiamata la sua filo-sofia40, Flaubert vede l’essenza della soggettività moder-na, che deforma tutto quel che tocca. Il senso che noipossediamo la realtà attraverso deformazioni, imprigio-nati nelle forme soggettive del nostro pensiero, trova inMadame Bovary la prima espressione artistica. Di qui unavia diritta e quasi continua mena all’illusionismo diProust41. La trasformazione della realtà attraverso lacoscienza, a cui già accennava Kant, assunse nel corsodell’Ottocento carattere di un inganno ora piú o menocosciente, ora del tutto inconscio, e si tentò di spiegar-la e di smascherarla in teorie quali il materialismo sto-rico e la psicanalisi. Con la sua interpretazione delromanticismo, Flaubert appartiene alla schiera dei gran-di rivelatori e smascheratori del secolo, quindi agli ini-ziatori della moderna concezione introspettiva.

I due maggiori romanzi flaubertiani, la storia dellapiccola provinciale che il suo romanticismo rende inet-ta alla vita, e quella del giovane borghese agiato, di

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media intelligenza, che disperde le sue forze intellettualie le sue capacità, sono strettamente connessi. FrédéricMoreau è stato detto il figlio spirituale di Emma Bovary;ma entrambi sono frutto di quella «stanca civiltà»42 incui si muove la vita della borghesia arrivata al potere.Entrambi incarnano la stessa confusione sentimentale erappresentano lo stesso tipo di «falliti» cosí caratteri-stico per quella generazione di eredi. Zola vide nell’E-ducation sentimentale il romanzo moderno per eccellen-za; e infatti, come storia di una generazione, segna l’ac-me di uno sviluppo che si era iniziato con il Rouge et noire proseguito ne La comédie humaine. È un romanzo«storico», cioè un romanzo dove protagonista è iltempo, sia come l’elemento che determina e anima i per-sonaggi, sia come il principio che li consuma, li annien-ta, li inghiotte. Il romanticismo ha scoperto il tempocome realtà creativa; la lotta antiromantica svela iltempo come forza corruttrice, che mina la vita e logoragli uomini. La constatazione di Flaubert, che «nella vitanon sono da temere le grandi sventure, ma le piccole»43,che, in altre parole, non si cade abbattuti dai nostrimaggiori e piú sconvolgenti disinganni, ma ci si consu-ma lentamente insieme con le nostre speranze e le nostreambizioni, è la realtà piú triste. Questo graduale, imper-cettibile, inarrestabile languire, che mina silenziosa-mente la vita senza produrre neppure lo schianto dellegrandi, imponenti catastrofi, è l’esperienza su cui s’im-pernia L’Education sentimentale e, si può dire, tutto ilromanzo moderno; esperienza che, per il suo caratterenon tragico, anzi neppur drammatico, può esprimersisoltanto in forma narrativa. L’egemonia del romanzonella letteratura dell’Ottocento si spiega specialmenteperché il senso dell’irresistibile appiattimento e inaridi-mento della vita e l’idea del tempo come forza distrut-tiva si sono impadroniti interamente degli animi. Ilromanzo sviluppa i suoi principî dal concetto del tempo

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che rode e distrugge, come la tragedia li aveva tratti dal-l’idea dell’eterno destino che annienta l’uomo d’uncolpo. E come in questa il fato possiede sovrumanagrandezza e forza metafisica, così, nel romanzo, enormee quasi mitica è la dimensione del tempo. Nell’Educa-tion sentimentale Flaubert scopre – e in questo consistel’importanza storica dell’opera – la costante presenza,nella nostra vita, del tempo che passa ed è passato. Egliè il primo a vedere che mutano col tempo il senso e ilvalore delle cose, che esse possono diventare per noisignificative e importanti solo perché sono parte delnostro passato, e in questa funzione il loro valore èaffatto indipendente dal loro effettivo contenuto e dailoro rapporti obiettivi. Ma questa rivalutazione del pas-sato e l’implicito conforto che il tempo, che seppelliscenoi e le rovine della nostra vita, lascia trasparire «dap-pertutto germi e tracce del senso perduto»44, non fa cheesprimere un sentimento romantico: il presente, ognipresente, è irrilevante e vuoto, e tale fu il passato,quand’era presente. Questo è il senso delle ultime pagi-ne de L’Education sentimentale, che sono la chiave ditutto il romanzo e di tutta la concezione flaubertiana deltempo. Questo spiega perché l’autore in queste pagineprenda a caso un episodio del passato del suo eroe e loconsideri quanto di meglio la vita potesse offrirgli. L’as-soluta nullità di quell’esperienza, affatto comune evuota, significa che nella catena della vita per noi mancasempre un anello e che ogni particolare della nostra esi-stenza è pieno della malinconia che deriva dalla suaassurdità obiettiva e dal senso puramente soggettivo chegli attribuiamo.

Flaubert segna la massima depressione nella visioneottocentesca della vita. L’opera di Zola, pur con i suoitoni cupi, rappresenta già una speranza, una svolta insenso ottimistico. E Maupassant, sebbene altrettantoamaro, è tuttavia piú leggero e piú cinico di Flaubert; le

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sue novelle segnano già, come concezione del mondo, iltrapasso alla letteratura amena borghese, ad una conce-zione che, quanto a elementi ottimistici e pessimistici,non è meno complicata e contraddittoria di quella deiceti piú umili. Per giudicare rettamente, occorre in que-sto caso distinguere con chiarezza i sentimenti delle sin-gole classi sociali di fronte al presente e al futuro. Leclassi in ascesa, sebbene considerino il presente con granpessimismo, hanno fiducia nell’avvenire; le classi domi-nanti, invece, pur nella potenza e nello splendore attua-le, sovente hanno il cuore stretto da un senso d’immi-nente rovina. Nelle classi oppresse, ma fiduciose nellapropria ascesa, il pessimismo del presente si unisce all’ot-timismo del futuro; anche fra i ceti condannati al decli-no l’immagine del futuro contrasta con quella del pre-sente, ma con opposti auspici. Perciò Zola, che si sentesolidale con gli oppressi e gli sfruttati, giudica il presentecon assoluto pessimismo, ma non gli manca la speranzanel futuro. Questo contrasto corrisponde anche alla suavisione scientifica. Com’egli stesso dichiara, Zola è undeterminista, ma non un fatalista; in altre parole, egli èperfettamente conscio che il comportamento degli uomi-ni dipende dalle condizioni materiali della loro vita, manon crede che queste siano immutabili. Egli accettasenza riserve la teoria di Taine sull’importanza dell’am-biente, anzi la esagera, ma considera particolare compi-to e meta perfettamente accessibile delle scienze socia-li il mutamento, il miglioramento – oggi diremmo lapianificazione – dell’ambiente in cui vivono gli uomini45.

Tutto il pensiero scientifico di Zola ha quest’im-pronta utilitaristica ed è permeato dallo spirito di rifor-ma e di progresso civile dell’illuminismo. Anche la suapsicologia mira a fini pratici; essa è al servizio di un’i-giene spirituale e parte dalla teoria che anche sulle pas-sioni si può influire, appena se ne colga il meccanismo.In Zola giunge all’estremo la visione scientifica propria

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dei naturalisti. Questi finora consideravano la scienzacome ancella dell’arte; ma Zola inverte il rapporto.Anche Flaubert crede che l’arte sia giunta a uno stadioscientifico, e non solo si sforza di descrivere la realtàsecondo la piú esatta osservazione, ma di questa accen-tua il carattere scientifico, anzi medico. Tuttavia non siattribuisce mai meriti diversi da quelli artistici, a diffe-renza di Zola che invece vuol esser considerato uno stu-dioso e accrescere il proprio valore di artista con la suaattendibilità scientifica. In questo si ha la stessa divi-nizzazione della scienza, lo stesso feticismo scientificoche in genere caratterizza il socialismo ed è proprio diquei ceti che dal trionfo della scienza sperano la propriaascesa. Anche per Zola, come per tutta la concezione delsocialismo scientifico, l’uomo è un essere determinatonei suoi caratteri da leggi ereditarie e ambientali, ed egliva tant’oltre nel suo entusiasmo per le scienze naturali,da definire il naturalismo nel romanzo semplicementecome l’applicazione del metodo sperimentale alla lette-ratura. Ma qui «esperimento» è solo un parolone privodi senso, o tutt’al piú equivalente a «osservazione»46.Nelle teorie letterarie di Zola c’è un po’ di ciarlatane-ria, eppure i suoi romanzi hanno un certo valore teore-tico, perché, sebbene non contengano alcuna novitàscientifica, sono opera di un notevole sociologo, comegiustamente è stato sottolineato. E, cosa importantissi-ma per la storia dello stile, sono il risultato di un lavo-ro condotto con metodo scientifico, affatto nuovo nel-l’arte. Di solito l’artista esperimenta il mondo senza unpiano né un sistema prestabilito; si direbbe ch’egli rac-colga, passando, il suo materiale, dati ed elementi dellavita che si porta via con sé: germi da lasciar crescere ematurare, per trarre un giorno da quella provvista igno-ti, insospettati tesori. Lo scienziato invece sceglie la viaopposta. Parte da un problema, cioè da un fatto di cuiegli non sa nulla, o non sa precisamente quello che gl’im-

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porta. Per lui comincia, con l’impostarsi stesso del pro-blema, la raccolta e il vaglio del materiale, cioè una piúintima conoscenza di quel settore della vita. Non è l’e-sperienza a portarlo al problema, ma questo all’espe-rienza. Ecco appunto la via e il metodo di Zola: eglicomincia un nuovo romanzo come quel tal professore unnuovo corso, documentandosi con cura su un soggettoche gli è oscuro. E appunto quel che racconta PaulAlexis sulla preparazione di Nana, sulle esplorazioni diZola nel mondo della prostituzione e del teatro, fa veni-re in mente quel professore.

L’idea complessiva secondo cui Zola costruisce il suociclo romanzesco ha l’aria di un piano per qualche impre-sa scientifica. Secondo il programma, le singole operecostituiscono le parti di un grande sistema enciclopedi-co, di una summa della società moderna. «Io voglio spie-gare come una famiglia, cioè un piccolo gruppo di esse-ri, si comporta in una società», scrive nella prefazionea La fortune des Rougon. E tale società è la Francia deca-dente e corrotta del Secondo Impero. Non ci può esse-re per un artista programma piú obiettivo, preciso, scien-tifico. Ma Zola non sfugge al destino del suo secolo;nonostante il suo metodo, egli è un romantico, e assaipiú sfrenato degli altri contemporanei, meno radical-mente naturalisti. Anche il suo modo di razionalizzaree schematizzare la realtà, unilaterale e non dialettico, èardito, acceso romanticismo. E i simboli a cui egli ridu-ce la varietà molteplice, contraddittoria della vita – lacittà, la macchina, l’alcool, la prostituzione, il fondaco,il mercato, la borsa, il teatro, ecc. – non sono che levisioni di un sistematico, non affrancato dal romantici-smo, che al posto di singoli fenomeni concreti vede alle-gorie. A questa inclinazione si aggiunge il fascino cheogni cosa grande, gigantesca esercita su di lui. Egli è unfanatico della massa, del numero, della rozza, compat-ta, inesauribile realtà di fatto. Egli s’inebria della mate-

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ria, della realtà pullulante, dello spettacolo grandiosodella vita. Non per nulla è contemporaneo del grand-opéra e del barone Haussmann.

In quest’epoca dell’alta borghesia e del grande capi-tale, lo spirito pratico e antiromantico non si rivela nelnaturalismo, bensí nell’idealistica letteratura amena deiricchi borghesi. La produzione naturalistica, benchéradicalmente materialista, anzi spesso appunto perchétale, offre un quadro della realtà sfrenatamente fanta-stico. Invece il razionalismo e il pragmatismo borghesitendono a un’immagine del mondo equilibrata, armoni-ca, tranquilla. Per soggetti «ideali» la borghesia inten-de quelli che, servono a calmare, acquetare, sopire. Allaletteratura spetta il compito di riconciliare con la vita gliinfelici e gli scontenti, velando ai loro occhi la realtà eintroducendoli illusoriamente in un’esistenza da cui sonoe rimangono esclusi. Si mira ad abbagliare, non già illu-minare. Al romanzo naturalista di Flaubert, di Zola, deiGoncourt, sempre sconvolgente, eccitante, l’élite socia-le contrappone i romanzi della «Revue des Deux Mon-des», specie quelli di Octave Feuillet, dove la vita e leaspirazioni del gran mondo appaiono il piú alto idealedell’umanità civile; dove ancora ci sono veri eroi, forti,arditi e disinteressati cavalieri, figure ideali che giàappartengono all’alta società, o giovani, che questa èpronta ad accogliere nel suo seno. Finora, nonostante lerivoluzioni e i mutamenti sociali, la vita dell’aristocra-zia veniva sempre descritta con una certa evidenza eimmediatezza; benché sorpassata, essa conservava anco-ra certi caratteri naturali e spontanei. Ma nei romanzid’ora la vita del gran mondo appare come fuori d’ognirapporto con la vita reale, in una luce da salotto palli-da, vaga, gradevolmente smorzata, che ricorda gli odier-ni film di Hollywood. Feuillet non distingue affatto traeleganza e cultura, belle maniere e buone qualità; per luibuona educazione e nobiltà d’animo sono sinonimi e la

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fedeltà verso le classi superiori è già prova di una certafinezza. L’eroe del suo Roman d’un jeune homme pauvre(1858) incarna la distinzione dei modi e dell’animo; èbello e generoso, sportivo e intelligente, virtuoso e sen-sibile, e con la sua povertà prova soltanto che l’inegua-le distribuzione dei beni materiali non impedisce l’at-tuarsi degli ideali aristocratici. Si tratta cioè di un veroe proprio romanzo a tesi, analogo ai drammi di Augiere Dumas. Vi si proclamano e vi si esaltano i precettidella morale cristiana, del conservatorismo politico edel conformismo sociale; vi si combatte il pericolo dellagrande passione caotica, della selvaggia disperazione edella resistenza passiva.

L’ipocrisia borghese va insieme a uno straordinarioabbassamento del livello culturale. Il Secondo Impero,se dà luogo all’arte di Flaubert e di Baudelaire, è ancheall’origine del cattivo gusto e del ciarpame moderno.Naturalmente neanche prima mancavano imbrattatele epoeti senza talento, opere rozze e abborracciate, ideeannacquate e scadenti; ma l’opera deteriore era talemanifestamente, volgare e priva di gusto, senza pretesee senza importanza: la sciocchezza ben lisciata, la robac-cia eseguita con meccanica raffinatezza, non c’erano, oalmeno restavano prodotti secondari. Tutto questo inve-ce ora diventa norma e la qualità è regolarmente sosti-tuita dalla vuota apparenza. Si mira a un’arte che sipossa godere con il minimo sforzo e il massimo piacere,eliminandone difficoltà e complicazioni, ogni elementoproblematico e tormentoso, insomma riducendola ai soliaspetti piacevoli e lusinghieri. L’arte come svago, nellaquale il pubblico consciamente e di proposito abbassa ilproprio livello mentale, è invenzione di quel tempo;essa domina in tutte le forme, ma specialmente in quel-la piú decisamente e schiettamente pubblica: il teatro.

Nel romanzo e nella pittura, accanto alle tendenzecare al gusto borghese, domina il naturalismo; nel tea-

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tro invece non c’è nulla che si opponga agli interessi ealle idee della borghesia. Per difendersi dalle correntiche gli appaiono pericolose, il governo non soltanto siaffida alla maggioranza del pubblico, composta di «ben-pensanti», ma le combatte con ogni sorta di prescrizio-ni e divieti. In quanto arte destinata a un gran pubbli-co, il teatro viene trattato piú severamente degli altrigeneri, proprio come oggi il film è soggetto a restrizio-ni che non si estendono alla scena. Dalla metà del seco-lo gli sforzi degli scrittori, in armonia con le intenzionidel governo, mirano a creare uno strumento di propa-ganda per l’ideologia borghese, per i suoi principî eco-nomici, sociali e morali. L’avidità di piacere delle clas-si dominanti, il loro debole per gli spettacoli, la lorogioia di vedere e di farsi vedere fanno del teatro la tipi-ca arte del tempo. Nessuna società ne fu cosí amante, emai una première ebbe tanta importanza come per ilpubblico di Augier, Dumas e Offenbach47. Questa pas-sione riesce gradita a coloro che foggiano l’opinionepubblica, che la incoraggiano e ne confermano le incli-nazioni e il gusto. Il concetto del pubblico di un Sarcey,ad esempio, cioè del piú autorevole critico teatrale deltempo, è senza dubbio strettamente connesso con talepreoccupazione. La sua affermazione che la sostanzadel teatro è il pubblico e che nell’esecuzione di un dram-ma si può astrarre da ogni cosa fuor che dallo spettato-re48, non rispecchia soltanto il generale sviluppo dellescienze sociali e l’accentrarsi dell’interesse su fenomeniintellettuali collettivi. Per Sarcey il principio, che, ilpubblico ha sempre ragione è la norma di ogni critica edegli vi si attiene, benché sappia benissimo che l’anticopubblico colto è scomparso da gran tempo, e dei vecchihabitués, ancora concordi in un vero criterio di gusto,resta solo un piccolo gruppo, stabile nella sua composi-zione, di spettatori regolari: il pubblico delle premières49.Per Sarcey il mutamento sociale, da cui è uscito il pub-

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blico del grande teatro moderno, è un processo relati-vamente nuovo che avviene nell’ambito della stessa bor-ghesia. Il rapido aumento del pubblico in seguito allosviluppo delle ferrovie che riversano a Parigi provincia-li e stranieri, sostituendo al gruppo discretamente omo-geneo degli habitués una platea promiscua e occasiona-le, è un fenomeno su cui insistono, oltre che Sarcey, altricontemporanei, come la causa principale del mutamen-to di stile nel teatro50; si tratta però solo dello sviluppopiú recente, e non certo il piú importante, di un processoche risale alla Rivoluzione francese.

In Francia, la svolta decisiva nel teatro moderno sicompie con Scribe, che non solo è il primo che sappiaportare sulla scena l’ideologia della borghesia dellaRestaurazione, asservita al denaro, ma con la sua com-media d’intreccio crea lo strumento piú adatto a favo-rire l’affermazione di tale ideologia. Dumas e Augierrappresentano soltanto una forma piú evoluta del suobon sens ed hanno per la borghesia del 1850 lo stessosignificato che Scribe aveva avuto per la Restaurazionee la monarchia di luglio. Quello ch’essi proclamano è lostesso razionalismo piatto e utilitario, lo stesso ottimi-smo e materialismo superficiale; ma Scribe era piú one-sto di loro e senza falsi pudori, senza sentimentalismi,parlava di denaro, di carriera, di matrimoni, di conve-nienza, mentr’essi parlano d’ideali, di doveri, di eternoamore. La borghesia che all’epoca di Scribe era una clas-se in ascesa e ancora in lotta, ora è ormai giunta allameta e, già minacciata dal basso, crede di dover amman-tare d’idealismo le sue mire materialistiche, rivelandocosí un timore, che non prova mai chi lotta ancora peril suo posto nella società.

Per un’idealizzazione della borghesia non si potevatrovare piedistallo piú adatto dell’istituzione del matri-monio e della famiglia. Si poteva rappresentarla inbuona fede tra le forme sociali che esprimono i piú puri,

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altruistici e nobili sentimenti; e certamente, sciolti gliantichi vincoli feudali, era l’unica istituzione che potes-se assicurare stabilità e durata alla proprietà. Comunque,l’idea della famiglia come scudo della società borghese,contro le pericolose intrusioni dall’esterno e gli elemen-ti disgregatori interni, divenne fondamento spiritualedel dramma. E tanto piú si prestava, in quanto la si pote-va collegare direttamente con il tema amoroso, cosa pos-sibile con la nuova idea che veniva affermandosi dell’a-more, che perdeva cosí molti dei suoi elementi roman-tici. Non doveva essere piú la grande passione selvaggia,né si doveva accettarlo od esaltarlo come tale. I roman-tici si erano sempre mostrati comprensivi e indulgentiverso l’amore sfrenato, ribelle, irresistibile: la sua giu-stificazione stava nella sua stessa intensità. Per il dram-ma borghese invece il senso e la dignità dell’amore stanella sua durata, nel suo mantenersi nella quotidianitàdel matrimonio. Questo mutamento noi lo seguiamo dipasso in passo dalla Marion Delorme di Victor Hugo allaDame aux camélias e al Demi-Monde di Dumas. Già nellaDame aux camélias l’amore dell’eroe per la ragazza cadu-ta è inconciliabile con i principî morali di una famigliaborghese, ma l’autore, almeno sentimentalmente, sepure non razionalmente, parteggia ancora per la vittima;nel Demi-Monde invece l’autore è ormai del tutto avver-so alla donna di dubbia fama, che dev’essere allontana-ta dall’organismo sociale come un focolaio d’infezione.Essa infatti rappresenta per la famiglia borghese un peri-colo ancora maggiore di una ragazza povera, ma onesta,che infine può diventare una buona madre, una fedelecompagna e una fida custode del patrimonio. Se dunquesi è sedotta una ragazza del genere, la si deve anche spo-sare, e non solo per riparare l’errore, ma anche per met-tere ordine e – come Zola riassume la morale di Augiernei Fourchambault – per non finire con una bancarotta.Ma quando si è messo al mondo un figlio illegittimo –

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cosa riprovevole – si deve legittimarlo, come Dumassostiene nel Fils naturel e in Monsieur Alphonse, soprat-tutto per non accrescere il numero di quegli spostati chesono un pericolo costante per la società borghese. Anchel’adulterio viene giudicato semplicemente in quantominaccia all’istituto familiare. In certi casi lo si può per-donare all’uomo, non mai alla donna. Del resto, unadonna di dubbia moralità difficilmente arriva a rompe-re il legame familiare (Francillon). In breve, è permessotutto quanto è conciliabile con l’idea della famiglia, vie-tato tutto quanto vi contraddice. Ecco le norme e gliideali, propugnati in tono apologetico dai drammi diAugier e Dumas, e il loro successo sta a provare che gliautori leggevano nell’animo del pubblico.

Lo scarso valore di quei drammi – perché valgonopoco davvero – non si deve tuttavia al fatto ch’essi ser-vono una tendenza e sono «lavori a tesi» – tali eranoanche le commedie di Aristofane e le tragedie di Cor-neille – ma al fatto che la tesi è imposta dall’esterno ein nessun personaggio riesce veramente a incarnarsi. Illegame inorganico fra tesi e rappresentazione vi si rive-la specialmente nella figura stereotipa del raisonneur. Ilsemplice fatto che si abbia una figura che non ha altrafunzione se non di portavoce dell’autore mostra che lateoria non esce dall’astratto e che l’ideologia di fondonon riesce a fare tutt’uno con la creazione artistica. Inpratica, gli autori si fanno le loro idee, o piuttosto accet-tano quelle della classe dominante, sul costume e il mal-costume del tempo, e in piú, indipendentemente da que-ste idee, hanno un certo talento per lo spettacolo, unacerta capacità di suscitare interesse e tensione con imezzi teatrali. Essi combinano questi dati e utilizzanoil loro talento scenico per diffondere le opinioni e le teo-rie che vogliono divulgare. Ma lo fanno in modo tantodiretto e grossolano, che indirettamente contribuisconoa giustificare il principio de l’art pour l’art. Infatti nel-

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l’arte la propaganda è specialmente fastidiosa quandonon arriva a fondersi interamente con le forme concre-te della rappresentazione e l’idea da diffondere noncoincide a pieno con la visione dell’artista.

A differenza del romanticismo, il Secondo Impero èun’epoca di razionalismo, di riflessione e di analisi51.Dovunque sono in primo piano i problemi tecnici e lacomprensione critica domina in ogni genere artistico.Nel romanzo Flaubert, Zola e i fratelli Goncourt, nellalirica Baudelaire e i Parnassiani, nel dramma i maestridella pièce bien faite sono gli esponenti di questo spiritocritico. I problemi formali, che nelle altre forme lette-rarie in genere riescono appena a far da contrappeso alletendenze sentimentali, dominano invece incondiziona-tamente il teatro. E non è solo per le circostanze este-riori della rappresentazione, gli stretti limiti di spazio edi tempo, il carattere di massa del pubblico e la naturaimmediata delle sue reazioni, che il drammaturgo è por-tato a preoccuparsi dei problemi di struttura e di eco-nomia artistica; già in partenza il fine didattico e pro-pagandistico gli impone una trattazione formalmentechiara, efficiente, diretta allo scopo. Autori e criticidiventano sempre piú consapevoli che il teatro è in sétutt’altro dalla letteratura, che la scena si regge secon-do una logica e leggi proprie e nel dramma la poesia spes-so addirittura contrasta con l’effetto scenico. QuandoSarcey parla di prospettiva teatrale (optique de théâtre)e d’istinto teatrale (génie de théâtre) o quando dice sem-plicemente: c’est du théâtre, si riferisce alle convenienzesceniche, astraendo da ogni considerazione letteraria, adun uso energico dei mezzi teatrali, alla preoccupazionedi conquistare – e ad ogni costo – il pubblico; si trattainsomma, di una posizione che trasforma la scena in tri-buna. Già Voltaire sapeva che in teatro era piú impor-tante de frapper fort que de frapper juste, ma solo i tecni-ci e i teorici della pièce bien faite arrivano a stabilire le

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regole di questo colpir forte e dar nel segno. La loromaggiore scoperta è di aver riconosciuto che l’efficaciascenica, anzi la semplice possibilità di condurre una rap-presentazione, riposa su una serie di convenzioni, rego-le di gioco, tricheries (trucchi), come Sarcey le chiama, eche il tacito accordo fra autore e pubblico è nel dram-ma ancora piú decisivo che negli altri generi. Fra le con-venzioni teatrali c’è anzitutto la disposizione del pub-blico a lasciarsi sorprendere dalle vicende, il suo conscioautoinganno, la sua docilità nel consentire al gioco senzaopporre resistenza. Altrimenti, non solo ci annoierem-mo assistendo due volte a un dramma che si regga suespedienti puramente teatrali, ma non potremmo pren-derci gusto neppure la prima volta. Infatti in un lavorodi questo genere tutto deve sorprendere, benché tuttosia prevedibile. Qui le scènes à faire (le scene principali)sono gli inevitabili chiarimenti a cui, come Sarcey fanotare, il pubblico sa benissimo che si deve arrivare e siarriverà52 e il dénouement è la soluzione attesa e deside-rata dallo spettatore53. Cosí il teatro diventa un gioco disocietà che è, sì, eseguito con tutte le regole e l’abilitàpiú consumata, ma tuttavia ha in sé qualcosa di ingenuoe di primitivo. Le difficoltà non derivano tanto dallavarietà del materiale, quanto dalla complicazione delleregole del gioco. Queste debbono anzitutto ricompen-sare gli spettatori piú esigenti del contenuto povero etrito. Il preciso funzionamento della macchina teatraledeve, insomma, dissimulare il suo girare a vuoto. Il pub-blico, anche il migliore, vuole un divertimento leggero,senza sforzo; non devono esserci quindi oscurità, néproblemi insolubili, né profondità insondabili. Per que-sto si accentua tanto il rigore della struttura, la logicadelle connessioni. Il dramma deve svolgersi come un’o-perazione matematica; l’intima necessità dev’esseresostituita da una necessità esteriore, come l’illusoriaargomentazione sostituisce l’intima verità della tesi.

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Il dénouement è la soluzione del problema. Se il risul-tato è sbagliato, lo è tutta l’operazione, dice Dumas.Perciò, egli pensa, si deve cominciare un lavoro dallafine, dalla soluzione, dalla chiusa. Nulla meglio di que-st’andatura da gambero illumina la differenza fra il cal-colo ingegnoso, con cui si costruisce una pièce bien faitee gli impulsi irrazionali da cui si lascia trascinare il poeta.Il drammaturgo fa un passo innanzi e due indietro; deveconfrontare e accordare ogni idea, ogni motivo, ognimossa nuova con i motivi e le mosse prestabilite. Scri-vere drammi obbliga di continuo ad anticipare i fatti erifarsi ai precedenti, a ordinare e riordinare, a procede-re a tastoni, elevando a poco a poco l’edificio, saggian-done di continuo la resistenza, consolidando e rincal-zando i singoli piani. Un razionalismo di questo generecaratterizza piú o meno ogni prodotto artistico passabi-le e, in modo particolare, ogni opera drammatica rap-presentabile – le opere di Shakespeare nate effettiva-mente per il palcoscenico, come i lavori di Augier eDumas – ma l’efficacia della pièce bien faite sta sempli-cemente nella successione degli effetti e delle risorse,mentre in un dramma shakespeariano l’efficacia risultada infinite componenti, fuor d’ogni rapporto matema-tico. Si sa che Emerson amava leggere Shakespeareinvertendo l’ordine delle scene, rinunziando deliberata-mente all’effetto teatrale per concentrarsi tutto sullasostanza poetica. Una vera pièce bien faite letta in que-sto modo diventerebbe non solo intollerabile, ma ancheincomprensibile, poiché i singoli elementi non hannovalore in sé, ma solo in relazione agli altri. Nel loro svi-luppo, come in una partita a scacchi, tutto mira allamossa finale; e come vi si possa giungere meccanica-mente, lo mostra benissimo il metodo con cui Sardou hafatto propria la tecnica di Scribe. Egli racconta che silimitava a leggere il primo atto dei lavori del maestro etentava di dedurre il «giusto» seguito dalle premesse

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cosí acquisite. Col tempo, grazie a questo «puro eserci-zio logico», com’egli stesso lo chiama, arrivò a prevederecon approssimazione sempre maggiore la soluzione adot-tata da Scribe nel secondo e nel terzo atto dei suoi lavo-ri; e nello stesso tempo giunse alla convinzione, condi-visa dal Dumas, che tutta la vicenda risulti con unacerta necessità dalla situazione iniziale. Per Dumasinventare una situazione drammatica ed escogitare unconflitto non era arte; piuttosto lo era preparare benela scena madre e sciogliere agevolmente i nodi. La tramache al primo sguardo pare il dato piú spontaneo, indi-scutibile e immediato del dramma, si rivela cosí l’ingre-diente piú artificiale e ottenuto piú laboriosamente.Essa non è affatto pura materia prima o puro prodottodi fantasia, ma è una serie di mosse strategiche che nonlasciano campo all’invenzione spontanea, né al sovranoarbitrio del poeta.

A seconda delle opinioni, si può considerare l’arma-tura di un’opera ben costrutta come la scala per giungerea vertiginose altezze, o semplicemente come uno sche-ma meccanico e professionale che non ha nulla in comu-ne con l’arte e l’umanità vera. Si può entusiasticamen-te celebrare con Walter Pater l’ingegno dell’artista che«nel principio prevede la fine e mai la perde di vista, inogni sua parte considera l’opera intera e fino all’ultimafrase, con immutato vigore, sviluppa e giustifica laprima»; ma si può anche, come Bernard Shaw, temereche la tirannia di una tal logica risulti fatale al dram-maturgo, poiché «è quasi impossibile per chi ne è schia-vo dare ai suoi drammi un ultimo atto tollerabile, tantoconvenzionale è il modo per cui dalle premesse discen-dono le conclusioni». Ma per credere che Shaw disprez-zi e rifiuti davvero gli ingegnosi trucchi e artifici di que-sta tecnica, si dovrebbe dimenticare ch’egli è l’autore dilavori come L’alunno del diavolo e Candida che, osser-vati da presso, si rivelano vere e proprie pièces bien fai-

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tes. Tuttavia non solo Shaw, ma anche Ibsen e Strind-berg, e con loro tutto il dramma moderno che vera-mente si presti alla rappresentazione, discendono piú omeno direttamente da quel modello francese. L’arte dicostruire l’intreccio e provocare la tensione, di stringe-re il nodo dell’azione e differirne lo scioglimento, di pre-parare le svolte del dramma, pur non facendo mancarela sorpresa, le regole dell’esatta distribuzione e tempe-stività dei «colpi di scena», la casistica delle grandi tira-te e delle chiuse incisive di ogni atto, la sapienza nelloscegliere il momento opportuno per far calare il sipario,e mantenere incerto fino all’ultimo istante lo sciogli-mento: tutto questo essi lo hanno imparato da Scribe,Dumas, Augier, Labiche e Sardou. Con ciò non si vuoldire che la moderna tecnica teatrale sia creazione esclu-siva di quei drammaturghi. Anzi, è possibile risalire benoltre il melodramma e il vaudeville del periodo postri-voluzionario, oltre il dramma borghese e la commediasettecentesca, oltre la commedia dell’arte e Molière,fino addirittura alla commedia romana e alla farsamedievale. Resta tuttavia che il contributo dei maestridella pièce bien faite a questa tradizione è grandissimo.

Il prodotto artistico piú originale – e per molti aspet-ti il piú espressivo – del Secondo Impero è l’operetta54.Neppur essa veramente è un’assoluta novità – cosaimpensabile, del resto, ad uno stadio cosí avanzato dellastoria teatrale – ma continua due generi piú antichi, l’o-pera buffa e il vaudeville. In quest’epoca priva di graziae di umorismo essa porta un riflesso dello spirito sette-centesco, leggero, gaio, antiromantico. È l’unica formagiocosa di questi anni, danzante, agile e leggiadra. Fra ilconformismo delle tendenze che si adattano al prosaicogusto borghese e l’anticonformismo dei naturalisti, essacostituisce un mondo a sé, un limbo. È molto piú attraen-te del dramma borghese o del romanzo in voga, piúsocialmente rappresentativa del naturalismo e, come tale,

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e il solo genere che dia luogo ad opere popolari, adatteal gran pubblico e non prive di valore artistico.

Il carattere piú saliente dell’operetta – e il piú sin-golare dal punto di vista del naturalismo – è l’assolutainverosimiglianza, il carattere irreale, fantastico, fiabe-sco delle sue scene fuggevoli e vorticose. Essa è perl’Ottocento quel che per i secoli precedenti era stato ildramma pastorale. Il suo contenuto artificioso, gliintrecci e gli scioglimenti convenzionali sono un gioco,privo ormai di ogni rapporto con la realtà. Al tono falsodell’invenzione s’accompagna il meccanismo marionet-tistico dei personaggi e l’esecuzione apparentementeimprovvisata. Già Sarcey nota la somiglianza fra ope-retta e commedia dell’arte55 e sottolinea l’impressioned’irrealtà, di sogno, che gli viene dalle composizioni diOffenbach; ma con ciò egli vuol dire soltanto che essehanno di caratteristico una vena stranamente fantasti-ca. Solo un moderno ammiratore di Offenbach, il vien-nese Karl Kraus, ha tentato di interpretare in un sensopiú profondo questo loro carattere, sottolineando chenell’operetta di Offenbach la vita è inverosimile e assur-da, grottesca e inquietante com’è appunto in realtà, seguardata da una certa distanza56. Naturalmente Sarceyera lontanissimo da una simile interpretazione, che forsesarebbe stata inconcepibile, prima che l’espressionismoe il surrealismo facessero risaltare l’aspetto irreale e allu-cinante della vita. Soltanto un occhio affinato attraver-so queste esperienze artistiche era in grado di constata-re che l’operetta non era unicamente un’immagine dellafrivola e cinica società del Secondo Impero, ma ancheun’autoderisione; ch’essa esprimeva non soltanto larealtà, ma anche l’irrealtà di quel mondo; che, insomma,era nata dall’aspetto operettistico della vita stessa57, sesi può dir cosí di un tempo come quello, tanto serio,posato e critico. I contadini all’aratro, gli operai nellefabbriche, i commercianti in ufficio, i pittori a Barbizon,

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Flaubert a Croisset, erano quel che erano; ma la classedirigente, la corte alle Tuileries, il mondo dei banchie-ri crapuloni, degli aristocratici dissipati, dei giornalistirisaliti e delle raffinate cocottes aveva in sé qualcosad’inverosimile, di spettrale e caduco: era un paese daoperetta, un palcoscenico dove le quinte minacciavanodi crollare ogni momento.

L’operetta era il prodotto di un generale laissez faire,laissez aller, cioè del liberalismo economico, sociale,morale: un mondo in cui ciascuno poteva far quel chevoleva, fuor che discutere il sistema. Questa condizio-ne significava ampia indulgenza e, d’altro canto il piústretto rigore. Lo stesso governo che citava in giudizioFlaubert e Baudelaire, tollerava in Offenbach la piúsfrontata satira sociale, la piú insolente canzonatura delregime autoritario, della corte, dell’esercito, della buro-crazia. Ma si sopportavano le beffe soltanto perché nonerano o non parevano pericolose, perché le accoglieva unpubblico la cui fedeltà era indubbia, e che bastava la val-vola di sicurezza di quell’innocua canzonatura ad appa-gare. Solo a noi quello spasso appare spettrale; i con-temporanei erano sordi alla vibrazione sinistra che noicogliamo nel folle ritmo del galoppo e del cancan diOffenbach. Ma il divertimento non era del tutto inno-cuo, perché vi si cercava l’ebbrezza da cui si volevaesser trascinati. L’operetta corrompeva la gente, nonperché dileggiasse ogni cosa «rispettabile», non perchéla derisione dell’antichità, della tragedia classica, del-l’opera romantica celasse una sua critica sociale, ma per-ché scoteva la fiducia nelle autorità, senza negarne lebasi. L’immoralismo dell’operetta consisteva nella fri-vola tolleranza con cui essa esercitava la sua critica versola corruzione del sistema politico e della società con-temporanea, nell’apparenza innocente ch’essa dava allafutilità delle piccole prostitute, dei galanti scapestrati edegli amabili vecchi gaudenti. La sua critica fiacca ed

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esitante non faceva che incoraggiare la corruzione. D’al-tronde da artisti che godevano di uno straordinario suc-cesso, e che il successo amavano sopra ogni cosa, un suc-cesso legato al perdurare di quella società indolente eavida di piaceri, non ci si poteva attendere che questoambiguo atteggiamento. Offenbach era un ebreo tede-sco, un esule, un musicista nomade, un artista doppia-mente minacciato nella sua esistenza; nella capitale fran-cese, in quel mondo corrotto e pur tanto seducente, eglidoveva sentirsi doppiamente straniero, spostato, spet-tatore indifferente. Piú della maggior parte dei suoi col-leghi egli doveva sentire la posizione problematica del-l’artista nella società moderna, la contraddizione tra lesue ambizioni e il suo risentimento, il suo orgoglio diaccattone che pur s’affanna a conquistare il favore delpubblico. Non era un ribelle, e neppure un democrati-co, anzi ben volentieri accettava il governo della «manoforte» e con animo tranquillissimo godeva i vantaggi,che il sistema politico del Secondo Impero gli offriva;ma considerava tutto quell’agitarsi intorno a lui con losguardo distaccato, acuto, freddo di un escluso e, senzavolerlo, affrettava il declino della società a cui doveval’esistenza.

L’operetta significa in fondo l’ingresso del giornali-smo nella musica. Dopo il romanzo, il dramma e l’artegrafica, ora anche il teatro musicale commenta i fatti delgiorno. Ma qui il giornalismo non si limita alle strofet-te e alle battute comiche su fatti di attualità; tutto ilgenere è come una rubrica permanente degli scandalimondani. Con ragione Heine è stato chiamato il pre-cursore di Offenbach. L’origine, il temperamento, laposizione sociale dei due sono su per giú gli stessi;entrambi sono giornalisti nati, nature critiche e positi-ve, che non vogliono vivere ai margini della società, main essa, con essa, benché, certo, non sempre d’accordocon i suoi fini e i suoi mezzi.

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Nella Parigi cosmopolita della monarchia di luglio edel Secondo Impero, Heine aveva le stesse probabilitàdi successo di Meyerbeer e di Offenbach; ma per espri-mersi non disponeva di un linguaggio universale come isuoi piú fortunati compatrioti. La sua fama rimase limi-tata a una cerchia relativamente angusta, mentre Meyer-beer e Offenbach conquistarono Parigi e con essa tuttoil mondo civile. Non solo essi crearono due fra i generipiú caratteristici dell’arte francese, ma con piú fedeltàe larghezza dei colleghi francesi seppero essere interpretidel gusto parigino del tempo. Anzi, Offenbach può con-siderarsi come un vero e proprio compendio del suotempo; l’opera sua contiene molti di quelli che sono isuoi tratti piú peculiari e originali. Già ai contempora-nei parve cosí rappresentativo, ch’essi lo identificaronocon lo spirito di Parigi e videro nella sua arte il perpe-tuarsi della tradizione classica francese. In Offenbachtutto l’Occidente sentí la gioia e il rigoglio della vita58.La granduchessa di Gerolstein si rivelò la piú grande eduratura attrattiva dell’esposizione universale del 1867;i numerosi sovrani e principi in visita a Parigi furonoentusiasti dello spettacolo e dell’irresistibile HortenseSchneider nella parte della protagonista, non meno deiroués [gli smaliziati] della capitale e dei borghesucci diprovincia. Lo zar di Russia, tre ore dopo il suo arrivo,era già in un palco delle Variétés; e Bismarck, benchéapparentemente sapesse dominare meglio la sua impa-zienza, era estasiato quanto le teste coronate. Rossinichiamava Offenbach il «Mozart dei Champs Élysées» eWagner confermò quel giudizio, ma solo dopo la mortedell’invidiato rivale.

L’operetta fiorí per tutto il periodo fra le due espo-sizioni universali del 1855 e del 1867. Dopo le traver-sie politiche sulla fine del sesto decennio le venne menoil pubblico adatto, un pubblico spensierato o che si cul-lava nell’illusione di una spensierata sicurezza. I tempi

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migliori dell’operetta finirono in una con il SecondoImpero; le generazioni successive l’amarono, non piúcome espressione viva, spontanea, immediata del pre-sente, ma perché richiamava, come nessun’altra formad’arte, «i bei tempi andati». Grazie a questa associa-zione d’idee, l’operetta sopravvisse ai rivolgimenti sulloscorcio del secolo, e in una città intellettualmente cosívolubile come Vienna rimase fino alla seconda guerramondiale la forma piú diffusa d’idealizzazione senti-mentale del passato. Ci vollero le esperienze degli ulti-mi vent’anni perché ci si decidesse a rivedere il concet-to dei «bei tempi andati», che una parte d’Europa asso-ciava con Napoleone III e Offenbach, l’altra con l’im-peratore Francesco Giuseppe e Johann Strauss. La lottadi classe, che fra il 1848 e il 1870 era stata dovunquerepressa, tornò a divampare dopo il ’70, minacciando ilpotere di quella borghesia che piú di tutti aveva trattoprofitto dalla reazione. E l’operetta apparve come l’im-magine di un’esistenza sicura, tranquilla, felice: un idil-lio che nella realtà non era mai esistito.

Ebbero ragione i Goncourt con la loro profezia cheil circo, il varietà e la rivista avrebbero soppiantato ilteatro. Il film, che si può annoverare fra questi tipi perle sue qualità spettacolari, ne è un’ulteriore conferma.Vicinissima al varietà e alla rivista, l’operetta non è tut-tavia la forma piú antica in cui lo spettacolo trionfi suldramma. La vera svolta era avvenuta prima, con l’af-fermarsi del grand-opéra, durante la monarchia di luglio,benché l’elemento spettacolare fosse sempre stato parteintegrante del teatro e avesse sempre finito per preva-lere sull’elemento drammatico e lirico. Cosí era avve-nuto anzitutto nel teatro barocco, dove la solennità dellarappresentazione, gli scenari, i costumi, le danze e le sfi-late spesso soverchiavano tutto il resto. La cultura bor-ghese della monarchia di luglio e del Secondo Impero,una cultura da villan rifatti, nel teatro cercava il monu-

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mentale, l’imponente, e della grandezza tanto piú esa-gerava l’apparenza quanto piú gliene mancava l’intimosenso. Sappiamo che due diversi impulsi spingono lasocietà alla cerimonia, alla forma grandiosa e pretenzio-sa: il bisogno di magnificenza come sua naturale formadi vita, e la smania del colossale come ipercompensa-zione di un difetto sentito piú o meno dolorosamente.Il Barocco secentesco rifletteva la grandiosità connatu-rata alla corte e all’aristocrazia dell’era assolutistica; lopseudo-barocco ottocentesco riflette l’ambizione che laborghesia giunta al potere ha di una grandiosità delgenere. L’opera fu il suo genere preferito, perché megliodi ogni altro si prestava all’ostentazione, alla parata,allo sfarzo, all’accumulo e all’esagerazione degli effetti.Il tipo attuato da Meyerbeer includeva tutte le attratti-ve spettacolari creando un insieme eterogeneo di musi-ca, canto e danza, fatto per l’occhio come per l’orecchio,e in cui tutti gli elementi miravano ad abbagliare e sba-lordire lo spettatore. L’opera di Meyerbeer era un gran-de programma di varietà, la cui unità stava piú nel ritmodel dinamismo scenico, che nell’assoluta prevalenza dellamusica59. Era uno spettacolo destinato a un pubblico chenon aveva nessuna intima disposizione alla musica.

L’idea dell’«opera d’arte totale» si affermò qui moltotempo prima di Wagner, ed espresse un’esigenza primaancora che si pensasse a una sua formulazione pro-grammatica. Wagner cercò di giustificare la complessanatura dell’opera attraverso l’analogia con la tragediagreca, che in realtà non era che un oratorio; ma il desi-derio di una tal giustificazione nasceva dalla baroccamolteplicità del genere, che dopo Meyerbeer minaccia-va di diventare sempre piú «informe e privo di stile».Il grand-opéra, cui sono ancora legati i Maestri cantori el’Aida, e che rappresenta una convenzione anche piúrigida dell’antica opera italiana60, poté affermarsi perchéla cultura della borghesia francese era esemplare per

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tutto il continente e dappertutto rispondeva a schietteesigenze radicate nella realtà sociale. Nulla vi si ade-guava meglio dell’arte di Meyerbeer, che organizzavatutti i mezzi a sua disposizione – l’orchestra gigantesca,l’immenso palcoscenico, il grande coro – in un insiemeche voleva soltanto imporsi, sopraffare e soggiogare. Aciò mirava anzitutto il grande finale, che spesso riuscí atrovare nuovi effetti visivi e musicali, che non avevanonulla di comune con la profonda umanità del finalemozartiano, né con la danzante grazia di quello rossi-niano. Quel che noi chiamiamo di solito «operistico» –la monumentalità scenografica, l’enfasi vacua, il tonan-te eroismo, il falso pathos, il linguaggio artificioso – nonè tuttavia creazione di Meyerbeer, né appartiene unica-mente a questo genere di spettacolo. Persino un artistadi gusto così castigato come Flaubert non è del tuttoesente da teatralità. Essa fa parte dell’eredità romanti-ca di quella generazione, e al suo sviluppo Victor Hugocontribuí non meno di Meyerbeer.

Fra tutti i grandi musicisti del tempo RiccardoWagner è quello piú vicino allo stile operistico diMeyerbeer: e non solo perché cerca di legarsi alla vitateatrale del tempo, ma anche perché nessuno piú di luitiene al successo. Egli accetta la convenzione domi-nante senza intima opposizione e, come è stato giusta-mente osservato, solo a poco a poco trova una sua ori-ginalità, percorre cioè uno sviluppo contrario a quellosolito che in genere parte da un’esperienza individua-le, da una scoperta personale e finisce in maniera61. Maassai piú sorprendente dei suoi rapporti con il grand-opéra, è in Wagner la fedeltà a una forma che unisce l’e-spressione dei sentimenti piú intimi, fervidi ed elevati,con il fasto del Secondo Impero. Infatti non solo ilRienzi e il Tannhaüser sono opere ancora pienamentecoreografiche in cui predomina l’apparato scenico, maanche i Maestri cantori e il Parsifal sono in certa misura

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spettacoli musicali che vogliono impegnare tutti i sensie superare tutte le aspettative. L’amore della grandio-sità e della massa è forte in Wagner quanto in Meyer-beer e in Zola; e, come Victor Hugo e Dumas, egli ènato per il teatro, è un «istrione», un «mimomane»,come disse Nietzsche62. Ma questa sua teatralità nonviene dalle sue opere, anzi queste non sono che espres-sione del suo indiscriminato gusto teatrale e della suanatura sonora, tutta ostentazione. Come Meyerbeer,Napoleone III, la Païva o Zola, anch’egli ama l’ecces-sivo, il prezioso, il voluttuoso; e le sue opere ricordanoi salotti di allora, pieni di tappeti e di portiere, di mobi-li rivestiti di seta, velluto, broccato d’oro, anche quan-do non si sappia ch’egli voleva gli scenari dipinti daMakart63. La sua smania di magnificenza ed esuberan-za ha origini complicate; ci sono elementi che risalgo-no non soltanto a Makart, ma anche a Delacroix. Frala Morte di Sardanapalo e il Crepuscolo degli Dei corro-no stretti rapporti come tra il fasto del grand-opéra pari-gino e i festival di Bayreuth. Ma neppure questo esau-risce l’argomento; non solo il sensualismo di Wagner èpiú elementare dell’avidità di fasto, ma anche piú genui-no e spontaneo di tutto il misticismo di quel tempo,espresso dalla formula: «il sangue, la voluttà e lamorte». Non per nulla l’opera sua apparve per molti deipiú raffinati spiriti del secolo la quintessenza dell’arte,il paradigma da cui essi traevano il senso e il principiodella musica. Certo essa fu l’ultima e forse la maggiormanifestazione del romanticismo, l’unica sua forma tut-tora viva, l’unica che ne riveli pienamente l’effetto ine-briante sui contemporanei, che vi ravvisarono il rifiu-to di ogni convenzione e la scoperta di un misteriosomondo sepolto. È comprensibile, benché sulle primesorprendente e in definitiva spiegabile solo col genera-le clima del tempo, che Baudelaire, che per natura eraalieno dalla musica, ma è il solo fra i contemporanei di

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Wagner che sappia comunicarci quello stesso senso difelicità che sgorga dalla musica del Tristano, sia anchestato il primo a riconoscere l’importanza dell’artewagneriana. Wagner ha in comune con Baudelaire, oltrealla grande eccitabilità nervosa, la passione per l’ipno-si e per i mezzi ipnotizzanti, i sentimenti quasi religio-si e il romantico desiderio di redenzione. E a Flaubert,oltre il debole per i colori ardenti e le forme esuberan-ti, lo unisce il geniale dilettantismo e l’atteggiamentoriflesso verso l’opera propria. Anche l’ingegno diWagner, come quello di Flaubert, manca di sponta-neità e di naturalezza, ed alle sue opere egli arriva attra-verso una lotta quasi altrettanto violenta e disperata econ un’uguale diffidenza verso l’arte. A ventott’anninessuno fra i grandi maestri era cosí cattivo musicistacome lui, osserva Nietzsche, e nessun grande artista,eccettuato Flaubert, dubitò cosí a lungo del propriotalento. Per entrambi l’arte fu il martirio di tutta l’esi-stenza, entrambi sentivano ch’essa li separava dallavita, e consideravano invalicabile l’abisso tra arte erealtà, tra l’avoir e il dire. Appartenevano alla stessagenerazione di quei tardi romantici che lottavano inces-santemente e disperatamente contro il proprio egoismodi esteti.

1 Cfr. il discorso di Tocqueville all’Assemblea nazionale citato dapaul louis, Histoire du socialisme en France, 3a ed., 1936, II, p. 191.

2 Ibid., pp. 200-1.3 Ibid., p. 197.4 pierre martino, Le Roman réaliste sous le Second Empire, 1913,

p. 85.5 a. thibaudet, Histoire de la littérature française de 1789 à nos

jours, 1936, p. 361.6 émile bouvier, La Bataille réaliste, 1913, p. 237.7 jules coulin, Die sozialistische Weltanschauung in der französischen

Malerei, 1909, p. 61.

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8 é. zola, La République et la littérature, 1879.9 oliver larkin, Courbet and his Contemporaries, in «Science and

Society», III, 1939, I, p. 44.10 é. bouvier, La Bataille réaliste cit., p. 248.11 Cfr. léon rosenthal, La Peinture romantique, 1903, pp. 267-268.

- henri focillon, La Peinture aux xixe et xxe siècles, 1928, pp. 74-101.12 h. j. hunt, Le Socialisme et le romantisme en France, 1935, pp.

342-44.13 Cfr. la lettera a Victor Hugo del 15 luglio 1853, in Correspon-

dance, ed. Conard, III, 1910, p. 6.14 Ibid., II, pp. 116-17, 366.15 Ibid., III, pp. 120, 390.16 e. e j. de goncourt, Journal, 29 gennaio 1863, ed. Flammarion-

Fasquelle, II, p. 67.17 gustave flaubert, Correspondance, III, pp. 485, 490, 508. - L’É-

ducation sentimentale, II, 3 [trad. it., L’educazione sentimentale, Tori-no 1949]. - ernest seillière, Le Romantisme des réalistes: GustaveFlaubert, 1914, p. 257. - eugen haas, Flaubert und die Politik, 1931,p. 30.

18 Lettera a Mlle Leroyer de Chantepie del 18 Maggio 1857, in Cor-respondance, III, p. 119.

19 eugène gilbert, Le Roman en France pendant le 19e siècle, 1909,p. 157.

20 Correspondance, III, pp. 157, 448, ecc. 21 «Le Moniteur», 4 Maggio 1857. - Causeries du Lundi, XIII.22 é. zola, Les Romanciers naturalistes, 1881, 2a ed., pp. 126-29. 23 Correspondance, II, p. 182, III, p. 113. 24 Ibid., II, p. 112. 25 a. thibaudet, Gustave Flaubert, 1922, p. 12.26 Correspondance, II, p. 155. 27 g. lukäcs, Die Seele und die Formen (Theodor Storm oder die Bür-

gerlichkeit und l’art pour l’art), 1911. - t. mann, Betrachtungen einesUnpolitischen, 1918, pp. 69-70.

28 georg keferstein, Bürgertum und Bürgerlichkeit bei Goethe, 1933,pp. 126-22

29 Correspondance, I, p. 238, settembre 1851.30 Ibid., IV, p. 244, dicembre 1875.31 Ibid., III, p. 119.32 é. faguet, Flaubert, 1913, p. 145.33 Correspondance, II, p. 237.34 Ibid., III, p. 190.35 Ibid., p. 446.36 Ibid., II, p. 70.37 Ibid., p. 137.

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38 Ibid., III, p. 440.39 Ibid., II, p. 133, 140-41, 336.40 jules de gaultier, Le Bovarysme, 1902.41 édouard maynial, Flaubert, 1943, pp. 111-12.42 paul bourget, Essais de psychologie contemporaine, 1885, p. 144. 43 Correspondance, I p. 289.44 g. lukàcs, Die Theorie des Romans, 1920, p. 131.45 é. zola, Le Roman expérimental, 1880, 2e ed., pp. 24, 28.46 charles-brun, Le Roman social en France au 19e siècle, 1910, p. 158. 47 andré bellessort, La Société française sous le second Empire, in

«La Revue Hebdomadaire», 1932, 12, pp. 290, 292.48 francisque sarcey, Quarante ans de théâtre, I, 1900, pp. 120,

122.49 Ibid., pp. 209-12. 50 J.-J. weiss, Le Théâtre et les mœurs, 1889, pp. 121-22. - Cfr. la

prefazione di Renan ai Drames philosophiques, 1888. 51 a. thibaudet, Gustave Flaubert cit., 295 sgg. 52 sarcey, Quarante ans de théâtre cit., V, p. 94.53 Ibid., p. 286.54 Cfr. jules lemaitre, Impressions de théâtre, I, 1888, p. 217.55 sarcey, Quarante ans de théâtre cit., VI, 1901, p. 180.56 s. kracauer, Jacques Offenbach und das Paris seiner Zeit, 1937,

p. 349.57 Ibid., p. 270.58 Cfr. fleury-sonolet, La Société du second Empire, III, 1913,

p. 38759 paul bekker, Wandlungen der Oper, 1934, p. 86.60 lionel de la laurencie, Le Gotit musical en France, 1905, p. 292.

- william l. crosten, French Grand Opera, 1948, p. 106.61 a. einstein, Music in the Romantic Era cit., p. 231.62 friedrich nietzsche, Der Fall Wagner, 1888. Nietzsche contra

Wagner, 1888.63 Cfr. t. mann, Betracktungen eines Unpolitischen, 1918, p. 75. -

Leiden und Größe der Meister, 1935, pp. 145 sgg.

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Capitolo terzo

Il romanzo sociale in Inghilterra e in Russia

La rivoluzione industriale ebbe in Inghilterra i suoiinizi e in Inghilterra raggiunse gli sviluppi piú fecondi esuscitò le piú forti e appassionate proteste. Ma le accu-se non impedirono alle classi dirigenti di opporsi con lamassima energia e con pieno successo alla rivoluzionesociale. Mentre in Francia una parte degli intellettuali edei letterati, dopo le esperienze della Rivoluzione, comin-ciò ad assumere un atteggiamento antidemocratico, qui,dopo il fallimento dei tentativi rivoluzionari, l’orienta-mento degli intellettuali rimase, se non sempre rivolu-zionario, in complesso radicale. Tuttavia una differenzafondamentale divise le élites dei due paesi: mentre gliintellettuali francesi erano e rimasero fortemente razio-nalisti, comunque fossero orientati rispetto alla rivolu-zione e alla democrazia, gli inglesi invece, nonostante leloro tendenze radicali e la loro opposizione all’indu-strialismo, spesso anzi perché contrari alla società domi-nante, si orientarono verso un disperato irrazionalismorifugiandosi nel nebuloso idealismo dei romantici tede-schi. Cosa strana, in Inghilterra i capitalisti e i fautoridell’utilitarismo erano piú profondamente legati alla filo-sofia illuministica che non i loro avversari che negavanoil principio della libera concorrenza e della divisione dellavoro. Dal punto di vista della storia delle idee, in ognicaso, gli idealisti nemici delle macchine erano i reazio-

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nari, mentre materialisti e capitalisti rappresentavano ilrazionalismo e il progresso.

La libertà economica e il liberalismo politico aveva-no comuni radici storiche; erano entrambi conquistedell’illuminismo e logicamente erano inscindibili. Par-tendo dalla libertà personale e dall’individualismo, sidovette accettare la libera concorrenza come parte inte-grante dei diritti dell’uomo. L’emancipazione della bor-ghesia fu un passo necessario nella liquidazione del feu-dalesimo e a sua volta postulò l’affrancarsi dell’econo-mia dai vincoli e dalle restrizioni del Medioevo. La con-quista della parità dei diritti da parte della borghesia sispiega soltanto come risultato di un processo in cui leforme dell’economia precapitalistica furono via via supe-rate. Solo dopo che l’economia ebbe raggiunto una com-pleta autonomia e le classi medie si furono liberate deirigidi vincoli del sistema feudale, si poté pensare allaliberazione della società dall’anarchia della libera con-correnza. Ed era inoltre del tutto vano combattere sin-gole manifestazioni del capitalismo senza rimettere indiscussione l’intero sistema. Finché l’economia capita-listica non fu revocata in dubbio, fu possibile soltantoparlare di attenuazioni filantropiche dei suoi abusi. L’at-tenersi ai principî razionalistici e liberali era l’unica viaper mettervi riparo; occorreva soltanto allargare il con-cetto di libertà oltre i limiti borghesi. Invece l’abban-dono della ratio e dell’idea liberale, per quanto buona eonesta ne fosse l’intenzione, doveva portare a un incon-trollabile intuizionismo e a una specie di minorità del-l’intelletto. Questo pericolo, sempre presente in Carly-le, minaccia l’idealismo dei piú fra i pensatori vittoria-ni, e il proverbiale compromesso del tempo, la via dimezzo fra tradizione e progresso, non è mai cosí palesecome nel ribelle romantico, nostalgicamente volto alpassato. Nessuno dei vittoriani piú noti sfugge del tuttoal compromesso, e l’ambiguità che ne deriva pregiudica

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l’influsso politico anche di un radicale cosí schietto comeDickens. In Francia gli intellettuali si sentivano costret-ti a scegliere tra rivoluzione e politica borghese e, sespesso la scelta era legata anche a un dissidio dei senti-menti, era tuttavia chiara e definitiva. In Inghilterrainvece anche quella parte dei ceti intellettuali che siopponeva al capitalismo partiva spesso da una visionealtrettanto conservatrice, o perfino piú arretrata, diquella della borghesia capitalistica.

I seguaci dell’utilitarismo, che rappresentavano iprincipî dell’economia industriale, erano i discepoli diAdam Smith e i campioni della dottrina secondo cui l’e-conomia lasciata a se stessa rispondeva meglio d’ognialtra, non solo allo spirito del liberalismo, ma anche agliinteressi della comunità. Contro di loro si scatenaval’opposizione degli idealisti che batteva non tanto sullainsostenibilità della tesi quanto sul loro fatalismo nelrappresentare gli istinti egoistici come movente fonda-mentale e invariabile dell’azione, sulla necessità mate-matica con cui si credeva di poter dedurre le leggi del-l’economia e della società dall’egoismo umano. La pro-testa degli idealisti contro questa riduzione dell’uomoall’homo œconomicus era l’eterna protesta della roman-tica «filosofia della vita» – la fede cioè nella vita che nonsi può risolvere intera nella logica né costringere senzaresidui nella teoria – contro il razionalismo e il pensie-ro che astrae dall’immediata realtà. Fu questo un secon-do romanticismo, in cui la lotta contro l’ingiustizia socia-le e l’opposizione alla concretezza della dismal science[funesta scienza] ebbero parte assai minore della fuga dalpresente – di cui non si potevano e non si volevano risol-vere i problemi – nell’irrazionalismo dei Burke, deiColeridge e dei romantici tedeschi. L’invocazione a unintervento dello stato, specie in Carlyle, era segno a untempo di inclinazioni antiliberali, autoritarie, e di sen-timenti umanitari, altruistici; e nel suo lamento sull’a-

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tomizzarsi della società si esprimeva tanto il desideriodi comunione quanto la nostalgia di un capo diletto etemuto.

Passato il tempo migliore del romanticismo inglese,verso il 1815 comincia a diffondersi un razionalismoantiromantico, che culmina nella riforma elettorale del1832, nel nuovo Parlamento e nel trionfo della borghe-sia. Questa, giunta al potere, si fa sempre piú conser-vatrice e oppone alle aspirazioni democratiche una rea-zione che ha di nuovo un carattere essenzialmenteromantico. Accanto all’Inghilterra razionalistica si affer-ma un’Inghilterra sentimentale; e il capitalista indurito,di mente chiara e fredda, si mette a civettare con ideefilantropiche, umanitarie, riformistiche. La reazioneideale al liberismo, assume la forma di una questioneintima, di un autosalvataggio morale della borghesia; èopera cioè di quello stesso ceto che nella pratica rap-presenta il principio liberistico e nel compromesso vit-toriano crea quell’elemento che equilibra il materialismoe l’egoismo.

Gli anni fra il 1832 e il 1848 sono un tempo di acu-tissima crisi sociale, di torbidi e di lotte cruente tracapitale e lavoro. Dopo il Reform bill [riforma eletto-rale] il proletariato inglese ha avuto dalla borghesia lostesso trattamento di quello francese dopo il 1830. L’a-ristocrazia e il popolo sono cosí quasi uniti da un comu-ne destino contro lo stesso nemico, la borghesia capita-listica. Veramente è un legame effimero, che non puòcondurre mai a una vera comunione d’interessi né a fra-ternità d’armi, ma basta a velare la realtà agli occhid’un pensatore cosí emotivo come Carlyle e a trasfor-mare la sua lotta contro il capitalismo in un’esaltazioneromantico-reazionaria della storia. Mentre in Francial’odio contro la borghesia si esprime in un rigoroso esobrio naturalismo, in Inghilterra, dove dal Seicentonon si sono piú avute rivoluzioni e si ignorano le espe-

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rienze e le delusioni politiche dei francesi, si assiste alsorgere di un secondo romanticismo. Questo in Franciaverso la metà del secolo è già superato come movimen-to e l’ultima polemica intorno ad esso ha il carattere diuna questione piú o meno personale. In Inghilterra lecose vanno altrimenti; qui l’antagonismo tra tendenzerazionalistiche e irrazionalistiche non si limita ad esse-re un conflitto intimo, come in Flaubert, ma divide ilpaese in due campi, in realtà molto piú eterogenei delle«due nazioni» di Disraeli. Anche qui, come in tuttol’Occidente, la tendenza dominante è quella positivisti-ca, rispondente ai principî del razionalismo e del natu-ralismo. Non solo gli arbitri del potere politico ed eco-nomico, non solo i tecnici e gli studiosi, ma anche l’uo-mo comune e quello legato alla consuetudine del suomestiere, pensano da razionalisti e avversano la tradi-zione. La letteratura del tempo invece è pervasa diromantica nostalgia per il Medioevo e per un’Utopia incui non valgono le leggi dell’economia capitalistica, del-l’attività commerciale, della vita ormai prosaica e disin-cantata. Il feudalesimo di Disraeli è romanticismo poli-tico; il «movimento di Oxford», romanticismo religio-so; la critica alla civiltà di Carlyle, romanticismo socia-le; la filosofia artistica di Ruskin, romanticismo esteti-co: teorie e correnti tutte che negano il liberalismo e ilrazionalismo, e di fronte ai problemi del presente sirifugiano in un ordine superiore, sovrapersonale esovrannaturale, in una stabilità non soggetta all’anarchiadella società liberale e individualistica. La voce piú altae piú seducente è quella di Carlyle, il primo e il piú ori-ginale di quei flautisti acchiappatopi che aprono la viaai Mussolini e agli Hitler. Infatti, per quanto importantee fecondo sia stato, sotto certi aspetti, il suo influsso, etanto a lui debba anche l’epoca moderna nella sua lottaper una piú diretta rispondenza spirituale delle formedella civiltà, egli fu un confusionario, e con i fumi del

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suo entusiasmo per l’infinito e l’eterno, con la sua mora-le del superuomo e la mistica dell’eroe, annebbiò eoscurò i fatti per intere generazioni.

L’immediato erede di Carlyle è Ruskin, che deriva dalui gli argomenti contro il liberalismo e l’industrialismo,ripete le sue querele contro la civiltà moderna senz’ani-ma e senza Dio, partecipa alla sua esaltazione per ilMedioevo e la civiltà unitaria dell’Occidente cristiano.Ma egli trasforma l’astratto culto degli eroi in un cultodella bellezza pieno di significato, il vago romanticismosociale in un idealismo estetico volto a compiti concre-ti e fini esattamente definibili. Nulla prova l’opportu-nità storica e la concretezza delle teorie ruskiniane,meglio del fatto ch’egli poté divenire il portavoce di unmovimento cosí rappresentativo come il preraffaellismo.Le sue idee e i suoi ideali erano nell’aria: soprattutto ilrifiuto dell’arte rinascimentale, della forma grande, opu-lenta, autonoma e sovrana e il ritorno all’arte preclassi-ca, «gotica», alle rigide e ispirate espressioni dei «pri-mitivi»; erano i sintomi di una generale crisi della cul-tura, che abbracciava tutta la società. Le teorie diRuskin e l’arte dei preraffaelliti sorgono dallo stessoclima spirituale e rappresentano un’uguale protesta con-tro la convenzionale visione della vita e dell’arte chedomina l’Inghilterra vittoriana. Quello che Ruskinintende per degenerazione dell’arte a partire dal Rina-scimento, i preraffaelliti lo vedono e lo combattono nel-l’accademia del tempo. La loro lotta prende di mirasoprattutto il classicismo, il canone di bellezza dellascuola raffaellesca, cioè il vuoto formalismo e la mecca-nica levigatezza di un’arte, che la borghesia vuol porta-re come prova della sua rispettabilità, della sua moralepuritana, dei suoi alti ideali e del suo senso poetico. Laborghesia vittoriana ha la fissazione della «grande arte»1

e il cattivo gusto che domina nell’architettura, nella pit-tura e nelle arti «minori» è in sostanza la conseguenza

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di un autoinganno e di una presunzione che le impedi-scono un’espressione spontanea della sua natura.

La pittura vittoriana brulica di temi storici, poetici,aneddotici; è pittura «letteraria» per eccellenza, un’ar-te ibrida, in cui, del resto, piú che l’abbondanza di moti-vi letterari è deplorevole la penuria di valori pittorici. Èsoprattutto la paura di ogni sensualità e spontaneità adimpedire che qui si diffonda lo schietto, rigoglioso pit-toricismo dei francesi. Ma la natura, scacciata dallaporta, rientra dalla finestra. Nella collezione Chantrey,singolare monumento del mal gusto vittoriano, c’è unquadro in cui una giovane suora, rinunziando al mondo,ne rifiuta perfino le vesti. Affatto nuda, essa è inginoc-chiata davanti all’altare, nella penombra notturna diuna cappella, e mostra ai monaci che stan dietro di leile forme seducenti del suo tenero corpo. Non si puòimmaginare cosa piú penosa di un tal quadro, che appar-tiene alla peggiore, perché meno sincera, specie di por-nografia.

La pittura preraffaellita è letteraria e «poetica» cometutta l’arte vittoriana; ma ai soggetti che di per sé nonsi prestano ad essere perfettamente risolti in pittura,essa unisce certi valori pittorici, spesso non soltantoattraentissimi, ma anche nuovi. Allo spiritualismo vit-toriano, ai soggetti storici, religiosi, letterari, alle alle-gorie morali e ai simboli fiabeschi essa unisce un sen-sualismo che si esprime nella gioia del minuto partico-lare, nel gioco di contraffare ogni stelo, ogni piega. Que-sta precisione non riflette soltanto il generale naturali-smo dell’arte europea, ma anche un’etica del lavoro pro-pria della borghesia, che vede un criterio di valore arti-stico nell’irreprensibile mestiere, nell’esecuzione accu-rata degli antichi maestri. Seguendo questo ideale del-l’arte vittoriana, i preraffaelliti accentuano la periziatecnica, l’abilità mimetica, la perfezione dell’ultimamano. I loro quadri sono politi quanto quelli degli acca-

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demici, e il contrasto tra i preraffaelliti e gli altri pitto-ri vittoriani ci appare molto minore di quello che si notatra naturalisti e accademici in Francia. I preraffaellitisono idealisti, moralisti, erotici impauriti, come la mas-sima parte dei vittoriani. Hanno dell’arte lo stesso con-cetto contraddittorio, tradiscono lo stesso imbarazzo, lestesse inibizioni nel dare espressione artistica alla loroesperienza, e tale è l’impaccio puritano di fronte almezzo espressivo, che le loro opere fanno sempre l’ef-fetto di un timido, benché geniale dilettantismo. Que-sta distanza fra l’artista e l’opera aggrava l’aspetto arti-gianale proprio della pittura preraffaellita. Perciò essaappare cosí artefatta, manierata, leggiadra e affettata eha sempre in sé qualcosa di stilizzato e irreale, che ricor-da gli ingegnosi arabeschi dei tappeti. Il tono del moder-no simbolismo, prezioso, intellettualistico e, nonostan-te la sua natura lirica, freddo; l’acerba grazia e l’ango-losità un po’ ricercata dei neoromantici; il ritegno, la stu-diata ritrosia, l’ermetismo dell’arte sullo scorcio del seco-lo risalgono in parte a questa stilizzazione.

Il preraffaellismo è un movimento estetizzante, unestremo culto della bellezza, un tentativo di dar valorealla vita richiamandosi all’arte. Ma anch’esso, al paridella filosofia di Ruskin, non può indentificarsi con l’artpour l’art. La tesi che il supremo valore dell’arte consi-sta nell’espressione di «un animo buono e grande»2

rifletteva la persuasione di tutti i preraffaelliti. Essierano certo degli edonisti mancati, ma vivevano nellafede che il loro gioco formale avesse un fine superiore,la virtú di elevare e di educare. In loro, estetismo emoralismo erano in aperta contraddizione, come arcai-smo e minuzia naturalistica dei particolari3. La stessacontraddizione vittoriana è patente anche negli scritti diRuskin; il suo intellettualistico entusiasmo per l’artenon sempre si può conciliare con il suo messaggio socia-le, che vede possibile la perfetta bellezza solo in una

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comunità retta da solidarietà e giustizia. Una grande arteè l’espressione di una società moralmente sana; neltempo materialista della macchina fatalmente intristi-scono il senso della bellezza e la facoltà di creare valorid’arte. La stereotipa accusa contro la moderna societàcapitalistica di uccidere l’anima con l’impronta dellamoneta e con i suoi metodi meccanici di produzione, giàl’aveva lanciata Carlyle; Ruskin non fa che ripetere leparole del predecessore. E neppure il lamento sulla deca-denza dell’arte è nuovo. Anzi è antico quanto la leg-genda dell’età dell’oro l’atteggiamento verso l’arte con-temporanea, che la considera inferiore a quella del pas-sato e pretende di vedere in essa i segni della stessa deca-denza che affligge i costumi. Ma finora nel declino del-l’arte non si era mai scorto il sintomo di una malattia cheminasse tutto l’organismo sociale, né mai prima diRuskin il legame organico fra l’arte e la società era statovisto con tanta chiarezza4. Senza dubbio egli fu il primoa concepire lo scadere dell’arte e del gusto come segnodi una generale crisi della civiltà e ad enunciare il prin-cipio, fondamentale anche se neppure oggi abbastanzaapprezzato, che si debbono mutare anzitutto le condi-zioni di vita se si vuole suscitare nell’uomo il senso dellabellezza e la comprensione dell’arte. Questa scoperta loindusse ad abbandonare la storia dell’arte per l’econo-mia politica; e, riconoscendo il materialismo di questascienza, si scostò dall’idealismo di Carlyle. InoltreRuskin fu il primo in Inghilterra a sostenere ferma-mente che l’arte è di pubblico interesse e che il favorir-la è uno dei compiti piú importanti dello stato; che, inaltre parole, essa è necessaria alla società e nessunanazione può trascurarla senza pericolo per la sua vitaintellettuale. Infine egli fu il primo a proclamare che l’ar-te non è privilegio di artisti, esperti e persone colte, maretaggio e proprietà di tutti. Tuttavia egli non era unsocialista, anzi neppure un vero democratico5. La plato-

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nica repubblica dei filosofi, nella quale la bellezza e lasaggezza erano i principî informatori, era la forma piúvicina al suo ideale, e quanto al suo «socialismo» si limi-tava ad asserire che l’uomo è educabile e ha diritto allacultura. Secondo lui, la vera ricchezza non consiste nelpossesso di beni materiali, ma nella capacità di goderela bellezza della vita e dell’arte. Questo quietismo este-tico e il rifiuto di ogni violenza sono i limiti del suo rifor-mismo6.

William Morris, il terzo di quelli che si occupano dicritica della cultura nell’epoca vittoriana, è assai piúcoerente in teoria e progredito nella pratica, di Ruskin.Per certi riguardi egli di fatto è il piú grande7, cioè il piúaudace, il piú intransigente dei vittoriani, benché nonsappia liberarsi del tutto dalle contraddizioni e dai com-promessi. Ma dalla teoria ruskiniana sul legame fataledell’arte con la società egli ha saputo trarre l’estremaconseguenza, giungendo alla persuasione che «fare deisocialisti» fosse piú urgente che fare della buona arte.L’idea di Ruskin che l’inferiorità dell’arte moderna, ildeclino della cultura artistica, il cattivo gusto del pub-blico non fossero che sintomi di un male piú profondoed esteso, egli la sviluppò fino in fondo, e comprese cheera insensato voler migliorare l’arte e il gusto, lascian-do immutata la società. Egli sapeva che è inutile cerca-re d’influire direttamente sullo sviluppo artistico e cheal massimo si possono creare condizioni sociali che nepermettano una migliore comprensione. Egli era per-fettamente consapevole della lotta di classe, nelle cuiforme si svolge il processo sociale e quindi anche l’evo-luzione artistica, e considerava il compito piú impor-tante renderne conscio il proletariato8. Benché chiare suifatti fondamentali, le teorie e le esigenze di Morris con-tengono tuttavia, come si è detto, numerose contraddi-zioni. Nonostante il suo realismo nel concepire la natu-ra e la funzione sociale dell’arte, egli è un romantico

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invaghito del Medioevo e del suo ideale di bellezza.Predica la necessità di un’arte fatta dal popolo e per ilpopolo, ma resta un dilettante fallito e fa cose che soloi ricchi possono comprare e solo i colti godere. Eglisostiene che l’arte nasce dal lavoro, dall’esercizio delmestiere, ma non riconosce l’importanza del massimo epiú pratico strumento della produzione moderna, la mac-china. La fonte delle contraddizioni fra la sua dottrinae la sua attività d’artista va cercata nel tradizionalismopiccolo-borghese con cui i suoi maestri, Carlyle eRuskin, giudicano l’epoca della tecnica, e nel loro pro-vincialismo da cui, egli non sa liberarsi del tutto.

Ruskin deduceva la decadenza dell’arte dal fatto chela moderna fabbrica, con il suo metodo di produzionemeccanica e la sua divisione del lavoro, impedisce allavoratore un intimo rapporto con l’opera sua, cioè privail lavoro di una sua anima ed estrania il produttore dalprodotto delle sue mani. La lotta contro l’industrialismoveniva a perdere in lui il significato di lotta contro il pro-letarizzarsi delle masse per trasformarsi in romanticoentusiasmo per qualcosa che non poteva ripetersi, cioèper il lavoro artigianale, l’industria casalinga, le corpo-razioni, insomma le forme medievali di produzione. Ilmerito di Ruskin è di aver additato la bruttezza dell’arteapplicata dell’età vittoriana, e, di fronte ai materialispuri, alla forma assurda e all’esecuzione rozza e a buonmercato, di aver richiamato alla memoria dei suoi con-temporanei il fascino del lavoro a mano, solido e accu-rato. Il suo influsso fu vastissimo, quasi inestimabile. Illavoro nell’ambito di un’officina relativamente piccola,in cui i rapporti fra i lavoratori conservassero un carat-tere personale, in cui il lavoro a mano fosse assoluta-mente prevalente e ogni lavoratore attendesse a un’o-pera singola, completa, divenne l’ideale della modernaproduzione artistica e artigiana. Il carattere pratico esolido dell’architettura e dell’arte industriale moderna

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sono in gran parte il risultato degli sforzi e dell’inse-gnamento di Ruskin. Ma il loro effetto immediato fuquello di provocare un culto esagerato del lavoro amano, che misconosceva i compiti e le possibilità del-l’industria meccanica, e di destare una speranza chedoveva andare delusa. Era romanticismo, irrazionali-smo della peggior specie credere che le conquiste tecni-che, sorte da reali bisogni e in vista di concreti vantag-gi economici, potessero venire semplicemente respinte.Era quanto mai ingenuo voler fermare lo sviluppo tec-nico ed economico con polemiche e proteste. Ruskin ei suoi discepoli avevano ragione in quanto effettiva-mente gli uomini vennero a perdere il dominio sullamacchina, la tecnica si rese indipendente e, specie nelcampo dell’arte industriale, produsse gli oggetti piúrepellenti e privi di gusto; ma essi dimenticavano che perdominare la macchina non c’era altra via che accettarladi buon grado e sottoporla allo spirito.

L’errore stava anzitutto nella troppo angusta defini-zione della tecnica, nel disconoscere la natura tecnica diogni concreta produzione, di ogni applicazione pratica,di ogni contatto con la realtà obiettiva. All’arte occor-re sempre un espediente materiale, tecnico, uno stru-mento, una «macchina»; ed è cosa tanto evidente che siè potuto vedere appunto in questo suo carattere media-to, nella natura materiale dei suoi mezzi, nel suo condi-zionamento tecnico uno dei suoi caratteri piú essenzia-li. Forse l’arte è proprio la piú sensibile, la piú tangibi-le «manifestazione» dello spirito e già come tale è lega-ta a qualcosa di concreto, a una tecnica, a uno stru-mento, sia questo il telaio a mano o il telaio meccanico,il pennello o la macchina da presa, il violino o – pernominar qualcosa di veramente orribile – la macchinadel sonoro. Perfino la voce umana – e anche l’apparatocanoro di un Caruso – è uno strumento materiale e nullapiú. L’anima si versa nell’anima, direttamente, d’un

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tratto, senza strumento alcuno, solo nell’estasi mistica,nella felicità d’amore, nella compassione – forse soltan-to nella compassione – ma non mai nell’esperienza diun’opera d’arte.

Tutta la storia dell’arte si può rappresentare come uncontinuo rinnovarsi, ampliarsi e perfezionarsi dei mezzitecnici dell’espressione, e il suo normale e regolare svi-luppo può definirsi come un processo di piena utilizza-zione e dominio di essi, come un armonico equilibrio trail potere e il volere, tra i mezzi e l’intento artistico. Ilristagno intervenuto in tale sviluppo con la rivoluzioneindustriale, il vantaggio acquistato dall’evoluzione tec-nica su quella intellettuale, non vanno tanto attribuitialla maggior complicazione ed efficienza delle macchineche si cominciavano a usare, quanto al ritmo assunto dal-l’evoluzione tecnica sotto l’impulso della congiunturaeconomica, un ritmo cosí rapido da non poter essereseguito dallo sviluppo intellettuale. In altre parole, colo-ro che avrebbero potuto trasferire nella produzione mec-canica la tradizione dell’artigiano, i maestri indipen-denti e i loro aiuti, vennero esclusi dalla vita economi-ca, prima che avessero potuto adattare ai nuovi metodile antiche tradizioni del loro mestiere. Cioè l’equilibriofra evoluzione tecnica ed evoluzione intellettuale fu tur-bato da una crisi dell’organizzazione e non già da uncambiamento fondamentale nella natura della tecnica:nelle industrie che si erano sviluppate dal vecchio arti-gianato scarseggiarono a un tratto gli esperti.

Morris condivideva i pregiudizi di Ruskin contro laproduzione meccanica come il suo entusiasmo per illavoro a mano, ma fu assai piú razionale e progressistadel maestro nel giudicare la funzione della macchina.Egli rimproverava alla società del suo tempo l’abusodella tecnica, ma già sapeva come in certe circostanzequesta potesse diventare una benedizione per l’uma-nità9.

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Il suo ottimismo socialista si manifestava anche inquesta speranza, fondata sul progresso tecnico. Secon-do la sua definizione, l’arte esprime la gioia del lavoro10;per lui essa non è soltanto una fonte di felicità, manasce da un senso di felicità. Il suo vero valore sta nelprocesso creativo; nell’opera l’artista gode della propriaproduttività ed è la gioia del lavoro a generare l’arte.Questa autogenesi è invero piuttosto misteriosa e accu-sa un deciso influsso di Rousseau, ma non è piú misticané piú romantica dell’idea che nel macchinismo vede lafine dell’arte.

I fenomeni sociali intorno a cui si affatica la criticadell’arte e della cultura nell’epoca vittoriana formanoanche l’argomento del romanzo inglese del tempo.Anche questo s’impernia sul problema, che Carlyle hachiamato «della condizione inglese», e descrive i rap-porti sociali sorti dalla rivoluzione industriale. Ma essosi rivolge a un pubblico piú composito di quello della let-teratura critica, ha un carattere piú eterogeneo e parlaun linguaggio piú vario, meno scelto. Cerca di interes-sare ceti in cui non sono mai penetrate le opere di Carly-le e di Ruskin, e vuol conquistarsi lettori per i quali leriforme sociali non siano soltanto questione di coscien-za, ma di vita. Ma poiché questi lettori sono una mino-ranza, il romanzo rimane principalmente orientatosecondo gli interessi dell’alta e media borghesia, e servedi sfogo ai conflitti morali, che la lotta di classe suscitanei vincitori. Lo stimolo può venire, come per Disraeli,da nostalgiche fantasie patriarcali e feudali, o da unideale di vita cristiano-sociale, come per Kingsley e MrsGaskell, oppure (ed è il caso di Dickens), dalla preoc-cupazione per l’immiserirsi della piccola borghesia; masi finisce sempre con l’accettare in sostanza l’ordinecostituito. Tutti cominciano con i piú aspri attacchi allasocietà capitalistica, ma alla fine ne accolgono le pre-

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messe in un quadro ottimistico o quietistico, come sevolessero metterne a nudo e combatterne gli abusi sol-tanto per evitare profondi cambiamenti rivoluzionari. InKingsley la tendenza conciliativa dà luogo a un apertomutamento di opinioni, in Dickens è velata dall’atteg-giamento radicale del poeta, che va spostandosi semprepiú a sinistra. Una parte degli scrittori simpatizza conle classi piú elevate, un’altra con gli umiliati e gli offe-si, ma non ci sono fra loro veri rivoluzionari. Nel casomigliore essi oscillano fra impulsi schiettamente demo-cratici e la persuasione che, nonostante tutto, le distin-zioni di classe siano giustificate e abbiano un beneficoeffetto. Le differenze tra loro sono, comunque, d’im-portanza secondaria in confronto alle analogie del loroconservatorismo filantropico11.

Il moderno romanzo sociale sorge anche in Inghil-terra, come in Francia, intorno al 1830 e fiorisce neglianni torbidi fra il 1840 e il 1850, quando il paese è sul-l’orlo della rivoluzione. Anche qui esso diventa la mas-sima espressione letteraria di quella generazione per laquale le mete e i valori della società borghese sono pro-blematici e vuol spiegarsene la rapida ascesa e l’incom-bente sfacelo. Ma nel romanzo inglese i problemi discus-si sono piú concreti e generali, meno intellettualistici eraffinati che in quello francese; la posizione dello scrit-tore è piú umana, piú generosa, ma insieme piú conci-liante e opportunistica.

Disraeli, Kingsley, Mrs Gaskell e Dickens sono iprimi discepoli di Carlyle e sono tra quegli scrittori chepiú prontamente ne accettano le idee12. Sono irraziona-listi, idealisti, favorevoli all’intervento dello Stato,scherniscono l’utilitarismo e l’economia nazionale, con-dannano il liberalismo e l’industrialismo, pongono i lororomanzi al servizio della lotta contro il principio del lais-sez faire e l’anarchia economica, che per essi ne è la con-seguenza. Prima del 1830, il romanzo mai si era pre-

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sentato come interprete di una tal tendenza, benché inInghilterra il romanzo moderno già con Defoe e conFielding avesse assunto carattere «sociale». Esso si col-legava ai saggi di Addison e Steele ben piú direttamen-te e profondamente che al romanzo pastorale e amoro-so di Sidney e di Lyly, e i suoi primi maestri dovetteroagli stimoli del giornalismo l’attenzione per le questio-ni di attualità e la sensibilità per i problemi sociali delgiorno. È vero che questa s’attutí alla fine del primogrande periodo del romanzo inglese, ma non vennemeno del tutto. Il romanzo nero e sensazionale, che sisostituí alle opere di Fielding e di Richardson nel favo-re del pubblico, non aveva diretto rapporto con la realtàsociale, e neppure con la realtà in genere, e d’altrondenei romanzi di Jane Austen la realtà sociale era, sì, il ter-reno da cui nascevano i personaggi, ma non costituivacerto un problema, che la scrittrice tentasse di risolve-re o di interpretare. Solo con Walter Scott il romanzoridiventa «sociale», benché in tutt’altro senso che inDefoe, Fielding, Richardson o Smollet. In Scott ladipendenza dei personaggi dallo sfondo sociale è assaipiú chiaramente sentita che nei suoi predecessori; egli limostra sempre come esponenti di una classe, ma il suoquadro della società è assai piú astratto e programmati-co di quello del romanzo settecentesco. Egli fonda unanuova tradizione e solo vagamente discende dalla lineadi Defoe, Fielding, Smollet. Invece Dickens, che suc-cede immediatamente allo scozzese, soprattutto in quan-to è il miglior narratore e l’autore piú popolare del suotempo, si ricollega proprio a quella linea poiché, sebbe-ne discepolo di Walter Scott – e chi non lo è, fra iromanzieri della prima metà del secolo? – è assai piúvicino alla forma picaresca degli antichi autori che allostile drammatico del suo maestro. Dickens si riannodaal Settecento anche per la tendenza morale e didatticadell’arte sua; oltre la tradizione picaresca di Fielding e

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Sterne, egli riprende l’indirizzo filantropico di Defoe edi Goldsmith, che Scott aveva trascurato13. La sua popo-larità si spiega soprattutto con la ripresa di entrambequelle tradizioni letterarie per cui egli è in grado dirispondere ai gusti del nuovo pubblico, sia con la varietàpicaresca, sia con il tono sentimentale e morale delle sueopere.

In Inghilterra, fra il 1816 e il 1850, si pubblicano inmedia cento romanzi all’anno14; e i libri editi nel 1853,in prevalenza opere narrative, sono il triplo di quellipubblicati venticinque anni prima15. Vi è un reciprocorapporto di causa ed effetto fra l’aumento dei lettori ela diminuzione del prezzo dei libri. Il pubblico lettera-rio, formatosi nel Settecento, si accrebbe a un tratto conlo sviluppo delle biblioteche circolanti; ma queste, se rin-vigorirono l’attività editoriale, non ridussero i prezzi deilibri. Anzi, la loro crescente richiesta contribuiva a sta-bilizzarli a un livello relativamente alto. Un romanzo, disolito in tre volumi, costava una ghinea e mezza, sommache solo pochissimi potevano spendere per quello scopo.Quindi la letteratura amena difficilmente superava lacerchia degli abbonati alle biblioteche. Un mutamentofondamentale nella composizione e nell’ampiezza delpubblico si verificò soltanto quando i romanzi comin-ciarono a uscire in fascicoli mensili. Il pagamento ratea-le, benché riducesse il prezzo solo di un terzo, permisea molti, che fino allora non compravano libri, di acqui-starsi le opere degli autori prediletti. La pubblicazionedi romanzi a dispense mensili rappresentò quindi un’in-novazione commerciale, che in sostanza corrispondevaall’uso del romanzo d’appendice ed ebbe analoghe con-seguenze sociali e artistiche. Una di esse fu il ritorno allaforma picaresca.

Dickens, i cui successi segnano anche il trionfo deinuovi metodi editoriali, gode di tutti i vantaggi e soffredi tutti gli inconvenienti che derivano dall’ampia diffu-

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sione della letteratura. Il continuo contatto con il granpubblico lo aiuta a trovare uno stile popolare nel sensomigliore; egli è di quegli artisti non molto numerosi chesono grandi appunto perché popolari. Alla fedeltà delsuo pubblico e al senso di sicurezza di cui lo riempie ladevozione dei lettori egli deve il suo grande stile epico,il tono costante del suo linguaggio e quel suo creare inmodo spontaneo, schietto, quasi ingenuo, che può dirsiunico nell’Ottocento. Veramente il carattere popolaredel suo stile spiega solo in parte la sua grandezza, poi-ché Alexandre Dumas ed Eugène Sue sono altrettantopopolari, senza esser grandi. E ancor meno la sua gran-dezza spiega il suo successo, perché Balzac è incompa-rabilmente piú grande, altrettanto facile, eppure assaimeno fortunato, benché le condizioni esteriori in cuicrea le sue opere siano perfettamente analoghe. Gliinconvenienti della popolarità sono invece molto piúfacili da spiegare. La fedeltà verso i lettori, la solidarietàspirituale con la moltitudine ingenua e il desiderio dimantenere la cordialità di tale rapporto lo spingono adattribuire un valore assoluto a quei mezzi che trovanoeco nell’emotività delle masse, e a credere quindi nel-l’infallibile istinto e nel gran cuore del pubblico16. Nonavrebbe mai ammesso che siano sovente in rapportoinverso il pregio di un’opera e il numero di coloro chese ne sentono commossi. Ci sono certi mezzi che rie-scono a muoverci al pianto, benché poi ci si vergogni dinon aver resistito alla loro suggestione «universalmenteumana». Sul destino degli eroi di Omero, Sofocle,Shakespeare, Corneille, Racine, Voltaire, Fielding, JaneAusten, Stendhal e Flaubert, noi non versiamo lacrime;invece Dickens suscita la stessa facile, compiaciuta com-mozione con cui reagiamo alla maggior parte degli odier-ni film.

Dickens è uno dei piú fortunati scrittori di tutti itempi, e forse il piú popolare fra i grandi dell’età moder-

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na. Certo è l’unico vero poeta, dall’età romantica in qua,la cui opera non nasca in contrasto con il suo tempo, intensione con l’ambiente e risponda invece perfettamen-te alle aspirazioni del pubblico. Egli gode di una popo-larità mai raggiunta dopo Shakespeare, probabilmenteanaloga a quella degli antichi mimi e giullari. Il mondodi Dickens è cosí totale e senza incrinature, perché eglinon ha bisogno di fare concessioni quando parla al suopubblico, e il suo orizzonte è altrettanto ristretto, il suogusto altrettanto indiscriminato e la sua fantasia altret-tanto ingenua, sebbene incomparabilmente piú ricca, diquella dei suoi lettori. Molto giustamente Chestertonosserva che, a differenza di Dickens, gli odierni scritto-ri popolari hanno sempre la sensazione di dover abbas-sarsi al livello del loro pubblico17. Tra loro e il lettore esi-ste una frattura altrettanto sensibile, anche se diversa dicarattere e assai meno giustificata, che tra i veri poeti eil pubblico medio del tempo. Nulla di simile perDickens. Non soltanto egli è il creatore della piú gran-de galleria di figure che, impresse nell’animo di ogni let-tore inglese, ne popolano il mondo fantastico, ma il suointimo rapporto con esse è identico a quello del pubbli-co. I beniamini del lettore sono anche i suoi ed egli parladella piccola Nell o del piccolo Dombey con lo stessoaffetto e lo stesso tono ingenuo di qualsiasi vecchiettoo vecchia zitella.

La serie dei trionfi per Dickens cominciò con la primagrande opera, Il circolo Pickwick che, a partire dallaquindicesima dispensa, si vendette in quarantamila copie.Questo successo determinò la forma editoriale in cuidoveva svilupparsi per venticinque anni la letteraturaamena inglese. L’autore, divenuto a un tratto celebre,non perdette mai piú il suo ascendente. Il mondo non sisaziava di leggere i suoi libri; ed egli lavorava febbril-mente, senza tregua, quasi come Balzac, per rispondereall’enorme richiesta. Questi due colossi si fanno riscon-

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tro: sono gli esponenti della stessa congiuntura lettera-ria, i fornitori dello stesso pubblico affamato di libriche, dopo gli sconvolgimenti di un mondo pieno di fer-menti rivoluzionari e di delusioni, cerca nel mondo fit-tizio dei romanzi un surrogato della realtà, una guida nelcaos della vita, e un conforto per le illusioni perdute. MaDickens diventa piú popolare di Balzac. Favorito dallavendita a dispense mensili a buon mercato, egli conqui-sta alla letteratura un pubblico completamente nuovo,gente che prima non leggeva mai romanzi, e di fronte alquale i lettori della piú antica narrativa fanno l’effetto diveri intellettuali, Una donna di servizio narra che nel suocasamento c’era l’abitudine di riunirsi, il primo lunedí diogni mese, nell’alloggio di un tabaccaio a prendere il tè,pagando una piccola quota; quindi il padron di casa leg-geva ad alta voce l’ultimo fascicolo di Dombey, e alla let-tura venivano ammessi gratis tutti gli inquilini dello sta-bile18. Dickens fu un produttore di letteratura amenaper le masse, il continuatore del vecchio romanzo nero el’inventore del moderno «giallo»19; insomma, l’autore dilibri che, a prescindere dal valore poetico, corrispondo-no perfettamente ai nostri best-sellers. Ma sarebbe unerrore credere ch’egli scrivesse i suoi romanzi soltantoper le masse incolte o di scarsa cultura; una parte dell’altaborghesia e perfino degli intellettuali lo leggevano conentusiasmo. I suoi romanzi erano adeguati ai tempi, arteattuale, come per noi quella del film; e, anche per chi èben conscio dei suoi difetti, essa ha l’inapprezzabile valo-re di cosa viva e volta all’avvenire.

Fin dall’inizio Dickens, tanto come gusto quantocome ideologia, fu l’esponente della nuova letteraturaprogressista. Egli riusciva a interessare anche dove nonpiaceva, e si trovavano divertenti i suoi romanzi anchese non riusciva gradito il suo messaggio sociale. La suaarte si poteva separare dalla politica. Egli si scagliava conparole infiammate contro le colpe della società, contro

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la spietata albagia dei ricchi, la durezza ottusa dei giu-dici, il crudele trattamento dei bambini, le condizioniinumane nelle prigioni, nelle fabbriche e nelle scuole,insomma contro la brutalità propria di ogni organizza-zione istituzionale. Le sue accuse rimbombavano all’o-recchio di tutti ed empivano i cuori dell’angoscioso sen-timento di un’ingiustizia imputabile a tutta la società.Ma non si andava oltre il grido d’allarme e la soddisfa-zione che si prova quando ci si è sfogati a gridare. Il mes-saggio sociale del poeta non portò frutti in politica e lasua filantropia non fu sempre vantaggiosa per l’arte.Essa approfondí la sua penetrazione psicologica, masuscitò anche un sentimentalismo atto a velargli lo sguar-do. Il suo confuso atteggiamento umanitario, il suo«cheeriblismo» [fratelli Cheeryble sono figure filantro-pi del Nicola Nickleby], la sua fiducia che la beneficen-za privata e la bontà dei ricchi possano rimediare ai malidella società nascevano, in conclusione, da un difetto dichiarezza nella sua concezione sociale, che ne faceva unpiccolo-borghese indeciso fra l’una e l’altra classe. Eglinon riuscí mai a superare la violenta scossa della sua fan-ciullezza, l’esperienza di chi era stato gettato fuori delceto medio, ai limiti del proletariato, e si sentí sempreun decaduto, o in procinto di diventarlo20. Era in fondoun filantropo radicale, un liberale amico del popolo, unappassionato avversario dei conservatori, ma non unsocialista né un rivoluzionario: al massimo, un piccolo-borghese ribelle, un umiliato che non dimenticò maiquel che gli era toccato in gioventú21. E per tutta la vitaegli rimase il piccolo-borghese che credeva di doverscongiurare non solo un pericolo dall’alto, ma ancheuno dal basso. Egli sentiva e pensava da piccolo-bor-ghese e i suoi ideali erano quelli della piccola borghesia:la vita era fatta di lavoro, di sforzo, di risparmio, pergiungere alla sicurezza, alla tranquillità e alla rispetta-bilità; la felicità consisteva nel modesto benessere, nel-

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l’idillio di una vita al riparo dal mondo ostile, nel cer-chio familiare, nel rifugio di una camera ben riscaldata,di un’accogliente locanda o della diligenza che ti con-duce a una meta sicura.

Dickens è incapace di superare le intime contraddi-zioni della sua visione sociale. Da un lato egli accusa lasocietà nel modo piú amaro, ma dall’altro sottovaluta laportata del male, perché rifiuta di riconoscerla22. Inrealtà egli si attiene ancora al principio: «Tutto per ilpopolo – nulla con il popolo», e non riesce a liberarsi dalpregiudizio che il popolo sia incapace di governarsi23.Egli teme la «plebaglia» e identifica il «popolo» in sensoideale con il ceto medio. Flaubert, Maupassant e i Gon-court, benché conservatori, sono ribelli irriducibili;Dickens invece, benché politicamente progressista eoppositore, è un pacifico borghese che accetta senz’al-tro i presupposti del dominante capitalismo. Egli cono-sce soltanto i fardelli e le pene della piccola borghesia ecombatte contro mali a cui si può rimediare senza scuo-tere le basi della società. Della condizione del proleta-riato, della vita nelle grandi città industriali egli non saquasi nulla, e sul movimento dei lavoratori ha molte ideestorte. Solo la sorte dell’artigiano, del piccolo esercen-te, dei garzoni e degli apprendisti lo preoccupa. Le esi-genze della classe operaia, la grande forza del futuro incontinuo accrescimento, non fanno che impaurirlo. Leconquiste tecniche del suo tempo non lo interessano inmodo particolare e lo spirito romantico con cui egli ade-risce alle forme di vita tradizionali è molto piú profon-do e spontaneo dell’entusiasmo di Carlyle e di Ruskinper i conventi e le Arti del Medioevo. Di fronte all’a-more di Balzac per la grande città, le innovazioni, il tec-nicismo, questo atteggiamento appare inerzia, meschi-nità provinciale. Nelle opere tarde, specie in Tempi dif-ficili, la sua concezione forse si amplia: il problema dellacittà industriale vi è ormai presente, e il destino della

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classe lavoratrice è discusso con crescente interesse. Tut-tavia il quadro ch’egli si fa dell’intima struttura del capi-talismo rimane insufficiente e limitato ed ingenuo è ilgiudizio sui fini del movimento proletario. Del resto ètipicamente piccolo-borghese la sua idea che l’agitazio-ne socialista sia tutta demagogia e lo sciopero non sia chericatto!24. La simpatia dell’autore va al bravo StephenBlackpool, che non ha preso parte allo sciopero e, peratavica, canina fedeltà, si sente irresistibilmente, benchéassai velatamente, solidale con il padrone. La «moraledel cane» in Dickens ha una parte importante. Quantopiú un atteggiamento è lontano dalla posizione matura,critica di un intellettuale, tanto maggiore comprensionee simpatia trova in Dickens. I semplici, gli incolti glisono sempre piú vicini della gente colta, e i bambini, piúdegli adulti.

Dickens fraintende del tutto la lotta fra capitale elavoro; non capisce che si tratta del contrasto di dueforze inconciliabili e che non basta la buona volontà delsingolo a comporre il dissidio. La verità evangelica chel’uomo non vive di solo pane non suona molto persua-siva in un romanzo che appunto descrive la lotta del pro-letariato per il pane quotidiano. Ma Dickens non puòrinunziare alla sua puerile fiducia nella possibilità diconciliare le classi. Egli si culla nell’illusione che senti-menti di patriarcale filantropia da una parte, e unapaziente abnegazione dall’altra possano assicurare lapace sociale. Predica la rinunzia alla violenza, perchéritiene che rivolta e sovversione siano mali peggiori del-l’oppressione e dello sfruttamento. Non è mai arrivatoa parole cosí dure come il famoso «meglio l’ingiustiziache il disordine» solo perché era meno audace di Goethee meno chiaro verso se stesso. Egli trasforma il sano,schietto egoismo dell’antica borghesia in un intrugliozuccherino di «filosofia natalizia», che Taine caratte-rizza benissimo: «Siate buoni e amatevi; il sentimento

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del cuore è l’unica vera gioia... Lasciate la scienza aidotti, l’orgoglio ai nobili, il lusso ai ricchi...»25. Dickensnon sapeva quanto fosse duro il nocciolo di quel mes-saggio d’amore e quanto cara sarebbe costata la sua paceai piú deboli. Ma lo sentiva e le intime contraddizionidella sua visione si riflettono chiaramente nei gravidisturbi nervosi che lo affliggono. Il mondo di questoapostolo di pace non è certo un mondo pacifico e inno-cente. Il suo beato sentimentalismo spesso non è che lamaschera di una spaventosa crudeltà, l’umorismo è unsorriso fra le lacrime, il buonumore combatte con unasoffocante angoscia, dietro i lineamenti delle sue figurepiú bonarie si cela una smorfia, il decoro borghese con-fina sempre con la criminalità, lo scenario del suo dilet-to mondo patriarcale è un sinistro ripostiglio di roba vec-chia, la sua immensa vitalità, la sua gioia di vivere staall’ombra della morte e la sua fedeltà al vero è una feb-brile allucinazione. Questo vittoriano apparentementecosí decoroso, corretto, rispettabile si rivela un disperatosurrealista in preda a sogni angosciosi.

Dickens non è soltanto un rappresentante del verismoe del naturalismo, non solo un perfetto maestro, di petitsfaits vrais, ma proprio l’artista a cui il naturalismo dellaletteratura inglese deve le piú importanti conquiste.Tutto il romanzo inglese moderno deriva da lui l’arte diricreare l’ambiente, di disegnare i caratteri, di condur-re i dialoghi. In realtà però tutti i personaggi di questonaturalista sono caricature, tutti i tratti della vita sonocalcati, esagerati, spinti all’estremo, tutto diventa unfantastico spettacolo di marionette, di ombre cinesi,tutto si trasforma in situazioni e rapporti da melo-dramma, stilizzati, semplificati, stereotipi. Le sue figu-re piú attraenti sono veri e propri pazzi, i suoi piú inno-cui piccoli borghesi sono degli originali impossibili, deimonomani, dei coboldi; i suoi ambienti accuratamentedisegnati fanno l’effetto di scenari romantici, e tutto il

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suo naturalismo sbocca sovente nel fantasma crudo etagliente del sogno. Le peggiori assurdità di Balzac risul-tano piú logiche di molte delle visioni dickensiane. Leinibizioni e i compromessi vittoriani favoriscono in luilo sviluppo di uno stile affatto senza equilibrio, incon-trollato, «nevrotico». D’altronde non sempre le nevro-si sono complicate, e Dickens effettivamente non avevain sé nulla di complicato e differenziato. Non solo erafra i meno colti scrittori inglesi, non solo era altrettan-to indotto e di scarse letture che un Richardson o unaJane Austen; ma, a differenza specialmente di quest’ul-tima, era primitivo e per certi aspetti ottuso, veramen-te un bambino insensibile ai piú profondi problemi dellavita. Non aveva nulla in sé dell’intellettuale, e del restoagli intellettuali non era molto favorevole. Se gli avve-niva di descrivere un artista o un pensatore, se ne pren-deva gioco. Di fronte all’arte manteneva la diffidenzadel puritano, aggiungendovi l’incomprensione e l’ostilitàdel prosaico borghese; egli la considerava propriamentecome qualcosa di superfluo, anzi dissoluto. Questa suaavversione era peggio che borghese, era piccolo-borghe-se e filistea. Egli rifiutava ogni rapporto con artisti,poeti e simili fanfaroni, come se volesse provare anchecosí la propria solidarietà con il suo pubblico26.

Nell’epoca vittoriana il pubblico letterario era giàdiviso in due sfere ben distinte e Dickens, benché aves-se i suoi fedeli anche fra le classi elevate, era conside-rato l’autore del pubblico incolto e di facile contenta-tura. Questa divisione esisteva fin dal Settecento, e difronte a Defoe e a Fielding si può ritenere che fosseRichardson a interpretare il gusto della borghesia piúraffinata; tuttavia i lettori di Defoe, Fielding e Richard-son erano in complesso le stesse persone. Invece dopoil 1830 il divario di cultura tra i due ceti si fece assai piúsensibile, e il pubblico di Dickens poteva distinguersiabbastanza nettamente da quello di Thackeray e di Trol-

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lope, benché molti lettori appartenessero all’uno e all’al-tro. Evidentemente anche nel Settecento c’erano colo-ro che si potevano identificare piú facilmente e perfet-tamente con gli eroi e le eroine di Richardson, altriinvece con quelli di Fielding; ma ora la distinzione è piúnetta: c’è chi non può assolutamente sopportare Dickense chi non riesce quasi a capire Thackeray o GeorgeEliot. La presenza – accanto al pubblico colto e dotatodi senso critico – di lettori altrettanto assidui, ma chenella letteratura cercano solo un leggero e fugace diver-timento, è un fenomeno tipico dei nostri giorni, ma eraignoto prima dell’età vittoriana. Il pubblico della lette-ratura amena era per lo piú un pubblico di lettori occa-sionali; i lettori assidui e regolari non si trovavano chetra le persone colte. Ma ai tempi di Dickens, propriocome oggi, la letteratura amena ha già due gruppi diver-si di clienti. Quei tempi si distinguono dai nostri inquanto allora il romanzo popolare comprendeva le operedi un Dickens, amate anche da molti che pur sapevanoapprezzarne anche di piú raffinate27; mentre oggi labuona letteratura è fondamentalmente non popolare equella popolare non è per la gente di gusto.

L’esposizione universale del 1851 segna una svoltanella storia d’Inghilterra; a differenza del primo perio-do vittoriano, il successivo è un tempo di prosperità edi pacificazione. L’Inghilterra diventa l’«officina delmondo», i prezzi salgono, le condizioni dei lavoratorimigliorano, il socialismo è reso inoffensivo, il poterepolitico della borghesia si consolida. Veramente i pro-blemi sociali non vengono risolti, ma semplicementesmussati. La catastrofe del 1848 ha provocato una sortadi stanchezza e passività nei ceti progressisti e cosí ancheil romanzo perde la sua aggressiva intolleranza. Thacke-ray, Trollope e George Eliot non scrivono piú «roman-zi sociali» come quelli di Kingsley, Mrs Gaskell eDickens. Essi disegnano grandi quadri della società, ma

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di rado discutono i problemi del giorno, e rinunziano adiffondere una tesi politico-sociale. Per George Eliot, lacui concezione è assai caratteristica dell’atmosfera intel-lettuale del tempo28, la realtà sociale non è piú in primopiano, sebbene, come per Jane Austen, sia l’elementovitale in cui si muovono i personaggi diventando l’un perl’altro fatali. Suo tema costante è l’interdipendenza degliuomini, il campo magnetico ch’essi creano intorno a sé,e di cui intensificano la potenza con ogni azione e ogniparola29; essa mostra che nella società moderna nessunopuò vivere isolato, autonomo30, e il suo è in questo sensoun romanzo sociale. Ma l’accento è mutato: la società èsí una realtà positiva, che tutto abbraccia, ma anche unfatto che si accetta e non si discute.

George Eliot significa nella storia del romanzo ingle-se una svolta verso l’introversione. Gli avvenimenti piúimportanti sono nella sua opera di natura intellettuale emorale, e la scena delle grandi lotte fatali è l’anima, l’in-timo, la coscienza morale degli uomini. Il suo è quindiun romanzo psicologico31. Anziché avvenimenti e avven-ture esteriori, questioni e conflitti sociali, al centro del-l’azione stanno un problema e una crisi morale. I suoieroi sono anime pensose, per cui le esperienze dellamente e della coscienza morale hanno l’immediatezza difatti fisici. I romanzi della Eliot sono saggi psicologico-filosofici, che in certa misura si accostano a quell’idealedel romanzo a cui miravano i romantici tedeschi. Tutta-via si tratta di un’arte già diversa dal romanticismo, anziil primo tentativo fortunato di sostituirne i valori intel-lettuali e morali con altri, fondamentalmente antiro-mantici. I romanzi di George Eliot hanno un nuovo con-tenuto intellettuale e passionale che si era perduto daltempo del classicismo. Anziché su esperienze sentimen-tali di natura irrazionale, l’opera si impernia su un atteg-giamento, che l’autrice stessa chiama «passione intellet-tuale»32. Analisi e interpretazione della vita, conoscenza

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e comprensione dei valori intellettuali, ecco il vero argo-mento dei suoi romanzi. Comprendere è la parola che viricorre sempre33; un atteggiamento vigile, responsabile,severo con se stesso, e l’esigenza sempre ribadita: «Ilsegno della vocazione e dell’elezione è la rinunzia all’op-pio, la sopportazione del dolore con piena coscienza edocchi aperti», essa scrive in una lettera del 186034.

Solo nell’opera di un autore cosí profondamente lega-to alla vita intellettuale del proprio tempo come Geor-ge Eliot, poteva esprimersi il destino di nature cosíriflessive, con i suoi problemi e le sue contraddizioni, lesue tragedie e le sue sconfitte, giungendo all’immedia-tezza e alla forza, che troviamo in Middlemarch. I miglio-ri pensatori dell’Inghilterra di allora, i piú progressisti– Mill, Spencer, Huxley – sono amici di George Eliot;essa traduce Feuerbach e D. F. Strauss, ed è al centrodel movimento razionalista e positivista. Un severosenso critico, che la tiene lontana da ogni atteggiamen-to superficiale e da ogni credulità e che impronta il suoatteggiamento morale, caratterizza tutto il suo pensie-ro. Fra i romanzieri inglesi è la prima a saper descrive-re adeguatamente un intellettuale. Nessun altro con-temporaneo sa parlare di un artista o di uno studiososenza renderlo ridicolo e senza cader nel ridicolo. Ancheper Balzac gli intellettuali sono esseri strani, esotici, chelo gettano in un ingenuo stupore e lo inducono a un sor-riso piú o meno bonario. Accanto a George Eliot, eglifa la figura di un autodidatta semicolto, anche se, comenel Chef-d’œuvre inconnu, apre prospettive piú ampie epiú profonde di quelle concesse all’arte della scrittriceinglese. La forza di Balzac sta nella rappresentazionedella vita, quella di George Eliot nell’analisi. Essa cono-sce per propria esperienza il tormento di chi lotta conproblemi intellettuali, conosce o intuisce le tragedielegate alle sconfitte dello spirito, altrimenti non avreb-be mai potuto creare una figura cosí originale come il

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dottor Casaubon35. Solo grazie a quest’intima disposi-zione essa può giungere a un nuovo ideale di vita e a unanuova concezione della «vita mancata», arricchendo diun tipo nuovo la serie di quei «falliti» a cui apparten-gono per lo piú gli eroi del romanzo moderno.

L’intellettualismo di George Eliot non è tuttavia lacausa reale dello svolgersi del romanzo sociale in sensopsicologico, ma è solo il sintomo di un generale proces-so che provoca un recedere dei problemi sociali di fron-te a quelli psicologici. Il romanzo psicologico è il gene-re letterario degli intellettuali in quanto ceto colto in viadi emancipazione dalla borghesia, come il romanzosociale era quello di una intellettualità ancora in com-plesso solidale con essa. Solo al principio del secondoperiodo vittoriano gli intellettuali si presentano inInghilterra come un gruppo libero, «indipendente»36, «aldi là di ogni distinzione di classe»37, «mediatore» fra leclassi38. Fino a quel momento non c’era stato un «cetointellettuale» conscio di una propria autonomia socialee ribelle alla borghesia. A questa il ceto colto rimanelegato fino a che la borghesia non lo lascia andare per lasua strada. Questo processo di separazione tra la lette-ratura progressista e la borghesia conservatrice, che eracominciato con il romanticismo, cessò quando i roman-tici divennero conservatori. Gli scrittori del primo perio-do vittoriano propugnavano riforme all’interno dellasocietà borghese, ma non pensarono mai a distruggerla.E neppure la borghesia li aveva mai considerati comeestranei, né come traditori; anzi ne seguiva la criticasociale e culturale con simpatia e benevolenza. Nella vitadella società borghese l’intellettuale esercitava una fun-zione della cui importanza le classi dominanti erano piúo meno consapevoli. Era la valvola di sicurezza che evi-tava le esplosioni e dava sfogo alle tensioni interne dellaborghesia, rivelando conflitti di coscienza che minac-ciavano di venire repressi.

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Soltanto dopo la vittoria sulla Rivoluzione e la scon-fitta del cartismo, la borghesia si sentí cosí sicura del suopotere che non ebbe piú conflitti di coscienza né rimor-si e credette di poter fare a meno di critiche. I gruppiculturali e specialmente gli scrittori perdettero in que-sto modo il senso di avere una missione nella società. Sividero esclusi da quella classe di cui fino allora eranostati gli interpreti, e si sentirono affatto isolati tra i cetiincolti da un lato e dall’altro la borghesia che non avevapiú bisogno di loro. Cosí questi gruppi, prima profon-damente radicati nella borghesia, furono portati amutarsi nel ceto sociale, che noi chiamiamo degli «intel-lettuali». Veramente questa fu solo l’ultima fase dellungo processo di graduale affrancamento degli espo-nenti della cultura da quelli del potere. L’umanesimo el’illuminismo erano state le prime tappe su questa via,emancipando la cultura sia dal dogma e dalla Chiesa, chedall’egemonia del gusto aristocratico. La Rivoluzionefrancese aveva segnato la fine del monopolio culturaledei due ceti superiori e aperta la strada a quello dellaborghesia, che con la monarchia di luglio sembra defi-nitivamente assicurato. Verso la metà del secolo l’epo-ca rivoluzionaria si conclude con il distacco della cultu-ra dalle classi dominanti e l’avvio alla formazione di unvero e proprio ceto degli intellettuali.

Il ceto degli «intellettuali» trae origine dalla borghe-sia e ha i suoi precursori in quell’avanguardia che avevapresieduto al maturare della Rivoluzione francese. Lacultura è per loro illuministica e liberale, il loro idealedi umanità è quello della personalità libera, progressiva,sciolta da vincoli tradizionali. Quando la borghesiaallontana da sé gli intellettuali e questi abbandonano laclasse d’origine, a cui li legano innumerevoli fili, si com-pie un processo veramente innaturale, assurdo. L’e-mancipazione degli intellettuali può considerarsi unafase della generale specializzazione, un aspetto cioè di

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quel processo di astrazione che dopo la rivoluzione indu-striale abolisce i nessi «organici» tra i diversi ceti, tra levarie professioni e i vari campi culturali; ma può ancheinterpretarsi come una diretta reazione a quel processo,come un tentativo di attuare l’ideale dell’uomo comple-to, versatile, che integra in sé tutti i valori culturali.L’apparente indipendenza degli intellettuali dalla bor-ghesia, e quindi da ogni vincolo sociale, corrispondeall’illusione che lo spirito trascenda le classi, illusionecomune a borghesi e intellettuali. Questi vogliono cre-dere al carattere assoluto della verità e della bellezza,perché in questo modo vengono ad essere gli esponentidi una verità «superiore» e possono compensare la loromancanza d’influsso sociale; quelli tollerano la pretesadegli intellettuali di essere al di sopra delle classi, per-ché cosí credono di veder dimostrata l’esistenza di valo-ri universali e la possibilità di superare i contrasti di clas-se. Ma la scienza per la scienza o la verità per la verità,non meno che l’art pour l’art, sono solo una conseguen-za dell’estraniarsi dell’intellettuale dalla vita pratica.L’idealismo implicito in questo atteggiamento esige chela borghesia superi il suo odio per la cultura, ma gl’in-tellettuali da parte loro vi esprimono soprattutto la lorogelosia per la potenza dei borghesi. Il risentimento degliuomini di cultura contro i loro padroni non è nuovo; giàgli umanisti avevano sofferto di questo conflitto da cuiderivavano i ben noti sintomi nevrotici del loro com-plesso d’inferiorità. Ma era forse possibile per una clas-se, che si credeva in possesso, della verità, non provareodio e gelosia contro quella che possedeva tutta la poten-za economica e politica? Nel Medioevo il monopoliodella «verità» l’aveva il clero, a cui non mancavano imezzi per esercitare il potere nella politica e nell’eco-nomia. Tale coincidenza evitava i fenomeni patologici,che seguirono piú tardi alla divisione di queste sfered’autorità.

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A differenza del clero medievale, il moderno cetodegli intellettuali si recluta da classi varie per censo emestiere e di esse rappresenta gli interessi e le vedute,diverse e spesso antagonistiche. Questo rafforza in loroil senso di essere al di sopra dei conflitti di classe e dirappresentare la viva coscienza della società. La loroorigine promiscua li rende piú sensibili ai limiti dellevarie ideologie e forme di cultura, e inasprisce il tonodella loro critica sociale a cui già si sentivano chiamatifin dal tempo della loro alleanza con la borghesia. Finda principio il loro compito era stato di chiarire le pre-messe dei valori culturali e furono loro a dare chiara for-mulazione alle idee che stavano all’origine della conce-zione borghese, ad assicurare coerenza ideologica a quel-lo che semplicemente era un senso della vita; in unmondo pratico essi adempirono alla funzione del pen-siero contemplativo, dell’introversione e della sublima-zione; furono insomma i portavoce dell’ideologia bor-ghese. Ma, allentati ormai i loro vincoli con la borghe-sia, quella che un tempo era una censura che la classedominante imponeva a se stessa, si trasforma in una cri-tica distruttiva, il principio della dinamica e del rinno-vamento si muta in un principio di anarchia. Comeparte della classe borghese, gli intellettuali avevano aper-to la via alle riforme; abbandonandola, diventano fomi-te di rivolta e disgregazione. Fin verso il 1848, rappre-sentano ancora lo spirito d’avanguardia della borghesia,dopo il 1848 consciamente o inconsciamente diventanoi campioni della classe lavoratrice. La precarietà dellaloro esistenza li porta a sentire una certa comunione didestino con il proletariato, e questo senso di solidarietàaccresce la loro costante disposizione a cospirare controla borghesia, contribuendo a preparare la rivoluzionecontro il capitalismo.

Nella bohème l’affinità fra intellettuali e proletaria-to va ben oltre i limiti di questa generica simpatia. Anzi,

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il bohémien è parte del proletariato. In certo modo eglirappresenta la figura compiuta, e insieme anche la cari-catura dell’«intellettuale». Infatti se la bohème eman-cipa l’intellettuale dalla borghesia, fa anche in modoche la lotta contro le convenzioni borghesi diventi un’i-dea fissa, spesso quasi una mania di persecuzione.Attuando l’ideale di una concentrazione esclusiva suifini intellettuali, l’intellettuale trascura gli altri valoridella vita e toglie ogni significato a questa vittoria dellospirito sulla vita. L’indipendenza del mondo borghese sirivela una libertà apparente, poiché l’intellettuale senteil proprio isolamento come una colpa grave, se pureinconfessata; la sua arroganza copre in realtà una debo-lezza; il suo esagerato orgoglio, un dubbio sulla propriaforza creativa. In Francia quest’evoluzione e piú rapidache in Inghilterra, dove a mezzo il secolo con Ruskin,J. S. Mill, Huxley, George Eliot e il loro seguito appaio-no i primi rappresentanti di un «pensiero libero», «indi-pendente», ma dove per il momento non si può parlarené di una svolta verso la rivoluzione proletaria, né delcostituirsi di una bohème. I vincoli con la borghesia quisono ancora cosí stretti che gli intellettuali preferisconorifugiarsi in un «aristocratico moralismo»39 piuttostoche far causa comune con le masse. Anche George Eliotconcepisce essenzialmente come una questione psicolo-gico-morale quel che in realtà è un problema sociologi-co, e i suoi romanzi cercano nella psicologia la rispostaa quesiti, che soltanto il sociologo può risolvere. Cosíessa abbandona il sentiero che il romanzo russo invecepercorre, trovandovi la sua perfezione.

Il moderno romanzo russo è essenzialmente operadell’intelligencija russa, cioè di quell’élite che si considerascissa dalla Russia ufficiale e per letteratura intendeanzitutto critica della società e per romanzo il romanzo«sociale». Come semplice genere ameno o pura analisi

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psicologica, senza pretese d’importanza e di utilità socia-le, il romanzo è un genere ignoto in Russia fin verso il1880. La nazione è in tal fermento e fra i lettori è cosíevoluta la coscienza politica e sociale, che un principiocome l’art pour l’art qui non può certo affermarsi. InRussia l’intellettuale implica sempre l’attivista, ben piúlegato che in Occidente all’opposizione democratica. Inazionalisti conservatori non possono in alcun modoessere annoverati fra questi intellettuali intransigenti,esclusivi, settari40, e gli stessi maestri maggiori delromanzo russo, specialmente Dostoevskij e Tolstoj, solocon riserva vi possono rientrare; per altro il loro atteg-giamento critico verso la società è legato al pensierodell’intelligencija, e la loro arte partecipa alla sua operadistruttiva, anche se personalmente non vogliono avernulla di comune con essa41.

Tutta la moderna letteratura russa nasce dallo spiri-to dell’opposizione. La sua prima fioritura si deve all’at-tività poetica della nobiltà progressista e cosmopolita,che mira ad affermare le idee dell’illuminismo e dellademocrazia contro il dispotismo degli zar. La nobiltàliberale e occidentalizzante è, al tempo di Pu∫kin, l’u-nico gruppo colto della società russa. È vero che con ilsorgere del capitalismo commerciale e industriale la clas-se dei lavoratori della mente, finora composta soprat-tutto di funzionari e di medici, si allarga sensibilmentegrazie ai nuovi tecnici, avvocati e giornalisti42; ma la let-teratura rimane dominio esclusivo di ufficiali dell’ari-stocrazia, insoddisfatti del loro mestiere, che speranopiú nel libero mondo borghese che nel loro vacillantefeudalesimo43. Sconfitti i decabristi, la reazione, rinvi-gorita, riesce, sì, a sbaragliare i ribelli, ma non a evita-re la formazione di una nuova avanguardia politica e let-teraria – quella dell’intelligencija. Cosí nella letteraturarussa finisce l’egemonia della nobiltà, quasi esclusivafin verso il 1840. La morte di Pu∫kin conclude un’epo-

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ca: la funzione direttiva passa nelle mani dell’intelligen-cija e in complesso non vi sono deviazioni fino alla rivo-luzione bolscevica44.

Il nuovo ceto colto è un gruppo misto di nobili e ple-bei, che recluta spostati d’ogni classe. Lo compongonoi cosiddetti «nobili penitenti», idealmente ancora abba-stanza vicini ai decabristi, e i figli di piccoli commer-cianti, di funzionari subalterni, di preti di città e di serviemancipati, che di solito vengono indicati come «gentedi origine promiscua», e per lo piú conducono la vitaprecaria di «liberi artisti», giornalisti, studenti e pre-cettori. Fin verso la metà del secolo i plebei sono unaminoranza di fronte ai nobili, ma a poco a poco si fannopiú numerosi e finiscono con l’assorbire gli altri ele-menti. La parte piú importante l’hanno i figli dei sacer-doti, che da casa portano con sé una certa cultura e sen-sibilità intellettuale, ma, per la naturale opposizione trapadri e figli, sono i piú aspri nel manifestare l’ostilitàdell’intelligencija alla religione e alle tradizioni. In com-plesso essi sono quel che nel Settecento erano stati i figlidei pastori in Occidente, dove l’illuminismo aveva tro-vato condizioni analoghe a quelle della Russia prerivo-luzionaria. Non a caso, dunque, due dei massimi cam-pioni del razionalismo e del radicalismo russo,Cerny∫evskij e Dobroljubov, sono figli di preti e ven-gono dalla borghesia delle grandi città commerciali.

L’università di Mosca con le sue associazioni stu-dentesche e i suoi circoli culturali è il centro della nuovaintelligencija senza classi. Il contrasto tra l’antica resi-denza imperiale, scettica e dedita ai piaceri, popolata dialti funzionari e generali, e la moderna città universita-ria con la sua gioventú infiammabile e avida di sapere,sta all’origine di questa svolta culturale45. Lo studentepovero, che può contare solo su se stesso, è il prototipodel nuovo ceto intellettuale, come il nobile ufficialedella Guardia lo era dell’antica élite. La società colta di

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Mosca conserva ancora per qualche tempo un’improntasemiaristocratica, e fin verso il 1850 le discussioni filo-sofiche si tengono ancora per lo piú nei salotti46, ma que-sti non hanno piú un carattere esclusivo e a poco a pocoperdono d’importanza. Nel settimo decennio del secolola democratizzazione della letteratura e la costituzionedel nuovo ceto intellettuale sono ormai compiute. Dopol’emancipazione dei contadini questo si accresce note-volmente per l’afflusso di elementi della piccola nobiltàimpoverita; ma questi elementi non mutano piú nullaall’intima struttura del gruppo. I possidenti rovinatidebbono in parte vivere del loro lavoro intellettuale eadattarsi alle condizioni dell’intelligencija borghese. Seuna parte di essi va ad accrescere il numero degli occi-dentalisti, cosmopoliti e progressisti, un’altra parteaccresce quello degli slavofili, favorendo cosí l’equilibriofra i due gruppi.

Il movimento slavofilo, reazione intellettuale al razio-nalismo degli occidentalisti, corrisponde allo storicismoe al tradizionalismo romantico con cui, mezzo secoloprima, l’Occidente aveva reagito alla Rivoluzione. Glislavofili sono gli eredi indiretti, e per lo piú inconsci, diBurke, de Bonald, de Maistre, Herder, Hamann, Mösere Adam Müller, come gli occidentalisti sono discepoli diVoltaire e dell’Encyclopédie, dell’idealismo tedesco e,piú tardi, dei socialisti Saint-Simon, Fourier e Comte,o dei materialisti Feuerbach, Büchner, Vogt e Mole-schott. Di fronte al cosmopolitismo e al libero pensieroateo degli occidentalisti, gli slavofili insistono sul valo-re delle tradizioni religiose e nazionali e proclamano laloro mistica fede nel contadino russo e la loro devozio-ne alla Chiesa ortodossa. In contrasto con il razionali-smo e il positivismo, si dichiarano per l’idea irrazionaledell’«organico» sviluppo storico e presentano la vecchiaRussia con il suo «genuino cristianesimo» libero dal-l’individualismo occidentale, come l’ideale e la salvezza

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dell’Europa; mentre per gli occidentalisti, era l’Europal’ideale e la salvezza della Russia. La slavofilia è in séantichissima, anche piú antica dell’opposizione alle rifor-me di Pietro il Grande, ma ufficialmente comincia solocon la lotta contro Belinskij. Ad ogni modo l’avvio effet-tivo e il programma del movimento risalgono all’oppo-sizione contro «gli uomini del quinto decennio». Espo-nenti di questa slavofilia che presenta una sua defini-zione teorica e una sua consapevolezza programmaticadapprima sono specialmente nobili possidenti, ancoralegati a una vita feudale e che mascherano il loro con-servatorismo politico e sociale con l’ideologia della«santa Russia» e della «funzione messianica degliSlavi». Per lo piú il loro culto delle tradizioni naziona-li non è che un mezzo per combattere le idee progressi-ve degli occidentalisti, e il loro entusiasmo, rousseauia-no e romantico, per il contadino russo è solo la formaideologica del loro sforzo di mantenere condizioni divita patriarcali e feudali.

Ma la slavofilia non s’identifica del tutto con il con-servatorismo e la reazione. Fra gli slavofili ci sono veriamici del popolo, come tra gli occidentalisti non man-cano anche avversari della democrazia. È noto che lostesso Herzen nutriva certe riserve contro le istituzionidemocratiche dell’Occidente. I primi slavofili sono, inogni caso, avversari dell’autocrazia zarista e combatto-no il governo di Nicola I. Piú tardi la loro corrente siriconcilia con lo zarismo, la cui idea è parte integrantedella loro teoria dello Stato e della loro filosofia dellastoria; ma continuano ad annoverare dei democratici frai loro partigiani. Dobbiamo distinguere soprattutto duefasi nel movimento slavofilo, proprio come dobbiamoparlare di due generazioni diverse di occidentalisti.Infatti, come il riformismo e il razionalismo degli anni1840-50 si sviluppa nel socialismo e nel materialismodegli anni ’60-80, cosí la slavofilia dei proprietari feu-

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dali si trasforma nel panslavismo e nel populismo diDanilevskij, Grigor´ev e Dostoevskij. Il nuovo indiriz-zo democratico è in stridente contrasto con l’antica ten-denza aristocratica47. Dopo l’emancipazione dei conta-dini molti degli scrittori piú anziani s’allontanano dal-l’intelligencija e dagli occidentalisti per aderire al nazio-nalismo, cosí che non si può piú affermare che «la cri-tica conservatrice qualitativamente e quantitativamen-te sia notevolmente inferiore a quella progressista»48.

Gli slavofili e gli occidentalisti ora si distinguono piúnei metodi di lotta che nei fini. Tutti gl’intellettuali russifanno propria l’«idea slava»; tutti sono patrioti e araldidella «missione russa». Essi «s’inginocchiano mistica-mente davanti al contadino e alla sua pelliccia di peco-ra»49, studiano l’anima russa e si entusiasmano per la«poesia folkloristica». La frase di Pietro il Grande:«Abbiamo bisogno dell’Europa per qualche decennio,poi potremo voltarle le spalle», risponde ancora all’opi-nione prevalente fra questi riformatori. La parola narod,che vuol dire insieme «popolo» e «nazione», è tale dapermettere di cancellare la distinzione tra democratici enazionalisti50. Le velleità slavofile dei radicali si spiega-no anzitutto col fatto che i Russi, ancora in una fase ini-ziale del capitalismo, sono una nazione assai piú omo-genea, cioè assai meno differenziata in classi, di quelledell’Occidente. In Russia tutta l’élite intellettuale èsotto l’influsso di Rousseau e piú o meno ostile all’artee alla cultura; le tradizioni culturali dell’Occidente, l’an-tichità classica, la Chiesa romana, la scolastica medie-vale, il Rinascimento e la Riforma e, in parte, perfino ilmoderno individualismo, l’orientamento scientifico equello estetizzante, le appaiono come un ostacolo all’at-tuazione. delle sue proprie mete51. L’utilitarismo esteti-co di Belinskij, Cerny∫evskij e Pisarev è antitradiziona-lista non meno dell’atteggiamento di Tolstoj contro l’ar-te. Neppure nella grande controversia tra soggettivismo

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e obiettivismo, individualismo e collettivismo, libertà eautorità, le parti sono nettamente divise tra occidenta-listi e slavofili, benché naturalmente i primi siano piúinclini al liberalismo, i secondi all’autoritarismo. Belin-skij e Herzen combattono non meno disperatamente diDostoevskij e Tolstoj, e spesso nello stesso modo incon-sulto, con il problema della libertà individuale. Tutta laspeculazione filosofica dei Russi s’impernia su questoproblema, e il pericolo del relativismo morale, lo spet-tro dell’anarchia, il caos del delitto sono l’angosciosapreoccupazione di ogni pensatore russo. Il grande pro-blema, fondamentale per la coscienza europea, dell’e-straniarsi dell’individuo dalla società, della solitudine edell’isolamento dell’uomo moderno, diviene per i Russiil problema della libertà. In nessun altro luogo esso èstato vissuto e dibattuto piú profondamente e intensa-mente; e nessuno piú tormentosamente di Tolstoj eDostoevskij ha sentito la responsabilità della sua solu-zione. L’eroe delle Memorie del sottosuolo, Raskol´nikov,Kirillov, Ivan Karamazov, tutti vi si cimentano, tuttilottano contro il pericolo di essere inghiottiti dall’abis-so dell’illimitata libertà, dell’arbitrio e dell’egoismo. Ilrifiuto dell’individualismo da parte di Dostoevskij, lasua critica all’Europa razionalista e materialista, la suaapoteosi della solidarietà umana e dell’amore non hannoaltro senso che quello di prevenire un’evoluzione cheporterebbe al nichilismo di Flaubert. Il romanzo occi-dentale finisce con la rappresentazione dell’individuoisolato dalla società, soccombente al peso della propriasolitudine; il romanzo russo, dal principio alla fine,descrive la lotta contro i demoni che inducono l’indivi-duo a rinnegare il mondo e la comunità degli uomini.Questo tratto essenziale spiega non solo le figure pro-blematiche di Raskol´nikov e Ivan Karamazov, di Pier-re Bezuchov e Levin, non solo il messaggio d’amore e

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di fede di Dostoevskij e Tolstoj, ma il messianismo ditutta la letteratura russa.

Il romanzo russo è letteratura impegnata in un sensomolto piú stretto che non quello occidentale. I proble-mi sociali non solo vi occupano piú spazio e una posi-zione piú centrale, ma vi mantengono una preminenzapiú lunga e incontrastata che nella letteratura d’Occi-dente. Fin dall’inizio in esso l’aggancio con le questio-ni sociali e politiche del momento è piú stretto che nelleopere degli scrittori contemporanei di Francia e d’In-ghilterra. Il dispotismo russo non permette alle energieintellettuali altra affermazione che quella letteraria, e lacensura fa sí che la critica sociale non abbia altra via dicomunicazione che la poesia52. In quanto forma chemeglio vi si presta, il romanzo assume quindi un carat-tere attivistico, pedagogico, anzi profetico, che in Occi-dente non ebbe mai, e gli autori russi rimangono i mae-stri e i profeti del loro popolo, quando ormai in Euro-pa i letterati cadono in totale passività e isolamento.L’Ottocento è l’epoca illuministica dei Russi; per tuttoil secolo essi conservano l’entusiasmo e l’ottimismo del-l’Occidente prerivoluzionario. La Russia non ha prova-to le delusioni delle rivoluzioni europee, tradite, scon-fitte, falsate; qui non c’è traccia della stanchezza che siosserva in Francia e in Inghilterra dopo il 1848. Alla gio-vanile inesperienza della nazione e alla sua fiducia, nonancora mortificata, nell’idea del progresso sociale dob-biamo la promettente freschezza del romanzo naturali-stico russo, mentre il naturalismo in Francia e in Inghil-terra comincia ad evolversi verso un passivo impressio-nismo. La letteratura russa, passando dalle mani dellanobiltà stanca e in declino in quelle di un ceto in asce-sa, quando in Occidente la borghesia, il ceto cultural-mente egemone, si sente ormai esausta e minacciata dalbasso, riesce a superare non soltanto la malinconia checominciava ad affermarsi negli scrittori della nobiltà

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incline al romanticismo, ma anche lo stato d’animo ras-segnato e scettico prevalente nella moderna letteraturaoccidentale. Nonostante i suoi toni cupi, il romanzorusso esprime un invincibile ottimismo, testimonia lafede nell’avvenire della Russia e dell’umanità; è e rima-ne pervaso da uno spirito combattivo pieno di speran-za, da una brama, da una certezza evangelica di reden-zione. Quest’ottimismo non si manifesta certo in faciliideali né in un «lieto fine» a buon mercato, ma nellasicura fiducia che abbiano un senso e non siano mai vaniil dolore e il sacrificio dell’umanità. Le opere dei gran-di scrittori russi hanno quasi sempre una fine dolce-mente placata, sebbene spesso tristissima; sono piú seridei romanzi di Flaubert, di Maupassant e dei Goncourt,ma non sono mai cosí amari, cosí disperati.

È prodigioso come il romanzo russo, pur cosí recen-te, non solo uguagli il romanzo francese e inglese, ma sisostituisca ad essi nella funzione di guida e si pongacome la forma letteraria piú avanzata e vitale del tempo.Accanto alle opere di Dostoevskij e di Tolstoj, tutta laletteratura occidentale del secondo Ottocento appareesausta e stagnante. Anna Karenina e I fratelli Karama-zov segnano le vette del naturalismo europeo; essi rias-sumono e sorpassano le conquiste psicologiche delromanzo francese e inglese, senza mai smarrire il sensodei grandi nessi sovraindividuali. Come il romanzosociale giunge a perfezione con Balzac, il romanzo dellaformazione intima con Flaubert, il romanzo picarescocon Dickens, cosí il romanzo psicologico entra conDostoevskij e Tolstoj nella piena maturità. Sono questidue artisti i primi che portano a conclusione il processoiniziatosi con il romanzo sentimentale di Rousseau,Richardson e Goethe, come con il romanzo analitico diMarivaux, Benjamin Constant e Stendhal. La psicologiamoderna comincia con la rappresentazione del dissidiodell’anima, dissidio che non si può semplicemente ridur-

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re a un conflitto intimo. Già Antigone oscilla fra dove-re e impulsi e gli eroi di Corneille si può dire non vivo-no se non in questo contrasto. In Shakespeare l’indeci-sione dell’eroe diventa l’argomento stesso del dramma.È vero che le inibizioni qui non vengono soltanto da unimpulso morale, come in Sofocle e in Corneille, maanche dai nervi, cioè da una zona psichica inconscia eincontrollata; ma le opposte inclinazioni si presentanosempre ben distinte, e il giudizio morale dei personaggisui propri impulsi è netto e coerente. Al piú essi esita-no tra impulsi e sentimenti diversi, ma non mai nellaloro adesione morale all’una o all’altra parte dei loroimpulsi. La disintegrazione della personalità, per cuil’antagonismo dei sentimenti va tant’oltre che l’indivi-duo non è piú chiaro a se stesso e diventa per se stessoun problema, non fa la sua comparsa che al principio delsecolo scorso. Solo con i fenomeni connessi con ilmoderno capitalismo, cioè il romanticismo e l’estraniarsidell’individuo dalla società, si hanno questi spiriti cosícoscienti del loro intimo dissidio e con essi il problema-tico personaggio moderno. Le contraddizioni psicologi-che in Shakespeare e negli elisabettiani per lo piú nonsono che assurdità; rappresentano uno stadio di svilup-po anteriore alla sintesi classica. In altri termini, il dram-maturgo non ha ancora imparato come si disegna un per-sonaggio che agisca in modo unitario e coerente, né dàspeciale importanza all’unità del carattere. I personaggiincoerenti della letteratura romantica sono inveceespressione di una cosciente e programmatica reazioneal razionalismo della psicologia classica. Si prediligonotipi sfrenati e fantastici, perché si crede che il caoticosentimento sia piú genuino e spontaneo della coerentee metodica ragione. L’espressione piú evidente, benchéancora un po’ cruda, dell’anima in contrasto con se stes-sa, ormai irriducibile ad unità razionale, è l’idea del«doppio», che lo stesso Dostoevskij desume dai roman-

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tici come requisito costante del personaggio, e conservasino alla fine. Ma la completa dissoluzione dell’unità delcarattere, cioè la disorganizzazione che consiste nonsolo nell’incoerenza dei contenuti psichici, ma anchenel loro continuo spostarsi e trasformarsi, mutando valo-re e significato, si ha con la lotta contro il romanticismoe il continuo oscillare fra atteggiamenti romantici e anti-romantici. In Stendhal, che apre questa fase, i vari con-tenuti della psiche si trasformano sotto i nostri occhi. Laprovvisorietà del quadro psichico e la natura indefinibiledegli atteggiamenti intimi, diventano ora il criterio diogni studio psicologico e solo una figura cangiante ecaleidoscopica può suscitare un interesse artistico. L’ul-timo stadio di questa evoluzione si ha nei personaggi diDostoevskij, del tutto imprevedibili e irrazionali. «Tunon sei quel che sembri», diventa la norma della psico-logia, e importanza psicologica nell’uomo ha soltantoquel che è strano e sinistro, demoniaco e abissale.Accanto alle figure di Dostoevskij, i caratteri ben menocomplicati della letteratura precedente appaiono sempre,dal piú al meno, idillici e arbitrari. Oggi per altro è faci-le accorgersi che anche la psicologia di Dostoevskij èpiena di tratti convenzionali e largamente si serve diresidui di byronismo e di romanzo nero. Vediamo cheDostoevskij non è un inizio, ma un termine e che, purcon tutta la sua originalità e fecondità, è pronto ad acco-gliere e sviluppare coerentemente le conquiste delromanzo psicologico occidentale.

Dostoevskij scopre il piú importante principio dellapsicologia moderna: l’ambivalenza dei sentimenti e ildissidio di ogni atteggiamento psichico eccessivo, che siesplichi in forme esagerate e troppo dimostrative. Nonsolo amore e odio, orgoglio e umiltà, autoesaltazione eautoavvilimento, sadismo e masochismo, desiderio delsublime e «nostalgia del fango», sono intimamente lega-ti; non solo figure come Raskol´nikov e Svidrigailov,

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My∫kin e Rogo∆in, Ivan Karamazov e Smerdjakov sonodue volti di un unico principio; ma ogni impulso, ognimoto dell’animo, ogni idea suscita il suo opposto appe-na affiora alla coscienza di questi uomini. Gli eroi diDostoevskij sono sempre di fronte ad alternative:dovrebbero e non possono scegliere; quindi il loro pen-siero, l’autoanalisi e l’autocritica non sono che un con-tinuo infierire contro se stessi. La parabola dei porci incui è entrato il Maligno non si riferisce solo ai personaggidei Demoni, ma piú o meno a tutta la stirpe dostoev-skiana. I suoi romanzi si svolgono alla vigilia del giudi-zio universale; vi regna sempre una terribile tensione,un’angoscia mortale, vi si disfrena il caos; ogni cosaattende lume, pace, salvezza da un miracolo: attendeuna soluzione che non verrà piú dalla forza e dal rigoredell’intelletto, dalla dialettica razionale, ma dalla rinun-zia a quella forza e dal sacrificio della ragione. Nell’ideadel suicidio intellettuale, che Dostoevskij propugna, sirivela quanto sia discutibile la sua filosofia, che cerca dirisolvere in modo affatto irreale problemi reali, que-stioni rettamente impostate.

Dostoevskij deve la profondità e la sottigliezza dellasua psicologia all’intensità con cui egli vive la proble-matica dell’intellettuale moderno. Ma l’ingenuità dellasua etica nasce dai suoi scarti antirazionalistici, dall’ab-bandono dei valori intellettuali e dall’incapacità di resi-stere alle seduzioni del romanticismo e dell’astratto idea-lismo. In lui nazionalismo mistico, ortodossia religiosa,etica intuitiva si legano in una fondamentale unità cherisale evidentemente alla stessa esperienza, alla medesi-ma scossa psichica. In gioventú Dostoevskij fu un radi-cale e appartenne alla cerchia socialisteggiante diPetra∫evskij. Per tale attività venne condannato a mortee, dopo aver assistito a tutti i preparativi dell’esecuzio-ne, fu graziato e mandato in Siberia. Quest’esperienzae gli anni della prigionia sembrano averne fiaccato lo spi-

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rito di rivolta. Quando, dopo un’assenza di dieci anni,egli torna a Pietroburgo, non è piú socialista né radica-le, benché sia ancora molto lontano dal misticismo poli-tico e religioso dei suoi anni successivi. Soltanto le ter-ribili privazioni dei tempi che seguirono, il peggiora-mento della malattia e il vagabondaggio per l’Europainfrangeranno del tutto la sua resistenza. Già l’autore diDelitto e castigo e dell’Idiota cerca rifugio e pace nellareligione, ma il creatore dei Demoni e dei Fratelli Kara-mazov è ormai un entusiastico apologeta dell’autoritàecclesiastica e laica e un banditore del dogma. Solo perònegli ultimi anni Dostoevskij diventa il moralista, ilmistico, il reazionario, quale si suole sommariamentecaratterizzarlo53. Tuttavia, anche con queste limitazioninon è agevole definirlo politicamente.

La sua critica del socialismo è semplicemente assur-da; eppure, il mondo ch’egli descrive invoca il socialismoe la liberazione dell’umanità dalla miseria e dall’umilia-zione. Anche in questo caso si deve parlare di «trionfodel realismo», di vittoria dell’artista penetrante e sensi-bile alla realtà sul politico romantico e confuso. Ma inDostoevskij la situazione è assai piú complicata che inBalzac. Nell’arte sua hanno una grande importanza lasimpatia e la solidarietà con gli «umiliati e offesi», sim-patia di cui non c’è traccia nello scrittore francese; e c’èin lui una specie di nobiltà della miseria, benché nellesue pagine sulla povera gente molto sia convenzione let-teraria e derivazione romantica. In ogni caso Dostoev-skij è uno dei pochi veri poeti della povertà, e non soloper compassione verso i poveri come George Sand edEugène Sue, o per pallidi ricordi come Dickens, ma per-ché ha passato la piú gran parte della sua vita in mise-ria e talvolta ha letteralmente sofferto la fame. Perciò,anche quando parla dei suoi problemi religiosi e mora-li, Dostoevskij riesce piú travolgente e rivoluzionario diGeorge Sand, Eugène Sue e Dickens quando descrivo-

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no la miseria e l’ingiustizia del loro tempo. Ma egli nonè comunque un interprete delle masse rivoluzionarie.Con il proletariato operaio e coi contadini egli non haalcuna intima affinità, nonostante la sua idealizzazionedel «popolo» e la sua slavofilia54. Solo il proletariatointellettuale lo attrae veramente. Egli stesso si chiama«proletario della letteratura» e «cavallo di posta», per-ché lavora sempre sotto l’assillo del contratto, non hamai venduto un’opera se non a pagamento anticipato, espesso non sa ancora quale sarà la fine di un capitolo,mentre il principio è già in tipografia. Egli si lamenta cheil lavoro lo ha schiacciato, consunto; che ha lavorato finoall’istupidimento, fino a sentirsi rompere il cervello esospira di riuscire a scrivere anche un solo romanzo,come Turgenev e Tolstoj scrivono le loro opere. Tutta-via egli si proclama «letterato» in tono di fierezza e disfida e si considera il rappresentante di una nuova gene-razione e di una nuova classe sociale, che ancora nonhanno trovato espressione letteraria. E, nonostante lasua opposizione alle aspirazioni politiche dell’intelligen-cija, è il primo valido esponente di essa nel romanzorusso. Gogol´, Goncarov e Turgenev, sostanzialmenteesprimono ancora la mentalità nobiliare, anche se sosten-gono idee molto avanzate e, in contrasto con gli interessidella propria classe, sono fra i campioni dell’evoluzioneborghese della Russia. Dostoevskij giustamente anno-vera anche Tolstoj fra i rappresentanti di questa «lette-ratura di possidenti», e lo chiama lo «storiografo del-l’aristocrazia», che nei suoi grandi romanzi, soprattut-to in Guerra e pace, si attiene alla forma della cronacafamigliare di Aksakov55.

Per lo piú gli eroi di Dostoevskij, specieRaskol´nikov, Ivan Karamazov, \catov, Kirillov, StepanVerchovenskij, sono intellettuali borghesi, e l’autoreorienta la sua analisi della società secondo il loro puntodi vista, benché non si identifichi mai espressamente con

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loro. Ma per capire la visione di uno scrittore non impor-ta tanto sapere quale causa egli sostenga, quanto conquali occhi egli consideri il mondo. Dostoevskij vede iproblemi sociali del suo tempo, anzitutto il disgregarsidella società e l’abisso sempre piú profondo tra le clas-si, dal punto di vista dell’intelligencija, e per lui la solu-zione può venire solo dal ricongiungersi della gente coltaal popolo ingenuo e credente da cui si è allontanata. Tol-stoj giudica gli stessi problemi dal punto di vista dellanobiltà e spera il risanamento sociale dall’intesa fra con-tadini e signori terrieri. Il suo pensiero rimane vincola-to alle idee di un feudalesimo patriarcale, e anche queipersonaggi che meglio incarnano le sue idee, Levin ePierre Bezuchov, sono al piú benefattori del popolo, manon veri democratici. Invece nel mondo di Dostoevskijdomina una perfetta democrazia spirituale. Tutti i suoipersonaggi, ricchi e poveri, aristocratici e plebei, lotta-no con gli stessi problemi morali. My∫kin, il ricco prin-cipe, e Raskol´nikov, il povero studente, sono entram-bi esuli, vagabondi, decaduti e reietti e non hanno postonella moderna società borghese.

In certa misura tutti i suoi eroi ne sono esclusi e for-mano un mondo senza classi, in cui dominano rapportipuramente spirituali. In quel che fanno essi si impegna-no con tutto l’essere loro, con tutta l’anima, e nellameccanica monotonia del mondo moderno rappresenta-no un’utopica realtà dell’intelletto e dell’anima. «Noinon abbiamo interessi di classe, perché, a rigore, nonabbiamo classi e perché l’anima russa è piú grande deicontrasti, degli interessi e della giustizia di classe», scri-ve Dostoevskij nel Diario di uno scrittore; e nulla è piúcaratteristico del suo modo di pensare di questa affer-mazione che contraddice alla sua consapevolezza d’esserdiverso dai suoi nobili colleghi proprio per una diffe-renza di classe. Il medesimo Dostoevskij che pone unacesura cosí netta tra sé e gli esponenti della «letteratu-

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ra dei possidenti» e come scrittore fonda la sua ragiond’essere sulla sua natura di intellettuale plebeo, d’altraparte nega le classi e crede al primato di rapporti spiri-tuali fuori d’ogni legame sociale.

Piú volte si è insistito sull’analogia fra la posizionesociale dello scrittore russo e quella di Dickens. È statoosservato che entrambi erano figli di gente senza salderadici sociali e fin da giovani conobbero l’insicurezzasociale e la condizione di spostati56. Il padre di Dostoev-skij era un medico militare e la madre era figlia di unmercante. Il padre aveva acquistato una piccola pro-prietà e fatto educare i figli in una scuola frequentataspecialmente da giovani nobili. La madre morí presto eil padre, datosi al bere, venne ucciso dai suoi contadiniche, a quanto pare, egli maltrattava. Così, da un livellosociale relativamente rispettabile, Dostoevskij cadde allivello di quel proletariato intellettuale, da cui egli si sen-tiva attratto e insieme respinto. Nulla di piú verosimileche, per Dickens come per Dostoevskij, il loro atteg-giamento verso la società, contraddittorio e per moltiaspetti confuso, sia connesso con la posizione incerta delpadre e con la loro precoce esperienza della degradazio-ne sociale.

Nella storia del romanzo sociale Dostoevskij ha anzi-tutto il merito di averci dato la prima rappresentazionenaturalistica della grande città moderna con la sua popo-lazione piccolo-borghese e proletaria, i bottegai e gliimpiegati, gli studenti e le prostitute, i perdigiorno e gliaffamati. La Parigi di Balzac era ancora una selva roman-tica, teatro di fantastiche avventure e di prodigiosiincontri, uno scenario dipinto a violento chiaroscuro, unpaese di fiaba dove la ricchezza abbagliante stava accan-to alla povertà pittoresca. Invece Dostoevskij dipinge ilquadro della gran città grigio su grigio, come un luogodi cupa, incolore miseria. Egli ne mostra i sordidi uffi-ci, le bettole soffocanti, le camere ammobiliate, quelle

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«casse da morto» – com’egli le chiama – in cui consu-mano i loro giorni le piú tristi vittime della vita cittadi-na. Tutto ciò ha un chiaro significato sociale e una puntapolitica; ma Dostoevskij si sforza di eliminare dai suoipersonaggi i coefficienti di classe. Egli abbatte le bar-riere economiche e sociali e li mescola tutti insieme,come se veramente esistesse per gli uomini un comunedestino. In lui spiritualismo e nazionalismo hanno lastessa funzione: servono a creare la leggenda di un esse-re morale che vive secondo leggi che trascendono lanascita, la classe e la cultura. In Gon™arov, Turgenev eTolstoj le caratteristiche di classe dei personaggi riman-gono; il fatto ch’essi siano nobili, borghesi o popolaninon è mai trascurato né dimenticato. Invece Dostoev-skij tralascia spesso queste distinzioni, anzi talvolta sem-bra farlo deliberatamente. Se tuttavia il carattere diclasse riesce ad affermarsi nei suoi personaggi, e soprat-tutto i suoi intellettuali ci appaiono come un grupposociale ben definito, è questo un trionfo del realismo chefa di Dostoevskij, a suo dispetto, un materialista.

Ma questo «materialismo» non è che una delle pre-messe invisibili e per lo piú inconsce, di una vera pas-sione intellettuale, di un’ossessione che lo spinge adesaurire fino all’ultimo le esperienze, a scrutare i senti-menti fin nel piú remoto impulso, ad approfondire sem-pre piú le idee, a esperimentarne le estreme conseguen-ze scendendo fino alle piú profonde sorgenti del sub-conscio. Gli eroi di Dostoevskij sono pensatori appas-sionati, impavidi, maniaci, in lotta disperata con le loroidee e i loro fantasmi come un tempo gli eroi dei roman-zi cavallereschi con i mostri e i giganti. Per le idee essisoffrono, uccidono, muoiono; per essi la vita è un com-pito filosofico e la loro unica incoercibile attività, l’unicasostanza della vita è il pensiero. Essi lottano veramen-te con i mostri, con idee non ancor nate, indefinibili,amorfe, con problemi che non si possono risolvere, anzi

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neppur formulare. Non solo Dostoevskij è il primo pen-satore moderno che sappia rendere un’esperienza intel-lettuale concreta e immediata come un’esperienza sen-sibile, ma si spinge in regioni dello spirito ancora ine-splorate. Egli scopre una nuova dimensione, una nuovaprofondità, una nuova intensità del pensiero. Certo lascoperta appare cosí nuova anzitutto perché il romanti-cismo ci ha abituati a distinguere nettamente pensieroe sentimento, idea e passione, e a considerare oggetto dipoesia soltanto sentimenti e passioni57. La vera novitàdello spirito dostoevskiano consiste nel fatto ch’egli è unromantico del pensiero e in lui le idee hanno la stessaforza emotiva, lo stesso impeto passionale, anzi patolo-gico, che presso i romantici hanno il flusso e il tumultodei sentimenti. La sintesi di intellettualismo e romanti-cismo è la pietra miliare posta dall’arte di Dostoevskij;da essa deriva la forma letteraria piú avanzata dellaseconda metà dell’Ottocento, la forma piú adeguata alleesigenze artistiche di quel tempo inscindibilmente lega-to al romanticismo e irresistibilmente attratto dall’in-tellettualismo. La rinunzia all’uno o all’altro di questielementi culturali, l’affettazione neoclassica come l’i-sterismo neoromantico si erano rivelati vicoli ciechi; l’e-spressionismo dostoevskiano invece poteva essere con-tinuato, e adattato al nuovo senso della vita.

Dostoevskij però oltre che sulle vette si muovevaanche nelle bassure del romanticismo. È vero che l’operasua continua la letteratura di confessione dei romanti-ci, ma anche il romanzo di delitti e di avventure58.Anche in questo egli è il contemporaneo di Dickens –uno scrittore che nella scelta dei suoi mezzi artistici nonera piú difficile degli altri produttori di letteratura d’ap-pendice. Forse egli avrebbe davvero evitato certi difet-ti di gusto e certa trascuratezza, se avesse potuto lavo-rare come Tolstoj o Turgenev. D’altra parte il tonomelodrammatico del suo stile era intimamente connes-

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so alla sua concezione del romanzo psicologico; e i mezzidrastici non servivano soltanto ad aumentare la tensio-ne nel lettore, ma contribuivano anche a creare quellarovente atmosfera spirituale senza cui sarebbero incon-cepibili le situazioni drammatiche dei suoi romanzi. Sesi vuole, I fratelli Karamazov sono un romanzo giallo,Delitto e castigo un romanzo poliziesco, I demoni unromanzo di avventure, L’Idiota un romanzo sensazio-nale; assassinio e delitto, segreti e sorprese, scene com-moventi e orrende, stati morbosi e macabri vi hanno unaparte preminente. Ma sarebbe un errore credere chetutto questo miri unicamente a compensare il lettore del-l’astratto contenuto intellettuale; anzi il poeta vuolsuscitare il senso che i processi spirituali su cui s’im-pernia la storia sono elementari quanto gli impulsi piúprimitivi.

In Dostoevskij ritroviamo tutta la galleria degli eroiromantici: l’eroe byroniano bello, forte, misterioso esolitario (Stavrogin), il personaggio impulsivo, sfrena-to, pericoloso, ma bonario (Rogozin e Dmitrij Kara-mazov), le figure angeliche e luminose (My\kin eAlë\a), le prostitute dall’anima pura (Sonja e Nata\aFilippovna), il vecchio dissoluto (Fëdor Karamazov), ilforzato evaso (Fedka), il beone depravato (Lebjadkin)e cosí via. Vi ritroviamo tutti gli elementi e le caratte-ristiche del romanzo nero e avventuroso: la ragazzasedotta e abbandonata, il matrimonio segreto, le lette-re anonime, l’assassinio misterioso, la pazzia, gli acces-si epilettici, lo schiaffo clamoroso, soprattutto e ripe-tutamente le scene di pubblico scandalo che portano aun’esplosione59. Queste specialmente mostrano che cosasappia trarre Dostoevskij dai mezzi del romanzo sensa-zionale. Non solo esse gli servono, come si potrebbecredere, per finali e colpi di scena, ma fin dal principioincombono come un pericolo, e suscitano il senso chele grandi passioni e le condizioni elementari dell’anima

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urtano sempre contro i limiti della convenzione e dellatolleranza sociale. L’Utopia spirituale in cui vive l’eroedi Dostoevskij si rivela una stretta gabbia; appena l’im-manenza della sua vita viene forzata, tosto ne nasce loscandalo. In queste scene di scandalo è essenziale la pre-senza di un pubblico straordinariamente misto, l’inter-vento degli elementi socialmente piú disparati. Sia nellagrande scena in casa di Nata∫a Filippovna, nell’Idiota,come in quella presso Varvara Petrovna, nei Demoni,tutti coloro che vi partecipano sono raccolti, come perprovare che la differenziazione sociale non può regge-re di fronte alla catastrofe generale. Ognuna di questescene è come un sogno angoscioso; una folla di gente èstipata in uno spazio incredibilmente stretto e l’atmo-sfera d’incubo mostra quale sinistro potere abbia perDostoevskij la società con le sue differenze di classe edi rango, i suoi tabú e i suoi veti.

Per lo piú i critici mettono in rilievo la strutturadrammatica dei grandi romanzi di Dostoevskij; senon-ché di solito questa caratteristica formale viene inter-pretata come un puro espediente per effetti teatrali eviene contrapposta all’ampio, epico flusso dei romanzitolstoiani. Eppure la tecnica drammatica in Dostoevskijnon serve solo per le scene culminanti, in cui conflui-scono le fila dell’azione e scoppia il conflitto fino alloraincombente, ma piuttosto anima tutta l’azione ed espri-me una visione affatto diversa da quella epica. PerDostoevskij il senso della vita non è nel suo caratteretemporale, nel sorgere e nello svanire delle sue mete, neiricordi e nelle illusioni, negli anni, giorni e ore che cado-no l’un sull’altro a seppellirci; ma in quei momenti eccel-si in cui le anime sono messe a nudo, ridotte a una for-mula semplice e chiara, in cui esse sentono la loro indub-bia sostanza, si dichiarano identiche a se stesse e inarmonia con il proprio destino. Sull’esistenza di similimomenti si fonda il tragico ottimismo di Dostoevskij,

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quella riconciliazione con il destino, che la tragedia grecachiamava catarsi. Su ciò si fonda la sua filosofia oppo-sta al pessimismo e al nichilismo di Flaubert. Dostoev-skij ha sempre indicato il senso della massima felicità edella perfettissima armonia come un’esperienza di eter-nità; tale soprattutto lo stato di My∫kin prima degliattacchi epilettici e i «cinque secondi» di Kirillov, quelgaudio, com’egli afferma, che non si potrebbe soppor-tare piú a lungo. Per descrivere un’esistenza che culmi-na in momenti simili, la concezione flaubertiana delromanzo, fondata tutta sul senso del tempo, dovettesubire tali trasformazioni, che spesso il risultato parenon avere piú nulla di comune con il romanzo in sensotradizionale. Se è vero che la forma dostoevskiana con-tinua direttamente il romanzo sociale e psicologico, èanche vero che essa dà l’avvio a un nuovo processo.Quella che si suol chiamare la sua struttura drammati-ca si regge su un principio formale affatto diverso dal-l’unità propria dei romanzi d’amore e della formazioneintima, che con il romanticismo s’erano sostituiti allavecchia forma picaresca. Il romanzo dostoevskiano èpiuttosto un ritorno a quest’ultima, già per il solo fattoche i momenti drammatici vi sono dispersi, costituendodei punti di concentrazione indipendenti. Abolendo inquesto modo la continuità a favore di una serie di epi-sodi essenziali, carichi di potenza espressiva, ma com-binati a mosaico, esso precorre il principio formale delmoderno romanzo espressionistico. La narrazione cedeil passo alla spiegazione, all’analisi psicologica e alladiscussione filosofica, e il romanzo diventa una raccol-ta di dialoghi e intimi monologhi, accompagnati da com-menti e digressioni dell’autore.

Spesso questo metodo s’allontana dal naturalismocome stile non meno che dal romanzo come genereepico. Innegabilmente per l’acutezza dell’osservazionepsicologica Dostoevskij rappresenta la forma piú evolu-

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ta del romanzo naturalistico; ma se per naturalismo s’in-tende la rappresentazione di quel che è normale, medio,quotidiano, bisogna vedere una reazione al naturalismonel suo amore per le situazioni estreme quasi da alluci-nazione, per i caratteri fantasticamente esagerati.Dostoevskij stesso definisce la sua posizione storico-sti-listica con perfetta esattezza: «Mi chiamano psicologo,– dice; – è falso, io non sono che un realista in senso piúalto, cioè descrivo tutti gli abissi dell’anima umana». Eper lui questi abissi sono appunto gli aspetti irraziona-li, demoniaci, visionari e spettrali dell’uomo; elementiche richiedono un naturalismo che non si limiti allaverità superficiale; che rivelano fenomeni in cui gli ele-menti della vita reale si mescolano, fantasticamentedisordinati e acuiti. Egli dichiara: «Il realismo nell’artel’amo fuor di misura, il realismo che, per cosí dire, giun-ge al fantastico... Che cosa può apparirmi piú fantasti-co e inatteso della realtà? Anzi, che cosa può essere piúinverosimile?» Non c’è definizione piú esatta dell’e-spressionismo e del surrealismo. Quelle che in Dickenserano ancora puntate puramente occasionali, e per lo piúinconsce, in quella zona che sta al limite fra sogno erealtà, esperienza e allucinazione, qui diventa unacostante apertura sui «misteri della vita». In questomodo si prepara la rottura con lo scientifismo dell’artenaturalistica. Un nuovo spiritualismo sta sorgendo dallareazione all’orientamento scientifico, dalla rivolta con-tro il naturalismo, dalla diffidenza per la visione scien-tifica del mondo e per il modo razionalistico di affron-tare i problemi. La vita stessa ora viene sentita comequalcosa di essenzialmente irrazionale; si crede di per-cepire da ogni parte voci misteriose, e l’arte ne divental’eco.

Nonostante i profondissimi contrasti, c’è una fonda-mentale analogia tra l’atteggiamento di Dostoevskij equello di Tolstoj di fronte al problema dell’individuali-

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smo e della libertà. Entrambi considerano il distacco del-l’individuo dalla società, la sua solitudine e il suo isola-mento, come il peggiore dei mali. Entrambi vogliono adogni costo evitare il caos che minaccia di travolgere gliuomini resi cosí solitari. Specialmente in Dostoevskijtutto s’impernia sul problema della libertà e i suoi gran-di romanzi, in fondo, non sono che analisi e interpreta-zioni di quest’idea. Il problema in sé non era nuovo; iromantici vi si erano sempre affaticati e dal 1830 essoera al centro del pensiero filosofico e politico. Per ilromanticismo libertà significava la vittoria dell’indivi-duo sulla convenzione; libera e creatrice era ritenuta unapersonalità che avesse la forza intellettuale e il coraggiodi trascurare i pregiudizi estetici e morali del suo tempo.Per Stendhal il problema è quello stesso del genio, inparticolare del genio di Napoleone il cui successo, eglipensa, dipende dalla brutale imposizione della suavolontà, della sua personalità, della sua grandezza. L’ar-bitrio del genio e i sacrifici ch’esso richiedeva gli pare-vano il prezzo dovuto dal mondo all’eroe dello spirito.Su questa via il Raskol´nikov di Dostoevskij rappresen-ta la tappa successiva. L’individualismo geniale trova inquesta figura una forma astratta, virtuosistica, la forma,per cosí dire, del gioco. La personalità esige le sue vit-time non piú nell’interesse di un’idea superiore, di unfine obiettivo, di un’opera praticamente valida, ma sem-plicemente per provare la propria attitudine all’azionelibera e sovrana. L’azione in sé diventa affatto secon-daria; il problema è puramente formale: la libertà del-l’individuo è in se stessa un valore? La risposta diDostoevskij non è certo cosí chiara come potrebbe aprima vista sembrare. L’individualismo porta al caos eall’anarchia, ma dove portano la costrizione e l’ordine?Il problema trova la sua espressione ultima e piú profon-da nel racconto del Grande Inquisitore, e la soluzione acui giunge qui Dostoevskij può considerarsi il risultato

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di tutta la sua filosofia morale e religiosa. L’abolizionedella libertà cristallizza le istituzioni e sostituisce allareligione la Chiesa, all’individuo lo Stato, all’inquietu-dine di chi domanda e ricerca l’acquietamento neldogma. Cristo è intima libertà, ma anche lotta senzafine; la Chiesa è intima costrizione, ma anche pace esicurezza. Si vede come sia dialettico il pensiero diDostoevskij e quanto sia difficile definirne chiaramen-te la posizione etica e politico-sociale. Il tanto depreca-to reazionario e dogmatico conclude l’opera sua con unproblema aperto.

Per Tolstoj la questione dell’individualismo è di granlunga meno importante che per Dostoevskij, ma è pursempre la chiave per comprendere le sue figure psicolo-gicamente piú interessanti e moralmente piú significati-ve. Soprattutto la figura di Levin è tutta costruita peressere l’esponente di questo problema, e la violenza deisuoi intimi conflitti rivela quanto sia dura la lotta di Tol-stoj con l’idea dell’isolamento e lo spettro dell’uomoabbandonato a se stesso. Dostoevskij aveva ragione:Anna Karenina non è un libro innocuo. È pieno di dubbi,scrupoli, timori. Il motivo fondamentale, che è quellopoi che lega la storia di Anna con quella di Levin, èanche qui l’appartarsi dell’individuo dalla società e ilpericolo di diventarle estranei. Lo stesso destino, checolpisce Anna per il suo adulterio, minaccia Levin peril suo individualismo, la sua visione anticonformista, isuoi strani dubbi e problemi. Entrambi si espongono alrischio di venir espulsi dalla società della gente norma-le e rispettabile. Ma, mentre Anna rinunzia senz’altroall’approvazione della società, Levin fa ogni sforzo pernon perderne l’appoggio. Egli accetta il giogo matrimo-niale, amministra la sua terra come fanno i suoi vicini,si piega alle convenzioni e ai pregiudizi del suo ambien-te; in breve, è disposto a tutto, pur di non diventare unospostato, un escluso, un eccentrico, uno stravagante60.

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Ma nell’anti-individualismo di Dostoevskij e di Tol-stoj si svela tutta la differenza della loro mentalità. Leobiezioni di Dostoevskij sono di natura irrazionale emistica; per lui il principium individuationis significa lanegazione dello spirito universale, l’unità originaria, l’i-dea divina che, in forma storicamente concreta, si mani-festa come popolo, nazione, comunità sociale. Tolstojinvece respinge l’atteggiamento individualistico sempli-cemente per motivi razionali, eudemonistici; l’assolutalibertà personale non può portare all’uomo né felicità,né soddisfazione; sollievo e contentezza egli può trova-re soltanto nella rinunzia al proprio io e nell’altruismo.

Fra i due scrittori si ripropone quel rapporto signifi-cativo, esemplare, profondamente tipico, che già eraintercorso fra Voltaire e Rousseau e che si era ripresen-tato in termini analoghi fra Goethe e Schiller61. In tuttiquesti casi si tratta dell’antitesi di razionalismo e irra-zionalismo, senso e intelletto, o, come si esprime Schil-ler, di spontaneo e sentimentale. Nei tre casi il contra-sto si può ricondurre alle differenze sociali degli anta-gonisti: ogni volta un aristocratico, un patrizio sta difronte a un plebleo, a un ribelle. Certamente si devesoprattutto alla sua natura aristocratica se tutta l’arte eil pensiero di Tolstoj si radicano nell’idea del corporeo,dell’organico, del naturale. Lo spiritualismo di Dostoev-skij invece, la sua natura speculativa, il procedere dina-mico, dialettico del suo pensiero si spiegano con la suaorigine borghese e la sua plebea mancanza di vincoli.L’aristocratico si afferma col semplice fatto di essere,grazie all’origine, alla razza; ma il plebeo deve tutto alsuo talento, alle sue attitudini e alle sue azioni. Il rap-porto tra signori feudali e scrivani non è mutato nelcorso dei secoli, anche se talvolta il signore è diventatoegli stesso una specie di «scrivano».

Il contrasto tra la discrezione di Tolstoj e l’esibizio-nismo di Dostoevskij, tra il nobile ritegno dell’uno e –

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com’è detto nei Demoni – «il danzar nudo in pubblico»dell’altro, risulta dallo stesso divario sociale che divideVoltaire da Rousseau. Piú difficile invece è riferire a pre-messe sociologiche le peculiarità di stile e di carattere:cioè misura disciplina, ordine per l’uno; assenza diforma, caos, anarchia per l’altro. In certe circostanze ladismisura è dell’aristocratico come del plebeo, e sappia-mo che l’arte borghese dimostra spesso una tendenza alrigorismo non inferiore a quella dell’arte aulica. Nellacomposizione delle sue opere Tolstoj è eccessivo e arbi-trario quanto Dostoevskij; per questo riguardo sonoentrambi anarchici. Ma in Tolstoj c’è un riserbo mag-giore nello scrutare gli abissi dell’anima e un piú esigentecriterio nella scelta dei mezzi destinati a commuovere.L’arte sua è molto piú elegante, pura e gradevole diquella di Dostoevskij e, di contro a questo tipico rap-presentante della nevrosi ottocentesca, a ragione lo si èdetto un figlio del Settecento. Rispetto a Dostoevskijromantico, mistico, «dionisiacamente» estatico, egli ha,piú o meno, l’aria di un classico o, se vogliamo mante-nere la terminologia di Nietzsche, di una natura «apol-linea», plastica, statuaria. In contrasto con la naturaproblematica di Dostoevskij, tutto il suo modo di pen-sare ha un carattere positivo, nel senso che gli attribui-va Goethe quando diceva di voler sentire l’opinionealtrui espressa in forma «positiva», perché di proble-matico ne aveva abbastanza in se stesso. Il detto, se nonper la forma certo per la sostanza, potrebbe essere diTolstoj, che appunto disse qualcosa di simile a proposi-to di Dostoevskij. Egli lo paragonava a un cavallo chealla prima occhiata fa una splendida impressione e parevalga mille rubli; ma a un tratto ci si accorge che ha undifetto nell’andatura e zoppica, e si conclude con rin-crescimento che non vale un soldo. EffettivamenteDostoevskij aveva un difetto e, accanto al robusto,«sano» Tolstoj, lascia sempre un po’ un’impressione

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patologica, come Rousseau di fronte al ragionevole edequilibrato Voltaire. Ma qui le categorie non si posso-no piú distinguere cosí nettamente come in Voltaire ein Rousseau. Lo stesso Tolstoj rivela tutta una serie ditratti che per molti riguardi lo pongono assai piú diDostoevskij vicino a Rousseau. Il suo ideale di sempli-cità, naturalezza e sincerità non è che una variante delrousseauiano «disagio della cultura», e la sua nostalgiadell’idillico villaggio patriarcale non è che una nuovaforma della vecchia avversione romantica alla civiltà.Non per nulla egli cita le parole di Lichtenberg, che l’u-manità sarebbe perduta se non ci fossero piú selvaggi.

Ma anche questi aspetti alla Rousseau non sono cheespressione del timore della solitudine, dello sradica-mento, dell’esclusione dalla società. Tolstoj condanna laciviltà moderna per i suoi effetti di differenziazione, el’arte di Shakespeare, di Beethoven e di Pu∫kin, perchédivide, invece di unirli, i vari strati dell’umanità. Quelche nelle teorie di Tolstoj potrebbe dirsi collettivismo elotta contro le distinzioni di classe, non ha nulla a chevedere con la democrazia e il socialismo; è piuttosto lanostalgia di un intellettuale solitario per una comunitàda cui egli spera anzitutto la propria salvezza. QuandoCristo invitò il giovane ricco a distribuire ai poveri tuttoquanto possedeva non voleva, secondo l’esegesi diHenry George, aiutare i poveri, ma solo il giovane ricco.Anche l’intento di Tolstoj è di aiutare anzitutto il «gio-vane ricco». L’autoperfezionamento e la salvezza del-l’anima sono il suo vero scopo. Spiritualismo ed ego-centrismo determinano il carattere irreale, utopico delmessaggio sociale tolstoiano e le intime contraddizionidella sua dottrina politica. Questa morale strettamenteprivata implica il quietismo, il rifiuto dell’opposizioneviolenta al male, e lo sforzo di riformare le anime inve-ce della realtà. «Nulla è piú dannoso per gli uomini»,scrive nel suo appello Al popolo lavoratore dopo la rivo-

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luzione del 1905, «dell’idea che le cause della loro mise-ria stiano nelle condizioni esteriori, anziché in loro stes-si». La passività di Tolstoj di fronte alla realtà esterio-re corrisponde allo spirito pacifico della soddisfatta clas-se dominante e il suo lambiccato moralismo di autoac-cusa e di autotormento è del tutto estraneo al pensieroe al sentimento del popolo.

Ma Tolstoj, come Dostoevskij, non si lascia costrin-gere in una definizione politica troppo stretta. Egli è uninflessibile osservatore della realtà sociale, un sinceroamico della verità e della giustizia e un implacabile cri-tico del capitalismo, benché giudichi i difetti e le colpedella moderna società unicamente dal punto di vista delcontadino e dell’economia agricola; d’altra parte, eglinon vede le vere cause del male e predica una morale chea priori significa la rinunzia ad ogni attività politica62.Tolstoj non è un rivoluzionario, anzi è un nemico aper-to di ogni atteggiamento rivoluzionario; tuttavia, a dif-ferenza dei fautori dell’«ordine» e della pace sociale inOccidente, come Balzac, Flaubert e i Goncourt, eglitollera il terrore governativo ancor meno di quello rivo-luzionario. L’assassinio di Alessandro II non lo scuoteaffatto, ma all’esecuzione degli attentatori reagisce conuna protesta63. Nonostante i suoi pregiudizi e i suoierrori, Tolstoj rappresenta un’immensa forza rivoluzio-naria. La sua lotta contro le menzogne dello stato poli-ziesco e della Chiesa, il suo entusiasmo per la comunitàcontadina e l’esempio della sua stessa vita, qualunque siastato l’intimo motivo della sua «conversione» e della suafuga finale, sono da considerare tra i fermenti chedisgregano la vecchia società e favoriscono non solo larivoluzione russa, ma il movimento rivoluzionario con-tro il capitalismo in tutta Europa. Di fatto, per Tolstojsi può parlare non solo di «trionfo del realismo», maanche di «trionfo del socialismo»; non solo della spre-

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giudicata pittura sociale di un aristocratico, ma anchedell’efficacia rivoluzionaria di un reazionario nato.

L’intransigente razionalismo impedisce all’arte e alladottrina filosofica di Tolstoj di finire nella sterilità e nel-l’inefficienza. Il suo sguardo acuto e obiettivo per i fattifisici e psichici e la sua ripugnanza ad ingannare se stes-so e gli altri mantengono la sua religiosità fuori da ognimisticismo e dogmatismo e fanno del suo moralismo cri-stiano un efficace fattore politico. L’entusiasmo diDostoevskij per l’ortodossia russa gli è estraneo quantoin genere la religiosità degli slavofili. Anche alla fede egligiunge per una via razionale, pragmatica, non sponta-nea64. Tutto razionale è il processo della sua cosiddettaconversione, senza alcuna immediata esperienza religio-sa. Fu, com’egli dice nella sua Confessione, «il senso dipaura di chi è orfano e solo» a far di lui un cristiano.Non un’esperienza mistica di Dio e dell’aldilà, ma lascontentezza di sé, l’aspirazione a trovare un senso e unoscopo alla vita, la disperazione per la propria nullità einconsistenza, e soprattutto l’infinita paura della mortefanno di lui un credente. Egli diventa un apostolo del-l’amore, perché ha coscienza di mancare d’amore; esal-ta la solidarietà umana per contrastare alla propria sfi-ducia e al proprio disprezzo verso gli uomini; e affermal’immortalità dell’anima umana, perché non può sop-portare l’idea della morte. Tutta la sua esperienza reli-giosa è un’ascesi «razionalmente intesa a uno scopo», unesercizio di cristianesimo secondo il modello orientale.Ma la sua fuga dal mondo è aristocraticamente altera,non già cristianamente umile; al mondo egli rinunzia,perché il mondo non si lascia completamente dominaree possedere.

Il concetto della grazia è l’unico elemento irraziona-le nella concezione religiosa di Tolstoj. Nei suoi Raccontipopolari lo scrittore riprende una vecchia leggenda d’o-rigine medievale. In tempi remoti viveva in un’isola

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deserta un santo eremita. Un giorno, presso la sua capan-na, approdarono dei pescatori, fra cui un vecchio cosísemplice che non riusciva quasi ad esprimersi e nonsapeva nemmeno pregare. L’eremita, profondamenteturbato da tanta ignoranza, con molta fatica gli insegnòil Paternoster. Il vecchio lo ringraziò caldamente e, congli altri pescatori, lasciò l’isola. Dopo qualche tempo,quando il battello era ormai sparito in lontananza, a untratto il santo scorse all’orizzonte una figura umana chesi avvicinava all’isola camminando sullo specchio delleacque. Ben presto riconobbe il vecchio, il suo scolaro,e, quando questi toccò terra, gli andò incontro muto esbalordito. Balbettando, il vecchio gli fece capire cheaveva dimenticato la preghiera. «Tu non hai bisogno dipregare», rispose l’eremita, e congedò il vecchio che,librandosi sull’acqua, s’affrettò verso il battello deipescatori. Il senso di questa storia sta nell’idea di unasalvezza eterna non legata ad alcun criterio morale. Inun altro racconto degli anni tardi, Padre Sergio, Tolstojrappresenta lo stesso motivo dal lato opposto: la grazia,che ad uno viene concessa senza che faccia nessun sfor-zo e apparentemente senza merito, rimane negata all’al-tro, nonostante ogni pena e ogni tormento, nonostantei sacrifici sovrumani e l’eroica vittoria su se stesso. Que-sto concetto della grazia, per cui l’elezione sta al disopra del merito e la predestinazione viene assimilataalla nascita e alla fortuna, evidentemente si lega piú conl’origine aristocratica di Tolstoj che con il suo cristia-nesimo.

L’ottimismo dell’aristocratico sano e sicuro di sé, cheancora domina in Guerra e pace, e fa del romanzo un’a-poteosi della vita animale, vegetativa, organicamentecreatrice, un grande idillio, «un’ingenua epopea» – e sulsuo coronamento, come osserva cosí gustosamenteMere∫kovskij, il poeta «pianta come bandiera che indi-chi la via all’umanità le fasce dei bimbi di Nata∫a»65 –

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questo ottimismo panteistico si oscura in Anna Kareni-na e si avvicina al pessimismo della letteratura occiden-tale; ma la delusione per l’arida e convenzionale civiltàmoderna ha qui tutt’altro carattere che in Flaubert e inMaupassant. Il trionfo della vita reale sul romanticismodei sentimenti già in Guerra e pace si contaminava di unacerta malinconia, e anche prima, ad esempio in Felicitàdomestica, Tolstoj aveva avuto toni flaubertiani neldescrivere il degenerare delle grandi passioni, special-mente il decadere dell’amore ad amicizia. Ma il dissidiotra ideale e realtà, poesia e prosa, giovinezza e vecchiaianon è mai in lui cosí sconsolato come nei francesi. La suadelusione non porta mai al nichilismo, né all’accusa con-tro tutto quel che ha corpo e vita. Nel romanzo occi-dentale l’eroe venuto a conflitto con la realtà commise-ra e drammatizza se stesso con troppe querimonie; lacolpa dell’urto è sempre delle condizioni esteriori:società, stato, ambiente. In Tolstoj invece, quando sigiunge al conflitto, l’io soggettivo è colpevole quanto larealtà obiettiva66. Se la vita che delude è troppo arida,l’eroe deluso è però troppo sentimentale, poetico, uto-pico; alla vita manca, è vero, ogni tolleranza verso isognatori, ma a questi manca il senso della realtà.

Da questa concezione dell’io e del mondo, diversa daquella di Flaubert, dipende soprattutto la profonda dif-ferenza di forma tra il romanzo occidentale e quello tol-stoiano. Di fatto, questo è lontano dalla norma natura-listica almeno quanto quello di Dostoevskij; ma in sensoopposto. Se i romanzi di Dostoevskij hanno una strut-tura drammatica, i suoi hanno carattere epico, sonoveramente simili all’epos. Non c’è lettore attento chenon ne abbia sentito il maestoso, omerico fluire, l’am-piezza panoramica e il panteistico senso della vita. Tol-stoj stesso si era paragonato a Omero, e il paragone èdiventato una formula costante nella critica. Omerica èsempre apparsa la sua forma, aliena da ogni risalto

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romantico e drammatico, la sua rinunzia all’esaspera-zione e all’intensità del dramma. L’accentramento dram-matico del romanzo, maturato con il trapasso dallaforma picaresca del Settecento a quella biografica delpreromanticismo, non si riscontra ancora in Guerra epace. Egli considera il conflitto tra individuo e societànon come una tragedia inevitabile, ma come una cala-mità che egli, come i settecentisti, fa risalire alla man-canza di perspicacia, d’intelligenza e di serietà morale.Egli vive ancora nell’età illuministica della Russia, inun’atmosfera intellettuale di fiducia nel mondo e nel-l’avvenire. Ma, lavorando ad Anna Karenina, quell’otti-mismo viene meno, e soprattutto viene meno la sua fedenell’arte, dichiarata del tutto inutile, anzi dannosa, ameno che non rinunci alle raffinatezze e alle trovate delnaturalismo e dell’impressionismo moderno, e da arti-colo di lusso diventi bene comune dell’umanità. Nell’e-straniarsi dell’arte dalle grandi masse e nel restringersidel pubblico a una cerchia sempre piú angusta, Tolstojriconobbe un reale pericolo. È indubbio che l’ampliarsidi quella cerchia e il contatto con ceti culturalmentemeno esclusivi sarebbe stato un vantaggio per l’arte. Maun tale mutamento non poteva prodursi se non contra-stando l’attività degli artisti cresciuti nella tradizionedell’arte moderna e favorendo invece con ogni mezzo,e a svantaggio di quelli, l’attività dei dilettanti che a que-sta tradizione erano estranei? Col suo rifiuto della gran-de evoluzione dell’arte moderna e la sua predilezione perle forme dell’arte primitiva, «universalmente umana»,Tolstoj si palesa ancora discendente di Rousseau, nonmeno di quando contrappone il villaggio alla città eidentifica la questione sociale con quella dei contadini.Che per esempio egli trascurasse Shakespeare, è perfet-tamente comprensibile. Come poteva piacere il manie-rismo di un poeta, anche grandissimo, a un puritano cheodiava ogni forma di esuberanza e di virtuosismo? Ma

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è incomprensibile che il creatore di opere d’arte cosí raf-finate come Anna Karenina e La morte di Ivan Il´ic, intutta la letteratura moderna accettasse senza riserve,oltre a La capanna dello zio Tom, solo I masnadieri diSchiller, I Miserabili di Victor Hugo, I racconti di Nata-le di Dickens, Le memorie dalla casa dei morti diDostoevskij e Adam Bede di George Eliot67. L’atteggia-mento di Tolstoj di fronte all’arte può essere inteso sol-tanto come il sintomo di un mutamento storico, come ilsegno di un’evoluzione che conclude la cultura esteticadell’Ottocento e produce una generazione che nell’artetorna a vedere anzitutto la mediatrice delle idee68.

Questa generazione venerò nell’autore di Guerra epace non solo il grande poeta, non solo il creatore delmassimo romanzo della letteratura universale, ma piúancora il riformatore sociale e il fondatore di una reli-gione. Tolstoi ebbe la fama di Voltaire, la popolarità diRousseau, l’autorità di Goethe e, piú di tutto questo,divenne una figura leggendaria, il cui prestigio ricorda-va gli antichi veggenti e profeti. Jasnaja Poljana diven-ne meta di pellegrinaggio per uomini d’ogni nazione,classe e cultura, che ammiravano come un santo il vec-chio conte con la blusa da contadino. Gor´kij nondev’essere stato l’unico a pensare, vedendolo: «Que-st’uomo è simile a Dio!» Confessione di un miscreden-te che cosí chiude i suoi ricordi su Tolstoj69. E forse,come Thomas Mann, molti altri ebbero il senso chedopo la sua morte l’Europa fosse rimasta «senza padro-ne»70. Ma erano soltanto sentimenti e stati d’animo,parole di riconoscenza e di fedeltà. Senza dubbio Tol-stoj fu come la viva coscienza dell’Europa, il grandemaestro ed educatore che meglio di ogni altro seppeesprimere l’inquietudine morale e la volontà di rinno-vamento spirituale della sua generazione; ma con il suoingenuo orientamento alla Rousseau e con il suo quieti-smo non avrebbe certo potuto rimanere «padrone» del-

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l’Europa, se mai lo fu. Infatti, come pensava Ωechov,per un artista può bastare porre giustamente i problemi,ma per un uomo che debba regnare sul suo secolo ènecessario che sappia anche giustamente risolverli.

1 a. paul oppé, Art, in Early Victorian England, a cura di G. M.Young, 1934, II, p. 154.

2 ruskin, Stones of Venice, III, in Works, 1904, XI, p. 201.3 h. w. singer, Der Präraffaelismus in England, 1912, p. 51.4 Cfr. a. clutton-brock, William Morris. His Work and Influence,

1914, p. 9.5 d. c. somervell, English Thought in the 19th Century, 1947, 5a ed.,

p. 153.6 christian eckert, John Ruskin, in «Schmollers Jahrbuch», XXVI,

1902, p. 362.7 e. batho - b. dobrée, The Victorians and After, 1938, p. 112.8 a. clutton-brock, William Morris ecc. cit., p. 150.9 Ibid., p. 228.10 william morris, Art under Plutocracy, 1883.11 m. louis cazamian, Le Roman social en Angleterre (1830-1850),

II, 1935, pp. 250-51.12 Ibid., I, 1934, pp. 11-12, 163.13 w. l. cross, The Development of the English Novel, 1899, p. 182.14 m. l. cazamian, Le roman social ecc. cit., I, p. 8.15 a. h. thorndike, Literature in a Changing Age, 1920, pp. 24-25.16 Cfr. q. d. leavis, Fiction and the Reading Public, 1939, p. 156.17 g. k. chesterton, Charles Dickens, 1917, 11a ed., pp. 79, 84.18 amy cruse, The Victorians and their Books, 1936, 2a ed., p. 158.19 osbert sitwell, Dickens, 1932, p. 15. 20 Cfr. m. l. cazamian Le roman social ecc. cit., I, pp. 209 sgg. 21 t. a. jackson, Charles Dickens, 1937, pp. 22-23. 22 humphrey house, The Dickens World, 1941, p. 219. 23 Cfr. il discorso di Dickens a Birmingham il 27 settembre 1869. 24 Cfr. h. house, The Dickens World cit., p. 209. 25 hippolyte taine, Histoire de la littérature anglaise, 1864, IV, p. 66. 26 o. sitwell, Dickens cit., p. 16. 27 q. d. leavis, Fiction ecc. cit., pp. 33-34, 42-43, 158-59, 168-69. 28 m. l. cazamian, Le roman et les idées en Angleterre, I, 1923, p.

138. - elizabeth s. haldane, George Eliot and her Times, 1927, p. 292.29 p. bourl’honne, George Eliot, 1933, pp. 128, 135.30 ernest a. baker, History of the English Novel, VIIII, 1937, pp.

240-54.

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31 e. batho - b. dobrée, The Victorians and After cit., pp. 78-79,91-92.

32 george eliot, Middlemarch, 1871-72, XV.33 m. l. cazamian, Le roman social cit., p. 108.34 j. w. cross, George Eliot’s Life as related in her Letters and Jour-

nal, 1885, p. 230.35 f. r. leavis, The Great Tradition, 1948, p. 61.36 alfred wtzer, Die Not der geistigen Arbeiter, in «Schriften des

Vereins für Sozialpolitik», 1920.37 g. lukacs, Moses Hess und die Probleme der idealistischen Dialek-

tik, in «Archiv für die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiter-bewegung», xii, 1926, p. 123.

38 karl mannheim, Ideology and Utopy, 1936, pp. 136 sgg. - Manand Society in an Age of Reconstruction, 1940, pp. 79 sgg.

39 Cfr. hans speier Zur Soziologie der burggerlischen Intelligenz inDeutschland, in «Die Gesellschaft», II, 1929, p. 71.

40 d. s. mirsky, Contemporary Russian Literature, 1926, pp. 42-43.41 id., A History of Russian literature, 1927, p. 321-22. 42 m. n. pokrovsky, Brief History of Russia, I, 1933, p. 144. 43 d. s. mirsky, Russia. A Social History 1931, p 199. 44 janko lavrin, Pushkin and Russian Literature, 1947, p. 198. 45 d. s. mirsky, A History of Russian Literature, pp. 203-4. 46 Ibid., p. 204. 47 Ibid., p. 282. 48 t. g. masaryk, Zur russischen Geschichts- und Religionsphilo-

sophie, 1913, I, p. 126. 49 turgenev in una lettera a Herzen dell’8 novembre 1862. 50 e. h. carr, Dostoevsky, 1931. p. 268.51 nikolaj berdjaev, Mirosozercanie Dostoevskogo, Praha 1923 [trad.

it., La concezione di Dostoevskij, Torino 1945, p. 21].52 mirsky, A History of Russian Literature cit., p. 219. 53 e. h. carr, Dostoevsky cit., pp. 281 sgg. 54 Ibid., pp. 267-68. 55 dostoevskij, Diario di uno scrittore, febbraio 1877.56 edmund wilson, The Wound and the Bow, 1941, p. 50. - rex

warner, The Cull of Power, 1946, p. 41.57 Cfr. d. s. MEREZKOVSKIJ, Tolstoj i Dostoevskij [trad. ted., Tolstoj

und Dostojewskij, 1903, p. 232].58 vladimir pozner, Dostoievskij et le roman d’aventure, in «Euro-

pe» XXVII, 1931.59 Ibid., pp. 135-36.60 Cfr. lenon sestov, Dostoevskij i Nietzsche [trad. ted., Dostojew-

skij und Nietzsche, 1924, pp. 90-91].

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61 t. mann, Goethe und Tolstoi, in Bemühungen, 1925, p. 33 [trad.it., Goethe e Tolstòj, in Nobilità dello spirito, Milano 1954].

62 n. lenin, L. N. Tolstoi (1910), in n. lenin - g. plechanov, L. N.Tolstoi im Spiegel des Marxismus, 1928, pp. 42-44.

63 d. s. mirsky, Contemporary Russian Literature cit., p. 8.64 Ibid., p. 9. janko lavrin, Tolstoy, 1944, p. 94.65 d. s. mereikovskij, Tolstoij Dostoevskij cit., p. 183.66 g. lukács, Nagy orosz realisták, Budapest 1946, p. 92 [trad. it.,

Saggi sul realismo, Torino 1950].67 tolstoj, Che cosa è l’arte?, XVI.68 Cfr. t. mann, Die Forderung des Tages cit., p. 283.69 maksim gor’kij, Letteratura e vita.70 t. mann, Die Forderung des Tages cit., p. 278.

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Capitolo quarto

L’impressionismo

Il confine fra naturalismo e impressionismo è fluido,le due correnti non ammettono una precisa distinzionené storica, né concettuale. La gradualità del mutamen-to stilistico corrisponde alla continuità dello sviluppoeconomico dell’epoca e alla stabilità dei rapporti socia-li. Nella storia di Francia il 1871 ha un’importanza solotransitoria. Il predominio dell’alta borghesia rimanesostanzialmente intatto e all’impero «liberale» subentrala repubblica conservatrice: quella «repubblica senzarepubblicani»1, a cui ci si adatta, perché sembra assicu-rare il minor attrito possibile nella soluzione dei pro-blemi politici. Ma con essa ci si riconcilia soltanto dopoche essa ha sterminato i comunardi, confortandosi conla teoria del salasso necessario e benefico2. Gli intellet-tuali assistono perplessi agli avvenimenti. Flaubert, Gau-tier, i Goncourt e molti altri con loro si sfogano in vitu-peri e imprecazioni contro i perturbatori. Al massimo,dalla repubblica sperano un riparo contro il clericalismoe nella democrazia vedono il male minore3. Il capitali-smo finanziario e industriale continua la sua coerenteevoluzione secondo l’antico indirizzo; ma nel profondoavvengono mutamenti notevoli, sebbene ancora inav-vertiti. L’economia entra nello stadio del grande capi-talismo e da «libero gioco di forze» si trasforma in unsistema rigidamente organizzato e razionalizzato, in unafitta rete di sfere d’interessi, zone doganali, situazioni

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di monopolio, cartelli, trusts e sindacati. E come questoaccentramento sistematico dell’economia ha potuto esserdesignato come un fenomeno di senilità4, cosí dovunquenella società borghese si possono constatare indizi d’in-certezza e segni premonitori di dissoluzione. La Comu-ne finisce con una sconfitta cosí completa degli insorti,quale nessun’altra rivoluzione aveva ancora subito, maè la prima che sia sostenuta da un movimento operaiointernazionale, e la borghesia ne esce, sì, vittoriosa, macon il senso di un pericolo acuto5. È quest’intima crisia rinnovare le tendenze idealistiche e mistiche e a susci-tare contro il pessimismo prevalente la reazione di unforte movimento religioso. Soltanto nel corso di questoprocesso l’impressionismo, perde il contatto con il natu-ralismo e, specie nella poesia, si trasforma in una nuovaforma di romanticismo.

Gli enormi progressi della tecnica non valgono amascherare l’intima crisi del tempo. Anzi la crisi stessaè da considerarsi tra gli stimoli alle conquiste tecnichee al miglioramento dei metodi produttivi6. Certi aspet-ti dell’atmosfera di crisi si fanno sentire in tutte le mani-festazioni della tecnica. Soprattutto il ritmo freneticodello sviluppo e il succedersi forzato dei mutamentiappaiono patologici, specie se confrontati con il pro-gresso dei secoli precedenti e studiati nelle loro riper-cussioni sull’arte. Il rapido sviluppo della tecnica nonaffretta soltanto il variare delle mode, ma anche il muta-re del gusto artistico; sovente esso porta a un’assurda esterile smania di novità, a una incessante aspirazione alnuovo in quanto nuovo. Gli imprenditori debbonoaccrescere ad arte il bisogno di prodotti piú moderni ealimentare continuamente l’idea che la cosa nuova siasempre la migliore, se vogliono realmente trarre profit-ti dalle conquiste della tecnica7. Ma la continua e sem-pre piú frequente sostituzione dei vecchi oggetti d’usofa sí che diminuisca sempre piú l’attaccamento alle cose

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materiali, e ben presto anche a quelle dello spirito, sic-ché il ritmo dei mutamenti in campo filosofico e artisticofinisce per adattarsi a quello delle mode. La tecnicamoderna provoca cioè una inaudita dinamizzazione dellaconcezione del mondo, ed è essenzialmente questonuovo senso dinamico che si esprime nella vita.

Un fenomeno imponente che va connesso con il pro-gresso tecnico è lo svilupparsi dei centri di cultura invere e proprie metropoli moderne; queste sono il terre-no in cui l’arte nuova affonda le sue radici. L’impres-sionismo è l’arte urbana per eccellenza, e non solo per-ché scopre la città e alla città riporta, dalla campagna,la pittura di paesaggio, ma anche perché vede il mondocon gli occhi del cittadino e reagisce alle impressioni dal-l’esterno con l’ipertensione nervosa dell’uomo educatoalla tecnica moderna. È uno stile urbano, perché ritraela mutevolezza, il ritmo nervoso, le impressioni subita-nee, nette ma labili, della vita cittadina. E appuntocome tale rappresenta un’immensa espansione della per-cezione sensoriale, una nuova, acuita sensibilità, unanuova eccitabilità nervosa e, accanto all’arte gotica e alromanticismo, rappresenta una fra le piú importantisvolte nella storia dell’arte occidentale. Nel processodialettico che percorre la storia della pittura, nell’alter-narsi di stasi e dinamismo, disegno e colore, ordineastratto e vita organica, l’impressionismo segna l’acmedella tendenza dinamica che dissolve interamente la sta-tica visione medievale. Come dall’economia del tardoMedioevo al grande capitalismo corre una linea ininter-rotta di sviluppo, cosí anche dall’arte gotica all’impres-sionismo; e l’uomo moderno, che concepisce tutta lasua vita come lotta e gara, che traduce in movimento emutamento ogni forma di vita, che sente l’esperienza delmondo sempre piú come esperienza del tempo, è il pro-dotto di questo processo duplice, ma fondamentalmen-te unitario.

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Il prevalere del momento sulla durata e la stabilità,il senso che ogni fenomeno è una costellazione transi-toria e irripetibile, una labile onda del fiume in cui nonsi scende due volte, è la piú semplice formula a cui si puòridurre l’impressionismo. Tutto il metodo impressioni-stico, con i suoi mezzi e i suoi trucchi, non mira che adesprimere questa visione eraclitea, sottolineando che larealtà non è un essere, ma un divenire, non uno stato,ma un evento. Ogni quadro impressionistico è il sedi-mento di un istante nel perpetuum mobile della vita, larappresentazione di un labile equilibrio sempre minac-ciato nel gioco delle opposte forze. La visione impres-sionistica trasforma il quadro naturale in un processo, inqualche cosa che si forma e svanisce. Ogni cosa stabilee coerente, si risolve in essa in metamorfosi e la realtàvi assume un volto non-finito e imperfetto. Viene cioèperfettamente reso l’atto soggettivo del vedere, non piúl’obiettivo substrato di esso vedere, con cui s’inizia lastoria della moderna pittura prospettica. La rappresen-tazione della luce, dell’aria, dell’atmosfera, la scompo-sizione della superficie colorata in macchie e tocchi, ladissoluzione del colore locale in tono, in valori prospet-tici e atmosferici, il gioco dei riflessi e delle ombre schia-rite, il tocco virgolato, tremulo e guizzante e la pennel-lata scoperta, fluida, libera, tutto quel dipingere allaprima con il rapido disegno appena schizzato, il colpod’occhio fuggevole, apparentemente distratto, e l’im-magine resa con virtuosistica approssimazione, in ulti-ma analisi altro non esprimono se non quel senso di unarealtà mobile, dinamica, sempre mutevole che è comin-ciato con la soggettivizzazione della rappresentazionepittorica attraverso la prospettiva.

Un mondo di fenomeni che senza posa si rinnova perinnumerevoli, impercettibili passaggi, suscita l’impres-sione di un continuo in cui tutto confluisce; sicché amutare è solo l’atteggiamento, il punto di vista dell’os-

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servatore. Un’arte adeguata a questo mondo non soloaccentuerà il carattere momentaneo e transitorio deifenomeni, non solo vedrà nell’uomo la misura delle cose,ma cercherà il criterio del vero nell’hic et nunc dell’in-dividuo. Il caso sarà per essa il principio di ogni esi-stenza e la verità del momento toglierà valore ad ognialtra verità. Il primato dell’istante, del divenire e delcaso significa, espresso in termini estetici, il prevaleredello stato d’animo sulla vita, cioè di un rapporto conle cose, caratterizzato non solo dalla mutevolezza, madalla mancanza di qualsiasi impegno. In questa tenden-za dell’arte si esplica un atteggiamento fondamental-mente passivo di fronte alla vita, un adattarsi alla partedi spettatore, di soggetto recettivo e contemplante, cioèuna posizione di distacco, di attesa, di neutralità –insomma, il puro atteggiamento estetico. L’impressio-nismo è al sommo di questa cultura ed è l’estrema con-seguenza della rinunzia romantica alla vita attiva.

Come stile, l’impressionismo è un fenomeno singo-larmente complesso. Per certi aspetti esso rappresentasoltanto la coerente evoluzione del naturalismo. Se conquesto termine s’intende il passaggio dal generale al par-ticolare, dal tipico all’individuale, dall’idea astratta all’e-sperienza concreta, determinata nel tempo e nello spa-zio, la rappresentazione impressionistica della realtà,proprio in quanto accentua l’elemento momentaneo eirripetibile, rappresenta una importante conquista delnaturalismo. I quadri impressionistici sono piú viciniall’esperienza dei sensi di quelli naturalistici in sensostretto, e per la prima volta nella storia dell’arte sosti-tuiscono totalmente all’oggetto del sapere teorico quel-lo dell’immediata esperienza visiva. Senonché, separan-do gli elementi ottici da quelli concettuali ed elaboran-do il dato visivo nella sua autonomia, l’impressionismosi allontana da tutta la pratica dell’arte precedente equindi anche dal naturalismo. Mentre finora si tendeva

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a un’immagine che, pur unificata nella coscienza, eratuttavia composta di elementi eterogenei, concettuali esensoriali, il metodo proprio dell’impressionismo tendea ottenere una omogeneità dell’immagine puramentevisiva. Ogni arte precedente era il risultato di una sin-tesi; l’impressionismo, di un’analisi. Ogni volta essocostruisce il suo oggetto dai puri dati dei sensi, risalen-do all’inconscio meccanismo psichico, e in parte esso for-nisce un materiale d’esperienza ancora grezzo, piú lon-tano dalla consueta immagine della realtà di quanto losiano le impressioni sensoriali elaborate razionalmente.L’impressionismo è meno illusionistico del naturalismo,non dà l’illusione, ma gli elementi dell’oggetto; invecedi un’immagine totale, dà i singoli elementi di cui sicompone l’esperienza. Prima dell’impressionismo l’arteriproduceva gli oggetti per mezzo di segni, ora li rap-presenta attraverso le loro componenti, attraverso ele-menti della materia prima di cui sono composti8.

Rispetto all’arte piú antica, il naturalismo aveva signi-ficato un ampliamento del patrimonio della pittura,aveva accresciuto i temi e arricchita la tecnica. Inveceil metodo impressionistico implica una serie di riduzio-ni, un sistema di limitazioni e semplificazioni9. Nulla èpiú tipico per un dipinto impressionista del fatto che sidebba contemplarlo da una certa distanza e ch’essoritragga le cose con le omissioni proprie della veduta dalontano. La serie delle riduzioni comincia limitando glielementi figurativi alla pura visualità ed eliminandotutto quello che non è di natura ottica o traducibilenelle categorie dell’ottica. La rinunzia ai cosiddetti ele-menti letterari del soggetto, al racconto o all’aneddoto,è l’espressione piú evidente di questo «ripiegare dellapittura sui propri mezzi». Che i temi figurativi si ridu-cano al paesaggio, alla natura morta e al ritratto, o cheogni altro soggetto venga trattato come «paesaggio» o«natura morta», non è che un sintomo che rivela il pre-

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dominio di uno specifico «pittoricismo»: «La scelta diun soggetto non per se stesso, ma per i suoi toni è ciòche distingue gli impressionisti dagli altri pittori», con-stata già uno dei primi storici e teorici del movimento10.Questa tendenza a materializzare, a neutralizzare iltema, può essere considerata come espressione dei sen-timenti antiromantici dell’epoca, una forma di comple-ta diseroicizzazione dei soggetti artistici, ma può ancheessere intesa come un allontanamento dalla realtà; e latendenza a limitare la pittura a soggetti specifici puòapparire come una perdita da un punto di vista natura-listico. Il sorriso, che i Greci avevano dato all’arte figu-rativa e che, come qualcuno ha osservato, va perdendo-si nell’arte moderna11, è sacrificato alla visione «pittori-ca»; ma con esso scompare dalla pittura ogni psicologiae ogni umanesimo.

La sostituzione dell’immagine visiva all’immagineplastica, cioè la traduzione in superficie del volume deicorpi e della forma plastico-spaziale, è un grado ulterio-re, anch’esso legato alla tendenza «pittorica» dell’epo-ca, nella serie di quelle riduzioni che l’impressionismoimpone all’immagine naturalistica della realtà. Questaperò non è il fine, ma soltanto una conseguenza latera-le del metodo. È solo per meglio accentuare gli effetticromatici e per il desiderio di trasformare la superficiedel quadro in un’armonia di effetti di colore e di luce,che lo spazio viene assorbito e viene dissolta la struttu-ra dei corpi. L’impressionismo, oltre a ridurre la realtàa una superficie bidimensionale, la semplifica ancora inun sistema di macchie senza contorno; rinunzia insom-ma alla plastica e al disegno, alla forma spaziale e a quel-la lineare. È indiscutibile che in questo modo la rap-presentazione acquista, in luogo della chiarezza e del-l’evidenza che innegabilmente perde, energia e fascinosensuale, e questo appunto premeva agli impressionisti.Ma il pubblico sentí la perdita piú dell’acquisto, ed è

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impossibile per noi moderni, per i quali la visioneimpressionistica è ormai uno dei fattori piú importantidella nostra esperienza visiva, immaginare la perplessitàsuscitata da quell’intrico di macchie, tocchi e sgorbi.L’impressionismo fu certo l’ultimo passo di un secolareprocesso di involuzione formale. Fin dall’età barocca lapittura era diventata sempre piú difficile per il pubbli-co; si era fatta sempre meno nitida, e sempre piú com-plicato era divenuto il suo rapporto con la realtà. Ma intutto questo processo l’impressionismo rappresenta cer-tamente il salto piú ardito, e lo scandalo delle primeesposizioni non è comparabile a quello di nessun’altranovità artistica. La tecnica sommaria e la mancanza diforma degli impressionisti parvero una provocazione;furono prese come una beffa e il pubblico se ne vendicònel modo piú crudele.

Ma la serie delle riduzioni di cui il metodo si servenon si esaurisce qui. Gli stessi colori usati dall’impres-sionismo mutano e deformano l’immagine della comu-ne esperienza. Ad esempio, per noi un pezzo di carta«bianco» è bianco, comunque sia illuminato, nonostan-te i riflessi colorati ch’esso mostra alla luce diurna. Inaltri termini, il «colore della memoria», che noi asso-ciamo a un oggetto e che risulta da lunga esperienza eabitudine, soverchia la concretezza dell’esperienzaimmediata12; ora l’impressionismo al di là del colorementale, teorico, ritrova la percezione reale, il che d’al-tronde non è un atto spontaneo, ma rappresenta un pro-cesso psicologico quanto mai artificioso e complicato.

La visione impressionistica infine compie un’altrasensibilissima riduzione sull’immagine consueta dellarealtà, mostrando i colori non come qualità concrete,legate al singolo oggetto, ma come fenomeni cromaticiastratti, incorporei, immateriali – per cosí dire, colori insé. Se davanti a un oggetto mettiamo uno schermo conuna piccola apertura, che lasci vedere un colore, ma non

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consenta di farsi nessuna idea della forma dell’oggettoe del suo rapporto con quel determinato colore, noi,com’è noto, otteniamo un’impressione di colore sciolta,incorporea, fluttuante, di natura diversissima da quelladei colori che siamo abituati a vedere inscindibili dallaforma dell’oggetto. In questo modo il fuoco perde il suosplendore, la sera il suo riflesso, l’acqua la sua traspa-renza, e cosí via13. Ora l’impressionismo dipinge sempregli oggetti in questi incorporei colori di superficie che,cosí freschi e intensi, producono un’impressione imme-diata, ma diminuiscono considerevolmente l’illusioni-smo della rappresentazione e rivelano chiarissima la con-venzionalità del metodo.

Nella seconda metà dell’Ottocento la pittura è l’arted’avanguardia. L’impressionismo ha già raggiunto unasua autonomia, quando in letteratura si combatte anco-ra per il naturalismo. La prima esposizione collettivadegli impressionisti è del 1874, ma la storia dell’im-pressionismo comincia circa vent’anni prima e finisce nel1886, con l’ottava esposizione del gruppo. Questo siscioglie verso quell’anno e si apre da allora un nuovoperiodo, post-impressionistico, che dura fino alla mortedi Cézanne, nel 190614. Dopo il predominio della lette-ratura nel Sei e nel Settecento e quello della musica nel-l’età romantica, verso la metà dell’Ottocento è la voltadella pittura. Il critico d’arte Asselineau già verso il1840 constata che la pittura ha detronizzato la poesia15

e, una generazione piú tardi, i fratelli Goncourt escla-mano con entusiasmo: «Che felice professione è quelladel pittore rispetto a quella del letterato!»16. Non solola pittura domina tutte le altre arti come la piú progre-dita del tempo, ma anche qualitativamente le sue crea-zioni superano la letteratura contemporanea, specie inFrancia, dove si è potuto dire con ragione che i grandipoeti di quegli anni sono i pittori impressionisti17. È veroche l’arte dell’Ottocento rimane in certa misura roman-

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tica, cioè «musicale», e i poeti del secolo confessano diaver nella musica il loro supremo ideale; ma con ciò essiintendono un simbolo della sovrana forza creatrice, indi-pendente dalla realtà obiettiva, piú che l’esempio con-creto della musica. Invece la pittura impressionisticascopre sensazioni, che in seguito anche la poesia e lamusica si sforzeranno di esprimere, adattando il propriolinguaggio alle forme pittoriche. Le impressioni atmo-sferiche, specialmente l’esperienza della luce, dell’aria edella chiarità colorata sono percezioni proprie della pit-tura, e quando le altre arti cercano di riprodurle è giu-stificato parlare di «pittoricismo» della poesia e dellamusica. «Pittorico» per altro è lo stile di queste artianche quando esse si esprimono in forme «senza con-torni», ricorrendo ad effetti di colore e di luce, e dànnopiú importanza alla vivacità dei particolari che all’unitàdell’impressione complessiva. Quando Paul Bourgetconstata, a proposito dello stile letterario del suo tempo,che l’impressione delle singole pagine è sempre piú fortedi quella di tutto il libro, che la frase colpisce piú dellapagina e la parola piú della frase18, egli caratterizza ilmetodo dell’impressionismo, stile di una visione atomi-stica e dinamica del mondo.

L’impressionismo tuttavia non è soltanto lo stile deltempo, che domina in tutte le arti, è anche l’ultimo stile«europeo», l’ultima corrente artistica che possa conta-re su un generale consenso del gusto. Dopo, non si avràpiú uno stile unitario che comprenda le diverse arti o lacultura delle diverse nazioni. Ma l’impressionismo noncessa né sorge all’improvviso. Delacroix, che scopre lalegge dei colori complementari e delle ombre colorate,e Constable, che constata la composizione complessadegli effetti di colore in natura, precorrono in piú modiil metodo impressionistico. Il dinamizzarsi della visione,che costituisce l’essenza dell’impressionismo, cominciasenza dubbio con loro. I rudimenti del plein air speri-

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mentati dai pittori di Barbizon sono un altro passo suquella via. Ma al sorgere dell’impressionismo comemovimento collettivo contribuiscono soprattutto l’e-sperienza pittorica della città i cui primi segni si hannoin Manet e in Monet, e anche la coalizione delle ener-gie giovanili provocata dall’ostilità del pubblico. A primavista può apparire sorprendente che la grande città, cosíaffollata e promiscua, abbia potuto nutrire quest’artecosí intima, cosí radicata nel sentimento dell’individua-lità e della solitudine. Ma, com’è noto, nulla isola quan-to la stretta vicinanza di troppa gente e in nessun luogoci si trova cosí soli e abbandonati come in una gran follaestranea. I due fondamentali sentimenti, che la vita insimile ambiente provoca, il senso di esser soli e inosser-vati e l’impressione vertiginosa del traffico, del motoincessante, del continuo mutamento, sono quelli chedeterminano la visione impressionistica, visione che uni-sce gli stati d’animo piú sottili con il piú rapido avvi-cendarsi delle sensazioni. E altrettanto sorprendentepuò apparire a prima vista l’osservazione che l’atteggia-mento ostile del pubblico ha dato impulso al movimen-to impressionista. Gli impressionisti non furono maiaggressivi di fronte al pubblico; volevano rimanere nelquadro delle tradizioni e spesso fecero sforzi disperatiper ottenere il placet delle sfere ufficiali, soprattutto alSalon, considerato la normale via del successo. In ognicaso lo spirito di contraddizione e il desiderio di attira-re l’attenzione con mezzi sbalorditivi è molto meno rile-vante in loro che nella maggior parte dei romantici e inmolti naturalisti. E tuttavia non c’era forse mai statascissione cosí profonda tra gli ambienti ufficiali e gli arti-sti della nuova generazione, né mai era stato cosí fortenel pubblico il senso di esser gabbato. Non si può direche gli impressionisti aiutassero la gente a capire le loroidee – ma che dire di un pubblico che quasi lasciava

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morire di fame artisti cosí grandi, onesti, pacifici comeMonet, Renoir e Pissarro!

Né d’altra parte l’impressionismo aveva in sé alcunelemento plebeo che potesse respingere il borghese; anziè uno «stile aristocratico», elegante e arguto, nervoso esensibile, sensuale ed epicureo, amante del prezioso e delraro, ispirato da esperienze strettamente personali, dalsenso della solitudine e dell’isolamento, da sensi e nerviraffinatissimi. D’altra parte esso è opera di artisti chenon solo vengono in gran parte dal popolo e dalla pic-cola borghesia, ma che di problemi estetici e intellettualisi occupano assai meno dei colleghi della generazioneprecedente; sono molto meno versatili e complicati, piúschiettamente artigiani e «tecnici» dei predecessori. Mafra loro si trovano anche borghesi agiati e perfino ari-stocratici: Manet, Bazille, Berthe Morisot e Cézannesono di famiglia ricca, Degas è un aristocratico e Tou-louse-Lautrec discende da un grande casato. L’intelli-gente e mondana raffinatezza di Manet e di Degas, e lascaltrita originalità di Constantin Guy e di Toulouse-Lautrec mostrano sotto l’aspetto piú attraente la cospi-cua società borghese del Secondo Impero, il mondo dellecrinoline e dei décolletés, delle carrozze e dei cavalli dasella al Bois.

Nella storia letteraria il quadro è assai piú complica-to che nella pittura. Come stile letterario, l’impressio-nismo non è un fenomeno nettamente definito; i suoiinizi non si possono facilmente discernere dal comples-so del naturalismo, e le sue forme piú evolute si confon-dono completamente con le manifestazioni del simboli-smo. Anche cronologicamente si può osservare un certodivario fra l’impressionismo letterario e quello pittori-co: il suo periodo piú fecondo è già passato nella pittu-ra, quando comincia appena a definirsi nella poesia. Mala distinzione maggiore sta nel fatto che l’impressioni-smo in letteratura perde abbastanza presto il contatto

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con il naturalismo, il positivismo, il materialismo, equasi subito si fa l’araldo di quella reazione idealisticache in pittura si fa strada solo dopo la disgregazione delgruppo impressionista. Il fenomeno trova la sua spiega-zione soprattutto nel fatto che l’élite culturale conser-vatrice ha fra i letterati un peso incomparabilmentemaggiore che fra i pittori, assai piú difesi, per la lorostessa formazione artigiana, di mestiere, contro gli assal-ti dello spiritualismo.

La crisi del naturalismo, semplice sintomo di quelladel positivismo, si palesa solo verso il 1885, ma se nepossono constatare i segni premonitori fin dal 1870. Inemici della repubblica sono per lo piú nemici del razio-nalismo, del materialismo e del naturalismo; combatto-no il progresso scientifico e si attendono la rinascitadello spirito da un rinnovamento religioso. Parlano di«bancarotta della scienza», di «fine del naturalismo», di«arido meccanizzarsi della civiltà»; ma quando si sca-gliano contro il materialismo del tempo, pensano sem-pre alla rivoluzione, alla repubblica, al liberalismo. Se iconservatori hanno perduto il loro influsso sul governo,hanno però mantenuto la loro autorità nella vita pub-blica. Occupano sempre i posti piú importanti nell’am-ministrazione, nella diplomazia, nell’esercito e dirigonol’istruzione pubblica, specie nei gradi superiori19. Liceie università sono ancora dominio del clero e dell’altafinanza, e di qui si diffondono gli ideali della cultura chesi affermano piú che mai fra i letterati. Gli scrittori diformazione accademica sono assai piú numerosi diprima, e sotto il loro influsso la vita intellettuale acqui-sta un prevalente aspetto reazionario. Flaubert, Mau-passant e Zola non erano dei dotti; Bourget e Barrèsinvece rappresentano lo spirito dell’accademia e dell’u-niversità; in certo modo essi si sentono responsabili delpatrimonio culturale della nazione e si presentano nellaloro missione di guide intellettuali della gioventú20. L’in-

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tellettualizzarsi della letteratura è forse il tratto piú spic-cato e generale dell’epoca; esso si manifesta sia negliscrittori progressisti, sia nei conservatori21. Per questoaspetto Anatole France non si distingue minimamentedai suoi colleghi clericali e nazionalisti. Ma se di fronteai Bourget, ai Barrès, ai Brunetière, ai Bergson, ai Clau-del troviamo un solo Anatole France, l’autorità di que-sto erede di Voltaire prova che in Francia non è mortolo spirito dell’illuminismo. D’altra parte, casi come ilprocesso Dreyfus e lo scandalo del canale di Panamasono fatti apposta per destarlo dal letargo.

Intorno al 1870 la Francia attraversa una delle suepiú gravi crisi intellettuali e morali; ma quella «Sedanintellettuale», contrariamente all’asserzione di Barrès22,non dipende affatto dal disastro militare, e la «mortalestanchezza» non deriva, come crede Bourget, dal mate-rialismo e dal relativismo. Da quella stanchezza dellavita non vanno esenti né Bourget né Barrès, come nonlo erano stati Baudelaire e Flaubert. Si tratta ancoradella malattia romantica del secolo e il naturalismo zolia-no, che la generazione del 1885 tratta da capro espia-torio, rappresenta in realtà l’unico tentativo serio, ben-ché insufficiente, di superare il nichilismo che si è impa-dronito degli animi. Il panorama letterario verso il 1890è dominato dagli assalti contro Zola e dalla dissoluzio-ne del movimento naturalistico, come tendenza domi-nante. Questa è l’impressione piú forte che si ricavadalle risposte all’inchiesta promossa da Jules Huret, col-laboratore de «L’Echo de Paris», che nel 1891 furonopubblicate in volume sotto il titolo Enquéte sur l’évolu-tion littéraire e costituiscono uno dei documenti piúimportanti sullo sviluppo culturale di quegli anni. Huretchiese a sessantaquattro scrittori, fra i piú noti al pub-blico francese, che cosa pensassero del naturalismo: sepotesse ancora salvarsi o fosse già morto e, se mai, qualecorrente letteraria lo avrebbe sostituito. La gran mag-

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gioranza degli interrogati, e, fra i primi, molti ex disce-poli di Zola, diedero per spacciato il paziente. Solo ilfedele Paul Alexis si affrettò a telegrafare: «Naturalismepas mort. Lettre suit», come se volesse evitare la diffu-sione di una voce pericolosa. Ma la sua fretta non servía nulla. La voce si diffuse e il naturalismo fu rinnegatoanche da quelli che gli dovevano tutta la loro vita di arti-sti. Eppure fra questi c’erano molti fra i migliori dell’e-poca. Infatti che cosa è stata fino allo scorcio del seco-lo la letteratura valida, e che cos’è, in parte, ancor oggi,se non naturalismo distruttore di formule, teso ad arric-chire sempre piú i contenuti dell’esperienza? Soprat-tutto il «romanzo psicologico» di Bourget, Barrès, Huy-smans e ancora quello di Proust cos’era se non il pro-dotto di un’osservazione naturalistica, intenta al docu-ment humain? È vero che alcuni tratti antinaturalisticisono inscindibili dall’impressionismo letterario come daquello pittorico, ma rampollano anch’essi dal terreno delnaturalismo. L’accanimento del pubblico nel reagire con-tro di esso appare a prima vista inspiegabile. Gli argo-menti contro il naturalismo non erano nuovi; è stranoinvece che ci si ribellasse contro di esso con tanta acri-monia nel momento in cui sembrava essere vittorioso.Che cosa non si poteva, o si fingeva di non poter per-donare al naturalismo? Si afferma ch’esso è un’arte bru-tale, oscena, espressione di un piatto materialismo, stru-mento di una stupida, grossolana propaganda democra-tica, una raccolta di noiose, futili volgarità, una rappre-sentazione della realtà che descrive nell’uomo solo labestia selvaggia, feroce, sfrenata, nella società soltantol’opera della distruzione, il dissolversi dei rapportiumani, il disgregarsi della famiglia, della nazione e dellareligione; insomma, esso è distruttivo, contro natura,ostile alla vita. La generazione del 1850 combattendo ilnaturalismo difendeva semplicemente gli interessi deiceti superiori; quella del 1885 lo combatte per difende-

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re l’umanità, la vita feconda, il buon Dio. La religioneci ha forse guadagnato, non certo la sincerità.

Si farnetica sui misteri dell’essere e gli abissi dell’a-nima; si chiama piatto ciò che è ragionevole e si vuoleesplorare, sperimentare l’ignoto, l’inconoscibile. Si faprofessione di «ideali ascetici» negatori del mondo, masi trascura di chiedersi con Nietzsche a che cosa essi ser-vano in realtà. Il simbolismo è la corrente letteraria inauge; Verlaine e Mallarmé sono al centro dell’interessegenerale. I piú grandi nomi del movimento romantico,Chateaubriand, Lamartine, Vigny, Musset, Mérimée,Gautier, George Sand non compaiono nemmeno nellerisposte ricevute da Huret23. Si scoprono in quest’oc-casione Stendhal e Baudelaire, ci si entusiasma per Vil-liers de l’Isle-Adam e Rimbaud, si crea la moda delromanzo russo, del preraffaellismo inglese e della filo-sofia tedesca.

Ma l’influsso piú profondo e fecondo è quello di Bau-delaire; egli appare il massimo precursore della poesiasimbolista e il creatore della lirica moderna. È lui ariportare la generazione di Bourget e Barrès, Huysmanse Mallarmé sulla via dell’estetismo romantico, inse-gnando a conciliare il nuovo misticismo con il vecchiofanatismo per l’arte.

Con gli impressionisti, l’estetismo giunge al colmo delsuo sviluppo. Ormai i suoi tratti caratteristici, l’atteg-giamento passivo, puramente contemplativo, di frontealla vita, la fugacità dell’esperienza che non impegna eil sensualismo edonistico sono i soli criteri dell’arte.L’opera non solo è considerata fine a se stessa, come ungioco il cui fascino andrebbe distrutto con l’imposizio-ne di un qualsiasi scopo estraneo all’arte, non solo ètenuta il piú bel dono della vita, al cui godimento occor-re prepararsi devotamente, ma nel suo splendido isola-mento, nella sua indifferenza per tutto ciò che è fuoridella sua sfera, essa diventa modello di vita: la vita del

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dilettante che ora nella stima dei poeti comincia a sosti-tuire gli antichi eroi dello spirito, e diventa l’ideale finde siècle. Ciò che soprattutto è tipico del dilettante è ilsuo proposito di «far della sua vita un’opera d’arte»,cioè qualcosa di lussuoso e d’inutile, qualcosa che scor-re libero e prodigo, interamente dedito alla bellezza, allaforma pura, all’armonia dei colori e delle linee. L’este-tismo imperante, che eleva a stile di vita l’inutile e ilsuperfluo, è la quintessenza della rassegnazione e dellapassività romantica. Anzi esso esagera il romanticismo;non solo rinunzia alla vita per amore dell’arte, ma inquesta cerca la giustificazione della vita. Considera l’o-pera d’arte come l’unico compenso alle delusioni, la veraattuazione e il compimento dell’esistenza, in sé sempreimperfetta e confusa. Ma ciò significa non solo che lavita sublimata nelle forme dell’arte appare piú bella eattraente, ma che – secondo la concezione di Proust,l’ultimo grande impressionista ed edonista – soltanto nelricordo, nella visione, nell’esperienza estetica essa sidispiega in pregnante realtà. Noi siamo maggiormentepresenti e partecipi delle nostre esperienze non quandoincontriamo realmente gli uomini e le cose – il «tempo»e la presenza sono qui sempre «perduti» –, ma quando«ritroviamo il tempo», quando cioè non siamo piú atto-ri, ma spettatori della nostra vita, quando creiamo opered’arte o le godiamo, cioè quando ricordiamo. In Proustper la prima volta l’arte s’impadronisce di quel che Pla-tone le rifiutava: le idee, il ricordo adeguato alle formeessenziali dell’essere.

Il moderno estetismo, in quanto atteggiamento passi-vo e puramente contemplativo di fronte alla vita, risalenel suo fondamento teoretico a Schopenhauer, che defi-nisce l’arte riscatto dalla volontà, elemento sedativo cheriduce al silenzio avidità e passioni. La concezione este-tica del mondo giudica e valuta l’intera esistenza dalpunto di vista di quest’arte abulica e apatica. Il suo idea-

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le è un pubblico tutto di artisti veri o potenziali, natureper cui la realtà costituisce soltanto il substrato di espe-rienze estetiche. Il mondo civile è per essi un grande stu-dio d’artista e l’artista stesso è il miglior intenditored’arte. D’Alembert poteva ancora ammonire: «Guaiall’arte che riservi la sua bellezza agli artisti!» Ma ch’e-gli si sentisse indotto a questo ammonimento prova cheil pericolo dell’estetismo esisteva già nel Settecento; nelSeicento un’idea simile non sarebbe venuta a nessuno. Eper l’Ottocento quel che D’Alembert temeva non è piúun pericolo. I Goncourt vedono nelle sue parole la piúgran sciocchezza che si possa immaginare24, e soprattut-to sono profondamente persuasi che la prima condizio-ne per intendere adeguatamente l’arte sia una vita ad essadedicata, cioè il suo esercizio pratico.

L’estetismo dell’epoca impressionistica segna l’iniziodi una degenerazione profonda. Gli artisti creano per gliartisti e l’arte, cioè l’esperienza formale del mondo subspecie artis, si riduce ad avere come suo unico soggettol’arte stessa. La rozza, informe, vergine natura perde ilsuo fascino estetico e l’ideale della naturalezza cede ilposto a quello dell’artificio. La città con la sua culturae i suoi piaceri, la vie factice e i paradis artificiels non sol-tanto paiono incomparabilmente piú attraenti, ma ancheassai piú intelligenti e spirituali del cosiddetto fascinodella natura. Questa di per sé è brutta, volgare, infor-me; soltanto l’arte la rende piacevole. Baudelaire odiala campagna, i Goncourt nella natura scorgono unanemica, e i piú tardi esteti, specialmente Whistler eWilde, ne parlano con sprezzante ironia. È la fine del-l’Arcadia, del romantico entusiasmo per la natura e dellafede nell’identità di natura e ragione. Si conclude cosíla reazione a Rousseau e al culto, da lui promosso, dellostato di natura. Tutto ciò che è semplice e chiaro, istin-tivo ed ingenuo perde valore; si insiste invece sulla con-sapevolezza, l’intellettualismo e l’artificio della cultura.

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Nello stesso processo della creazione artistica si scoprela partecipazione dell’intelligenza e delle facoltà razio-nali. La fantasia dell’artista produce di continuo cosebuone, mediocri, cattive, – afferma Nietzsche; – solo ilsuo giudizio scarta, sceglie e ordina il materiale dispo-nibile25. In fondo anche quest’idea, come tutta la filo-sofia della vie factice, procede da Baudelaire, che vuoltrasformare «il diletto in conoscenza», nel poeta vuolsempre vedere anche il critico26 e nel suo entusiasmo pertutto quel ch’è artificioso va cosí oltre da considerare lanatura anche moralmente inferiore. Egli afferma che ilmale accade senza sforzo, cioè naturalmente, mentre ilbene è sempre il prodotto di un’arte, è cioè artificiale,innaturale27.

Tuttavia l’entusiasmo per l’artificio della cultura nonè che una nuova forma dell’evasione romantica. Si sce-glie la vita artificiosa e fittizia, perché la realtà nonpotrebbe mai esser bella come l’illusione, e ogni contattocon la realtà, ogni tentativo di attuare sogni e desiderifinisce col corromperli. Solo che ora fuggendo dallarealtà sociale non ci si rifugia nella natura, come face-vano i romantici, ma in un mondo artificiale, piú alto,sublimato. Nell’Axel di Villiers de l’Isle-Adam (pubbli-cato postumo nel 1890), una delle classiche espressionidel nuovo senso della vita, le forme intellettuali e fan-tastiche prevalgono sempre su quelle naturali e pratiche,e i desideri inadempiuti appaiono sempre piú perfetti esoddisfacenti del loro attuarsi nella realtà comune e vol-gare. Axel vuole uccidersi insieme con l’amata Sara.Essa è pronta a morire con lui, ma prima vorrebbe cono-scere la felicità di una notte d’amore. Tuttavia Axelteme che dopo gli mancherà il coraggio di morire e cheil loro amore, come tutti i sogni avverati, non resisteràalla prova del tempo. Egli preferisce la perfetta illusio-ne all’imperfetta realtà. Da questo sentimento deriva piúo meno tutto il mondo ideale dei neoromantici; dap-

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pertutto c’imbattiamo in un Lohengrin che, per dirlacon Nietzsche, lascia in asso la sua Elsa nella notte dellenozze. «Vivere? – domanda Axel: –ci pensano i nostriservi per noi». In A rebours di Huysmans (1884), il testofondamentale di questo estetismo timoroso della natu-ra e del mondo, la sostituzione della vita mentale allavita pratica è ancora piú completa. Des Esseintes, ilcelebre eroe del romanzo, il prototipo di tutti i DorianGray, si isola cosí ermeticamente dal mondo, che nonosa piú nemmeno intraprendere un viaggio, perché temedi essere deluso dalla realtà. È lo stesso paralizzante sog-gettivismo ostile alla vita che si esprime nel tedio dellanatura. «Il tempo della natura – dice Des Esseintes – èpassato. Essa ha ormai esaurito la pazienza degli spiritiraffinati con la stucchevole monotonia dei suoi paesag-gi e dei suoi cieli». Per quegli spiriti non c’è che una via:rendersi del tutto indipendenti e sostituire la naturacon lo spirito, la realtà con la finzione. Si tratta di tor-cere quel ch’è diritto, di invertire ogni impulso e ogniinclinazione naturale. Des Esseintes vive nella sua casacome in un chiostro, non fa né riceve visite, non scrivené riceve lettere, dorme di giorno, legge, fantastica especula di notte; si crea i suoi «paradisi artificiali» erifiuta tutto ciò che piace al comune mortale. Inventasinfonie di colori, profumi, bevande, fiori strani, gemmerare; poiché rari e preziosi debbono essere gli strumen-ti del suo acrobatismo spirituale. Naturalmente, nel suovocabolario, dire che una cosa è a buon mercato è comedirla insulsa o plebea.

Ma il misticismo di tutto questo indirizzo non haforse espressione piú forte della novella Véra di Villiersde l’Isle-Adam28. Vera è l’idolatrata sposa dell’eroe, cherifiuta di ammettere la sua morte prematura, perchénon potrebbe sopportare di averne coscienza. Attraver-so le sbarre del cancello, il protagonista getta la chiavedel sepolcro in cui essa giace, va a casa e comincia una

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nuova vita fittizia, cioè continua come prima, come senulla fosse accaduto. Si comporta, parla e agisce comes’ella fosse viva e accanto a lui. Il suo contegno è uninsieme cosí coerente e perfetto di atteggiamenti e diazioni, che a renderlo del tutto sensato non manca chela presenza fisica di Vera. Ma in ispirito essa è così pre-sente, e cosí immediata e soverchiante è la suggestionedella sua personalità, che la sua vita artificiale assumeuna realtà ben piú profonda, vera e pura che non ilfatto della sua morte. Essa muore soltanto quando alsonnambulo sfuggono le parole: «Mi ricordo... sei pro-prio morta!» A nessun lettore intelligente sfuggirà l’a-nalogia fra questo ostinato rifiuto di conoscere l’impor-tanza della realtà e la negazione cristiana del mondo; mainsieme nessuno può trascurare la differenza tra l’osti-nazione di un’idea fissa e la fermezza di una fede reli-giosa. Anzi non si può immaginare nulla di piú lontanodal cristianesimo, di piú alieno dallo spirito del Medioe-vo, dell’«ennui», questa nuova forma, impressionistica,della malinconia romantica. Vi si esprime un senso diripugnanza per la monotonia della vita29, cioè propriol’opposto di quella insoddisfazione per le avversità del-l’esistenza, che, come fu osservato, avevano provato etàpiú antiche, che credevano in un ordine divino30. Inqueste si era turbati dalla mutevolezza della fortuna, dal-l’incostanza e imprevedibilità del destino; si aspirava allaquiete e alla sicurezza, alla monotonia e alla noia dellapace; per il moderno esteta, invece, l’ordine e la sicu-rezza borghese sono la cosa piú insopportabile. L’aspi-razione dell’impressionismo a fermare l’ora mutevole, ilsuo abbandono all’umore del momento come al piú altovalore della vita, irriducibile e indefinibile, la volontà divivere nell’istante e dissolversi in esso, è soltanto laconseguenza di quella visione antiborghese, di quellarivolta contro la routine e la disciplina della vita bor-ghese. Anche l’impressionismo è un’arte di opposizione,

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come ogni movimento d’avanguardia dal romanticismoin poi, e il sentimento di ribellione latente nell’atteg-giamento dell’impressionismo verso la vita, benché nonsempre gli impressionisti ne fossero consapevoli, è tra lecause del rifiuto dell’arte nuova da parte del pubblicoborghese.

Tra il 1880 e il ’90 l’edonismo estetico assume di pre-ferenza il nome di «decadentismo». Des Esseintes, ilraffinato epicureo, è anche il prototipo dell’estenuato«decadente». Ma l’idea di decadentismo include moti-vi che esorbitano dall’estetismo: anzitutto il senso deldeclino di una cultura e di una crisi profonda, la coscien-za cioè di trovarsi alla conclusione di un ciclo storico eprossimi alla fine di una civiltà. La simpatia per anticheepoche, stanche e ultraraffinate, come l’ellenismo, latarda romanità, il Rococò e il tardo stile «impressioni-stico» dei grandi maestri del passato, è un tratto essen-ziale del decadentismo. Il senso di essere a una svoltadella storia si era avuto anche in epoche precedenti, masempre s’era accompagnato ad un rammarico profondo,come avviene, ad esempio, ancora in Musset, per que-sto trovarsi a vivere il tramonto di una cultura; ora inve-ce il concetto di senescenza e stanchezza, di saturazio-ne culturale e degenerazione, si unisce a un’idea dinobiltà spirituale. S’impadronisce degli uomini una veraebbrezza di rovina, sentimento anch’esso non nuovo, mapiú forte che mai. I richiami alla tradizione di Rousseau,al tedio byroniano e alla romantica voluttà della mortesono chiarissimi. Lo stesso abisso attrae romantici edecadenti, la stessa brama di distruzione, di autoan-nientamento li travolge. Ma per i decadenti tutto è«abisso», tutto è pervaso dall’insicurezza e da un’ango-scia mortale: «Tout plein de vague horreur, menant onne sait oú» [«Tutto pieno di vago orrore, che porta nonsai dove»] come si legge in Baudelaire.

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«Chi sa se la verità non è triste» diceva Renan: paro-le di profondo scetticismo, quali nessun grande scritto-re russo avrebbe sottoscritto. Poiché tutto per loro pote-va esser triste, tranne la verità. Ma quanto piú sinistresono le parole di Rimbaud: «Quel che non sappiamo èforse orrendo» (Le forgeron). Si intuisce da quali impe-netrabili e inesauribili enigmi egli si senta circondato,anche se subito aggiunge: «Noi sapremo». L’abisso cheper il cristiano era il peccato, per il cavaliere il disono-re, per il borghese l’illegalità, per il decadente è tutto ciòche sfugge a concetti, parole, formule. Di qui la sua lottadisperata per la forma e la sua invincibile ripugnanza pertutto quanto è informe, selvaggio, naturale. Di qui la suapredilezione per le età piú ricche di formule – anche senon profondissime – e che offrivano per tutto una paro-la, anche se inadeguata.

La frase di Verlaine «Je suis l’empire à la fin de ladécadence» [«Sono l’impero alla fine della decadenza»]diventa l’etichetta del tempo; e benché nell’apologiadella decadenza romana già lo abbiano preceduto Gérardde Nerval31, Baudelaire e Gautier32, egli sa lanciare il suomotto al momento giusto e muta cosí quella che erastata la semplice espressione di uno stato d’animo in unprogramma culturale. C’erano state epoche che di un’etàdell’oro non sapevano o non volevano sapere, ma primadel decadentismo ottocentesco mai c’era stata una gene-razione che all’età dell’oro preferisse l’età argentea.Questa scelta significava non solo una coscienza di epi-goni, non solo una modestia di tardi eredi, ma anche unaspecie di contrizione e un senso d’inferiorità. I deca-denti erano edonisti di cattiva coscienza, peccatori che,come Barbey d’Aurevilly, Huysmans, Verlaine, Wilde,Beardsley, si gettavano fra le braccia della Chiesa cat-tolica. Questo senso di colpa trova nella loro concezio-ne dell’amore, tutta dominata da quella psicologia dellapubertà che era stata propria del romanticismo, la sua

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espressione piú scoperta. Per Baudelaire l’amore è ilfrutto proibito, la caduta, la perdita irreparabile del-l’innocenza. «Faire l’amour c’est faire le mal» [«Far l’a-more è fare il male»]. Il suo romantico satanismo tutta-via trasforma anche il peccaminoso in una fonte divoluttà: non solo in sé e per sé l’amore è male, ma il pia-cere supremo consiste appunto nella coscienza di farmale33. Anche la simpatia per le prostitute, comune aromantici e decadenti, e a questi suggerita da Baudelai-re, rivela l’inibizione, il senso di colpa che pesa sull’a-more. Naturalmente questa simpatia è soprattuttoespressione della rivolta contro la società e la morale bor-ghese, fondata sulla famiglia. La prostituta è la sposta-ta, la reietta, che si ribella non solo alla forma istitu-zionale dell’amore, ma anche alla sua «naturale» formapsicologica. Essa distrugge non solo la disciplina mora-le del sentimento, ma anche i fondamenti di esso. Èfredda nell’infuriare della passione, è e rimane spetta-trice distaccata della voluttà ch’essa provoca, si sentesola e indifferente dove altri si abbandona all’ebbrezza:in breve, essa è il «doppio» femminile dell’artista. Daquesta comunione di sentimenti e di destino nasce lacomprensione dell’artista decadente. Anch’egli sa diprostituirsi, di esibire i suoi piú cari sentimenti, di cede-re a vile prezzo i suoi segreti.

Con questa dichiarata solidarietà con la prostituta,l’estraneità dell’artista dalla società borghese è comple-ta. Il cattivo scolaro si mette nell’ultimo banco, comedice Thomas Mann di un suo eroe, e, col senso di sol-lievo di chi lascia il campo della gara, resta «nell’ultimobanco», disprezzato, ma indisturbato. Sarebbe stranoche in un pensatore come Thomas Mann, la cui conce-zione ruota tutta intorno a un unico problema, la posi-zione dell’artista nella società borghese, anche questaosservazione, apparentemente innocua, non si legassecon la sua problematica. La peculiare esistenza dell’ar-

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tista, priva di ambizioni borghesi, è proprio simile a un«ultimo banco» che lo sottrae ad ogni responsabilità ead ogni controllo. È certo comunque che l’accentuato«contegno borghese» di Thomas Mann, non meno che,ad esempio, il «corretto» atteggiamento sociale di HenryJames si debbono intendere unicamente come reazioneal costume di quegli artisti che si erano messi ostenta-tamente nell’ultimo banco, e coi quali non si volevaavere nulla in comune. Ma Thomas Mann e HenryJames sanno fin troppo bene che l’artista necessaria-mente deve condurre una vita extraumana e inumana,che la via normale gli è preclusa, né gli servono la spon-taneità, l’ingenuità, il calore del sentimento. Il para-dosso della sua sorte sta nel dover ritrarre la vita edesserne insieme escluso. Ne risultano complicazionigravi, spesso inestricabili. Paul Overt, il piú giovane deidue scrittori che si contrappongono in The Lesson of theMaster [La lezione del maestro] di James, si ribella inva-no alla crudele ascesi di una vita dedita all’arte, recalci-tra invano contro la rinunzia ad ogni felicità personale,privata, che il maestro, Henry St. George, esige da lui.Egli è pieno d’impazienza e di rancore contro la spieta-ta tirannia a cui si è vincolato. «Ma Lei non crederàch’io esalti l’arte!» replica il maestro: «Felice la societàche non la conosce!» E verso l’arte Thomas Mann èaltrettanto severo, altrettanto inesorabile. Infatti se eglici mostra tutte le esistenze problematiche, ambigue esospette, il debole, il malato, il degenerato, qualsiasiavventuriero, cavaliere d’industria o delinquente, e inultimo perfino Hitler come affini psichicamente all’ar-tista34, questa è la piú tremenda accusa che mai sia stataelevata contro l’arte.

L’epoca dell’impressionismo offre due tipi estremidell’artista moderno, asociale, estraniato dalla società: ilnuovo bohémien e quello che per fuggire alla civiltàoccidentale si rifugia in lontane terre esotiche. Sono

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entrambi espressione dello stesso sentimento, dello stes-so «disagio della civiltà», ma l’uno sceglie «l’emigra-zione interna», l’altro la fuga effettiva. Entrambi vivo-no una vita astratta, separata dalla realtà concreta e pra-tica, entrambi si esprimono in forme che debbono appa-rire sempre piú strane, sempre piú incomprensibili allamaggioranza del pubblico. Il viaggio in paesi lontani, perfuggire la civiltà moderna, è antico quanto la protestadella bohème contro l’ordine borghese. Entrambi risal-gono all’irrealismo e all’individualismo romantico, maper via si sono profondamente trasformati, e la partico-lare fisionomia che questi fenomeni presentano fra l’80e il ’90 deriva soprattutto da Baudelaire. I romantici cer-cavano ancora il «fiore azzurro», il paese dei sogni e del-l’ideale, «mais les vrais voyageurs, – dice Baudelaire, –sont ceux-là seuls qui partent pour partir» [«Ma i veriviaggiatori sono soltanto quelli che partono per parti-re»]. Ecco la vera fuga, il viaggio verso l’ignoto, cheobbedisce non già all’attrazione, ma alla repulsione:

O Mort, vieux capitaine, il est temps! levons l’ancre!Ce pays nous ennuie, ô Mort! Appareillons!Si le ciel et la mer sont noirs comme l’encre!Nos cœurs que tu connais sont remplis de rayons!

[«Morte, vecchio capitano, è tempo! leviamo l’anco-ra | Il paese ci annoia, Morte! Spieghiamo le vele! | Seil cielo e il mare son neri come l’inchiostro, | I nostricuori, li conosci, sono pieni di raggi!]

Rimbaud intensifica il dolore del congedo: «la vie estabsente, nous ne sommes pas au monde» [La vita èassente, noi non siamo al mondo»], ma nulla aggiungealla bellezza di quel commiato, senza pari nella poesiamoderna. Eppure egli è l’unico vero erede di Baudelai-re, l’unico ad attuare i viaggi immaginari del maestro e

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a mutare in sistema di vita quel che, prima di lui, nonera che una scappata nel mondo della bohème.

In Francia la bohème non è un fenomeno unitario eunivoco. È ovvio che Rimbaud, posseduto dal Maligno,e Verlaine, oscillante fra delinquenza e misticismo reli-gioso, non hanno nulla di comune con i frivoli e amabi-li giovani dell’opera pucciniana. Ma l’ascendenza diRimbaud e Verlaine è assai ramificata, e per intenderlibisogna distinguere tre fasi e tre forme diverse nella vitadegli artisti: la bohème romantica, la naturalistica, l’im-pressionistica35. In origine la bohème non era che unaprotesta contro il costume borghese. Vi partecipavanogiovani artisti e studenti, in massima parte figli di gentefacoltosa, e la loro opposizione alla società dominanteper lo piú si esauriva in giovanile insolenza e spirito dicontraddizione. Théophile Gautier, Gérard de Nerval,Arsène Houssaye, Nestor Roqueplan e tanti altri si stac-cavano dalla società borghese non perché fossero obbli-gati a farlo, ma semplicemente perché volevano viverealtrimenti dai loro genitori. Erano puri romantici, chevolevano essere originali e stravaganti anche nel mododi vita, perché per arte e poesia intendevano qualchecosa di assolutamente originale e stravagante. Essi fug-givano nel mondo dei reietti e dei paria come si fa unviaggio in terra lontana ed esotica; nulla sapevano dellamiseria della bohème piú tarda, e la via del ritorno allasocietà borghese era per loro sempre aperta. La bohèmedella generazione successiva, quella del naturalismo mili-tante, che teneva il suo quartier generale in birreria, ea cui fra gli altri appartenevano Champfleury, Courbet,Nadar e Murger, era invece una vera bohème, cioè unproletariato artistico fatto di gente che viveva in modoaffatto precario, al di fuori della società borghese. Laloro lotta contro la borghesia non era quindi un giocoinsolente, ma una dura necessità; il costume antibor-ghese era quel che meglio si attagliava alla loro incerta

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esistenza, e non piú una semplice mascherata. Come lospirito peculiare di Baudelaire, che cronologicamenteappartiene a questa generazione, da un lato risale allabohème romantica e dall’altro precorre l’impressioni-smo, cosí anche Murger, benché in altro senso, è unfenomeno di transizione. Ora che la bohème cessa diessere «romantica», la borghesia comincia a idealizzar-la romanticamente. Murger vi ha la parte del maître deplaisir che le offre un Quartiere Latino ben lavato eaddomesticato. Ciò gli vale, secondo il merito, un avan-zamento fra gli autori accreditati della borghesia. Per ilfilisteo la bohème è quasi come l’inferno. Essa lo attraee lo respinge. Egli civetta con la libertà e l’irresponsa-bilità che vi dominano, ma arretra spaventato davantial disordine e all’anarchia impliciti in quella vita. Idea-lizzandola, Murger tende a far piú innocua di quanto siarealmente questa minaccia alla società, e a lasciare chel’improvvido borghese continui a nuotare nei suoi sogniambigui. I personaggi di Murger per lo piú sono giova-ni allegri e un po’ sventati, ma brava gente che si ricor-derà della sua vita di bohème come il lettore borghesericorda le sue follie di studente. Quest’aspetto transito-rio della bohème la rendeva innocua agli occhi del fili-steo. E Murger non era il solo a pensarla così. AncheBalzac considerava transitoria la vita di bohème dei gio-vani artisti: «La bohème è fatta di giovani ancora oscu-ri, ma che un giorno saranno chiari e famosi», scrive inUn Prince de la bohème.

Tuttavia non solo la bohème di Murger, ma anchequella vera del periodo naturalistico è un idillio in con-fronto alla vita degli artisti e dei poeti antiborghesi dellagenerazione successiva, come Rimbaud, Verlaine, Tri-stan Corbière, Lautréamont. La bohème è diventataveramente un’accolta di vagabondi e di reietti, un grup-po di disperati, in rotta non solo con la borghesia, macon tutta la civiltà europea. Baudelaire, Verlaine, Tou-

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louse-Lautrec sono affetti da grave alcolismo; Rimbaud,Gauguin e Van Gogh, vagabondi e giramondo; Verlai-ne e Rimbaud muoiono all’ospedale, Van Gogh e Tou-louse-Lautrec conoscono il manicomio, i piú passano lavita nei caffè, nei varietà, nei bordelli, negli ospedali osulla strada. Essi distruggono in sé tutto quel che potreb-be essere utile alla società, si accaniscono contro tuttociò che dà alla vita stabilità e durata, e perfino controse stessi, come se volessero estirpare da sé quel che liaccomuna agli altri. «Io mi uccido, – scrive Baudelairein una lettera del 1845, – perché sono inutile agli altrie pericoloso per me stesso». Egli ha coscienza non solodella propria infelicità, ma anche che la felicità degli altriè qualcosa di comune e volgare. «Lei è un uomo felice»,scrive in una lettera piú tarda: «La compiango, signore,di esser cosí facilmente felice. Un uomo dev’essere cadu-to molto in basso per ritenersi felice»36. Nella novellaL’uva spina Ωechov esprime lo stesso disprezzo per lafelicità a buon mercato. E non sorprende in uno scrit-tore che ha tanta simpatia per la bohème. «Dica, per-ché vive in modo cosí noioso, scolorito?», domanda alsuo ospite l’eroe di una delle sue novelle: «La mia è unavita triste, difficile, monotona, perché io sono un arti-sta, un uomo strano, fin dalla prima giovinezza strazia-to dall’invidia, scontento di me stesso; incerto del miolavoro; sono povero, sono un vagabondo; ma Lei, Lei,un uomo sano e normale, un possidente, un signore –perché vive in modo cosí scialbo, perché prende cosípoco della vita?»37. Il colore, almeno, non mancava allavita della prima bohème: essa si adattava alla miseria purdi vivere in modo interessante e colorito. Ma la nuovabohème è oppressa dal cupo tanfo di una noia soffo-cante; l’arte non inebria piú, stordisce soltanto.

Tuttavia, né Baudelaire, né Ωechov, né gli altrisospettano quale inferno potesse diventare la vita per unuomo come Rimbaud. La civiltà occidentale doveva

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giungere alla crisi odierna, perché noi potessimo capireuna vita simile. Un nevrastenico, un buono a nulla, unperdigiorno, un uomo perverso, pericoloso, che errandodi paese in paese, si fa maestro di lingua, merciaio ambu-lante, s’impiega in un circo, fa lo scaricatore, il brac-ciante, il marinaio, il volontario nell’esercito olandese,il meccanico, l’esploratore, il mercante di coloniali, echissà cosa ancora; si prende un’infezione chissà dove inAfrica, deve farsi amputare una gamba in un ospedaledi Marsiglia, per morire a trentasette anni, membro amembro, fra i piú atroci tormenti; un genio che scrivea diciassette anni versi immortali, a diciannove abban-dona del tutto la poesia e non parlerà mai piú di lette-ratura per tutto il resto della sua vita, un delinquenteverso gli altri e verso se stesso, che fa getto dei suoi piúpreziosi tesori, dimentica e nega assolutamente di aver-li mai posseduti; uno dei precursori e, come molti sosten-gono, il vero fondatore della poesia moderna che, quan-do la notizia della sua gloria lo raggiunge in Africa, nonvuol saperne e non ha altro da dire che merde pour la poé-sie: si può immaginare nulla di piú sinistro, di piú con-trario all’idea di un poeta? Tristan Corbière non haforse ragione quando dice: «I suoi versi erano di unaltro; egli non li ha letti»? Non è questo il piú tremen-do nichilismo, l’estrema negazione di sé? Ed è questoche si raccoglie da quel che hanno seminato Flaubert, ilbuon borghese onesto e scrupoloso, e i suoi amici raffi-nati, colti, sensibili all’arte.

Dopo il 189o la parola decadentismo perde la sua ecosuggestiva e il «simbolismo» a sua volta assurge a ten-denza artistica dominante. È Moréas ad introdurne ilnome, e lo definisce come l’aspirazione a sostituire,nella poesia, l’«idea» alla realtà»38. Già la nuova termi-nologia sta ad indicare la vittoria di Mallarmé su Ver-laine, e uno spostarsi della linea di sviluppo dall’im-pressionismo sensualistico verso lo spiritualismo. Spes-

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so è molto difficile distinguere l’impressionismo dal sim-bolismo: i due concetti sono in parte antitetici, in parteequivalenti. L’impressionismo di Verlaine e il simboli-smo di Mallarmé si distinguono abbastanza nettamen-te, ma non è altrettanto agevole un’esatta definizionedello stile di un Maeterlinck. «Impressionistici» sono nelsimbolismo gli effetti ottici e acustici, la contaminazio-ne e lo scambio dei diversi dati dei sensi, l’influsso reci-proco delle forme d’arte, soprattutto quel che intende-va Mallarmé quando parlava di riprendere alla musica ibeni della poesia. Ma il simbolismo con la sua posizio-ne irrazionalistica e spiritualistica costituisce anche unanetta reazione all’impressionismo, per sua natura natu-ralistico e materialistico. Mentre per l’impressionismo,infatti, l’esperienza dei sensi è qualcosa di conclusivo eirriducibile, per il simbolismo tutta la realtà empiricanon è che l’immagine di un mondo ideale.

Il simbolismo rappresenta il risultato dell’evoluzioneche, dalla scoperta romantica della metafora come cel-lula germinale della poesia, conduce alla ricchezza d’im-magini dell’impressionismo; tuttavia esso rifiuta nonsolo l’impressionismo perché materialista, e il movi-mento parnassiano perché formalista e razionalista, maperfino il romanticismo perché sentimentale e conven-zionale nel suo linguaggio figurato. Per qualche aspettoil simbolismo si può considerare come la reazione a tuttala poesia anteriore39; esso scopre qualcosa che fin qui erarimasto ignoto o trascurato: la poésie pure40, la poesianata dall’irrazionale spirito della lingua, cioè estranea aiconcetti, ribelle all’interpretazione logica. Per i simbo-listi la poesia non è che l’espressione dei rapporti e dellerispondenze, che la lingua abbandonata a se stessa creafra il concreto e l’astratto, la materia e l’idea, comeanche fra i diversi ordini di sensazioni. La poesia, perMallarmé, è allusione ad immagini che ondeggiano esvaporano; nominare un oggetto, egli dice, significa

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annullare per tre quarti il piacere d’indovinarlo a pocoa poco41. E il simbolo non mira soltanto ad eludere lanecessità di nominare le cose, ma serve anche comeindiretta espressione di un significato che non si puòenunciare direttamente, che anzi per sua stessa naturaricusa di venir formulato e definito.

Il simbolo come mezzo espressivo non è certo un’in-venzione della generazione di Mallarmé; già prima eraesistita un’arte simbolica. Semplicemente, essa ha sco-perto la differenza tra simbolo e allegoria e ha fatto delsimbolismo come stile poetico il fine consapevole dellesue aspirazioni. Pur senza esprimerlo chiaramente, sirendeva conto che l’allegoria non fa che tradurre infigura concreta un’idea astratta, che rimane per altrorelativamente indipendente dalla sua espressione figu-rata tanto che potrebbe anche esprimersi in altra forma;il simbolo invece unifica inscindibilmente l’idea e lafigura, e col mutare di questa muta anche quella. Il con-tenuto di un simbolo, insomma, è intraducibile in altraforma, mentre il simbolo stesso si può interpretare inmodi assai diversi, e gli è appunto essenziale questamobilità dell’interpretazione, quest’apparente impossi-bilità di esaurirne il significato. Accanto al simbolo, l’al-legoria appare sempre la semplice, chiara e relativamentesuperflua trascrizione di un’idea che nulla acquista neltraslato. È una specie d’indovinello, che si può pronta-mente risolvere. Il simbolo invece può soltanto venireinterpretato, non risolto. L’allegoria è espressione delpensiero statico, il simbolo, di quello dinamico; quellapone una meta e un limite all’associazione delle idee,questo le mette e le mantiene in moto. L’arte dell’altoMedioevo si esprime principalmente in simboli, quelladel tardo Medioevo in allegorie. Simboliche sono leavventure di Don Quijote, allegoriche quelle degli eroidei romanzi cavallereschi che servono di modello a Cer-vantes. D’altronde in quasi tutte le epoche troviamo

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accanto a un’arte simbolica un’arte allegorica e a volteperfino confuse nelle opere di uno stesso artista. La«ruota di fuoco» (wheel of fire) di Lear è un simbolo, le«candele della notte» (night’s candles) di Romeo sonoun’allegoria; ma la frase successiva dello stesso Romeo– «the jocund day stands tiptoe on the misty mountaintops» [«Il gaio mattino | Si leva furtivo sulle cime neb-biose dei monti»] – suona già affine al simbolismo. Essaè ricca di rapporti e allusioni la cui forza rappresentati-va è maggiore di quella di un’allegoria.

Il simbolismo procede dall’idea che la poesia debbaesprimere qualcosa difficilmente raffigurabile e comun-que non attingibile per via diretta. Poiché non si puòdire nulla d’importante sulle cose con i mezzi chiaridella coscienza, mentre la lingua arriva a scoprirne isegreti rapporti, per cosí dire, automaticamente, ilpoeta, come afferma Mallarmé, deve «lasciare l’inizia-tiva alle parole», deve lasciarsi trasportare dal loro flus-so, dallo spontaneo susseguirsi di immagini e visioni.Con ciò si viene a dire non solo che la lingua è piú poe-tica, ma anche piú filosofica della ragione. L’idea diRousseau di uno stato di natura superiore alla civiltà, equella di Burke, di un organico sviluppo storico, piúfecondo di bene che non il riformismo con la sua sma-nia del nuovo, sono le vere fonti di questa poetica misti-ca, e sono fonti riconoscibili anche nell’idea di Tolstoje di Nietzsche, della maggior saggezza del corpo rispet-to allo spirito, e nella teoria bergsoniana dell’intuizioneche è piú profonda dell’intelletto. Per un altro verso que-sto misticismo della lingua, questa alchimie du verbemuove da Rimbaud, come tutta l’interpretazione delcreare poetico quale fenomeno allucinatorio. La paroladecisiva per la poesia moderna è stata sua: il poeta dove-va diventare un veggente e a tale stato doveva prepararsidistraendo sistematicamente i sensi dalle loro funzioninormali, rendendoli innaturali e inumani. La pratica

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raccomandata da Rimbaud non rispondeva soltanto all’i-deale dell’artificio, miraggio di tutti i decadenti, ma giàconteneva un elemento nuovo: la deformazione, la smor-fia quale mezzo espressivo, che doveva assumere tantaimportanza per il moderno espressionismo. Essa si fon-dava sul sentimento che gli atteggiamenti spontanei,normali dell’anima fossero artisticamente sterili, e cheil poeta dovesse superare in sé la natura per scoprire ilsenso occulto delle cose.

Mallarmé era un platonico, che vedeva nella comunerealtà sensibile la forma corrotta di un ente ideale, eter-no, assoluto, ma voleva attuare, almeno in parte, nellavita terrena il mondo delle idee. Viveva nel vuoto delsuo intellettualismo, del tutto scisso dalla vita comune,e si può dire che non avesse rapporti col mondo, se nonletterari. Uccisa in sé ogni spontaneità, divenne, percosí dire, l’anonimo artefice delle sue opere. Nessunopiú fedelmente di lui seppe seguire l’esempio di Flau-bert. «Tout au monde existe pour aboutir à un livre»[«Al mondo tutto esiste per mettere capo a un libro»].Il maestro stesso non avrebbe potuto trovare una for-mula piú flaubertiana. À un livre dice Mallarmé, ma nonè un libro quel che ne esce. Egli passa tutta la vita a scri-vere, riscrivere e correggere una dozzina di sonetti, duedozzine di poesie piú brevi e sei o sette poesie di piúampio respiro, una scena drammatica e alcuni fram-menti teorici42. Sapeva che l’arte sua era un vicolo cieco43

e perciò il motivo della sterilità prende tanto spazionella sua poesia44. La vita del raffinato, colto, acutoMallarmé si concluse con uno scacco tremendo comequella del vagabondo Rimbaud. Entrambi disperaronodell’arte, della cultura, della società umana e non si sachi dei due si sia comportato con piú coerenza45. Con ilChef-d’œuvre inconnu Balzac si è dimostrato buon pro-feta: estraniandosi dalla vita, l’artista distrugge l’operasua.

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Già Flaubert pensava a un libro senza soggetto, chedoveva essere pura forma, puro stile, puro ornamento,e a lui per primo si presentò l’idea della poésie pure.Forse Mallarmé non avrebbe accettato alla lettera la suafrase: «un bel verso senza senso val piú di uno che abbiaun senso, ma sia meno bello». La rinunzia ad ogni con-tenuto non rispondeva affatto alla sua concezione dellapoesia; egli pretendeva però che il poeta rinunziasse asuscitare affetti e passioni e a servirsi di motivi extraestetici, pratici e razionali. La concezione della «poesiapura» può comunque considerarsi come il miglior com-pendio della sua estetica e la quintessenza di tutte le sueaspirazioni di poeta. Mallarmé cominciava a scriveresenza saper bene dove lo avrebbe condotto la primaparola, il primo verso; la poesia si formava come cri-stallizzazione quasi automatica di parole e di segni, cate-na di associazioni e di visioni che sbocciavano l’una dal-l’altra, modificandosi a vicenda46. La poésie pure tradu-ce il principio di questo metodo della creazione poeticain una teoria del comportamento recettivo, e affermache, per ottenere un’esperienza poetica, non occorreaffatto leggere tutta la poesia, per quanto breve; spessobastano uno o due versi, talvolta persino frammenti diparole per averne un’impressione adeguata. In altri ter-mini: per godere una poesia non è necessario o comun-que non basta, intenderne il significato razionale, anzi,come dimostra la poesia popolare, non occorre affattoche vi sia un «senso» chiaro47. È innegabile la somi-glianza fra l’atteggiamento recettivo qui descritto e lacontemplazione a giusta distanza di un dipinto impres-sionista; tuttavia nella concezione della «poesia pura» visono elementi che non ricorrono necessariamente inquella dell’impressionismo. Essa è la forma piú schiettae intransigente dell’estetismo ed esprime essenzialmen-te l’idea che possa esistere un mondo poetico affattoindipendente dalla realtà consueta, pratica, razionale, un

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microcosmo estetico autonomo, per sé stante, che girasu un proprio asse.

L’orgoglio aristocratico del poeta che si isola e siestrania dalla vita reale si palesa anche piú intenso nellavoluta oscurità dell’espressione e nella ricercata diffi-coltà del pensiero. Mallarmé è l’erede del «rimar chiu-so» dei trovatori e della dotta poesia degli umanisti. Eglicerca il vago, l’enigmatico, il difficile, non solo perchésa che l’espressione risulta tanto piú riccamente allusi-va quanto piú è vaga, ma anche perché a suo parere unapoesia «dev’essere qualcosa di misterioso, e il lettoredeve trovarne la chiave»48. Catulle Mendès indicaespressamente questo carattere aristocratico della poe-sia di Mallarmé e dei suoi seguaci. Alla domanda diJules Huret, se rimproverasse ai simbolisti la loro oscu-rità, egli risponde: «Niente affatto. In questo tempo didemocrazia l’arte pura diventa sempre piú l’esclusiva diuna élite, di un’aristocrazia bizzarra, malaticcia, affa-scinante. È giusto che il suo livello si mantenga alto»49.Constatando che di fronte alla poesia l’atteggiamentocaratteristico della mente non è la comprensione razio-nale, Mallarmé ne deduce che il fondamento di ognigrande poesia è l’incomprensibile e l’incommensurabile.È evidente il profitto che l’arte può trarre dall’espres-sione ellittica a cui egli pensa; saltare qualche anellonella catena delle associazioni permette una rapidità, equindi un’intensità, che va perduta in un lento svilup-po degli effetti50. Mallarmé sfrutta a fondo questi van-taggi, e la sua poesia deve il suo fascino soprattutto allacondensazione delle idee e al succedersi improvviso delleimmagini. Ma in lui l’astrusità non sempre dipende daun’intima necessità artistica, anzi spesso risulta da arbi-trarie, artificiose manipolazioni linguistiche51. E l’ambi-zione della difficoltà in quanto tale svela solo la mira delpoeta di distinguersi dalla folla, chiudendosi in un cer-chio minimo di seguaci. I simbolisti erano, in sostanza,

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dei reazionari, nonostante l’apparente indifferenza poli-tica; erano, per dirla con Barrès, i boulangisti della let-teratura52. Come la poesia di Mallarmé, anche l’odierna,la cui difficoltà deriva in parte dagli stessi motivi, appa-re esoterica, antidemocratica, volutamente chiusa al granpubblico, per quanto possano variare le opinioni politi-che dei singoli poeti e per quanto noi sappiamo benissi-mo che tale difficoltà risulta da un’evoluzione della cul-tura moderna, ineluttabile e preparata di lunga mano.

Dalla Restaurazione in poi, l’influsso francese inInghilterra non fu mai tanto forte come nell’ultimo quar-to dell’Ottocento. Dopo un lungo periodo di prosperità,l’impero inglese attraversa una crisi economica che si svi-luppa in vera e propria crisi dello spirito vittoriano. La«gran depressione» comincia verso il 1875 e non durapiú di un decennio, ma la borghesia inglese vi smarriscel’antica fiducia in sé. Comincia a sentire la concorrenzaeconomica di altre nazioni, spesso piú giovani, come latedesca e l’americana, e si vede impegnata in un’aspralotta per il possesso delle colonie. Come diretta conse-guenza delle nuove condizioni si ha un recedere delleconcezioni liberistiche, che finora, nonostante ogni cri-tica, avevano avuto per la borghesia inglese autorità didogma53. Il decrescere delle esportazioni provoca unabbassamento della produzione che si ripercuote sultenore di vita dei lavoratori. La disoccupazione aumen-ta, gli scioperi si moltiplicano, e il movimento socialista,arenatosi dopo gli anni rivoluzionari verso la metà delsecolo, ora non solo riprende vigore, ma, per la primavolta in Inghilterra, si fa consapevole delle sue mete edella sua forza. Questa svolta ha le piú vaste ripercus-sioni sullo sviluppo intellettuale del paese. La coscienzadi avere di fronte una concorrenza estera pone fine all’i-solazionismo britannico54 e prepara il terreno agli influs-si intellettuali stranieri. Fra questi, anzitutto quello della

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letteratura francese; vengono poi il romanzo russo,Wagner, Nietzsche e Ibsen e integrano gli stimoli chevengono dalla Francia. Ma c’è un fatto ben piú impor-tante degli influssi dall’estero, che anzi di questi costi-tuisce la premessa: con la scossa inflitta all’orgoglio bor-ghese e alla fede nella divina missione dell’Inghilterranel mondo, ma soprattutto con il nuovo movimentosocialista dopo l’80, si rinnova la lotta per la libertà indi-viduale, che impronta di sé tutta la cultura, la lettera-tura progressista e il modo di vita delle giovani genera-zioni. Si può dire che nell’abito mentale del tempo nonc’è tratto che non rifletta questa lotta contro la tradi-zione e la convenzione, il puritanesimo e il filisteismo,l’arido utilitarismo e il sentimentalismo romantico. Sicombatte contro la vecchia generazione per conquista-re e godere la vita. Modernità diventa il motto esteticoe morale della gioventú che batte alla porta e vuol pas-sare. Fine e contenuto della vita è ora l’ibseniana affer-mazione di se stessi, la volontà di esprimere la propriapersonalità e d’imporre il proprio valore. E per quantorimanga per lo piú oscuro quel che s’intende per realiz-zazione di sé, crolla sotto i colpi della nuova generazio-ne la sicurezza morale del vecchio mondo borghese. Finverso il 1875 la gioventú si trova di fronte a una societàin complesso stabile, sicura nelle sue tradizioni e con-venzioni e rispettata anche dagli oppositori. Non solo inJane Austen, ma anche in George Eliot si sente la sal-dezza di un ordine sociale, che se non perfetto né deltutto accettabile, non è tuttavia trascurabile né facile asostituirsi. Ma ora tutte le norme della vita sociale per-dono a un tratto il loro valore; tutto vacilla, diventa pro-blematico e discutibile.

Nella letteratura e nell’arte inglese dopo l’80 la ten-denza liberale afferma un individualismo apolitico, ben-ché naturalmente l’impulso alla realizzazione di sé, cosívivo nella gioventú, e la lotta di questa contro le vecchie

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forme sovraindividuali siano strettamente connessi conla nuova situazione politico-sociale55. La gioventú èschiettamente antiborghese, ma non democratica e tantomeno socialista. Anzi, in essa il sensualismo e l’edoni-smo, la volontà di godere la vita e di inebriarsene, di faredella propria esistenza un’opera d’arte, in cui ogni oradiventi un’esperienza indimenticabile e insostituibile,assume spesso un aspetto antisociale e amorale. La spin-ta antifilistea non prende di mira i capitalisti, ma i bor-ghesi nemici dell’arte. Tutto il movimento inglese versola modernità è dominato da quest’odio contro i filistei,che diventa a sua volta una convenzione estrinseca. Adessa sono da connettere in gran parte anche le modifi-cazioni che l’impressionismo subisce in Inghilterra. InFrancia l’arte e la letteratura impressionistica non eranoespressamente antiborghesi; i francesi erano già oltre lafase della lotta contro il filisteismo, anzi i simbolistiprovavano una certa simpatia per la borghesia conser-vatrice. In Inghilterra, invece, spetta alla letteraturadecadente di compiere l’opera di disgregazione che inFrancia romanticismo e naturalismo avevano da tempocompiuto. Il tratto piú spiccato che ora distingue la let-teratura inglese da quella francese è il gusto del para-dosso, dell’espressione sorprendente, bizzarra, voluta-mente urtante, di quell’arguzia ricercata che oggi sem-bra cosí insulsa e con la sua civetteria cosí compiaciutadi sé e incurante della verità. È chiaro che questo amoredel paradosso non è che spirito di contraddizione, cheha la sua origine soprattutto nel desiderio di épater lebourgeois [sbalordire il borghese].

Tutte le singolarità e le affettazioni, nella lingua comenel modo di pensare, nel vestire come nella condottadegli artisti, sono una protesta contro le opinioni del fili-steo insensibile alle muse, privo di fantasia, bugiardo eipocrita. Tale è il loro stravagante dandysmo, propriocome la loro lingua colorita che sfoggia tutte le attratti-

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ve dello stile impressionistico. Il decadentismo ingleseè stato con ragione chiamato una sintesi «di Mayfair eBohemia». In Inghilterra non troviamo né una bohèmecosí pura come in Francia, né artisti che vivano comeMallarmé in una torre d’avorio, perfetta e inaccessibi-le. La borghesia inglese è ancora abbastanza energica perassimilarli o per eliminarli. Oscar Wilde è un fortunatoscrittore borghese finché la classe dominante lo giudicatollerabile, ma appena egli comincia a disgustarla viene«liquidato» senza pietà. In Inghilterra il dandy sosti-tuisce in certo modo il bohémien, mentre in Francia glisi contrapponeva. Il dandy è l’intellettuale borghesespostato nell’alta società, il bohémien invece è l’artistadecaduto al livello del proletariato. L’elegante ricerca-tezza e la stravaganza del dandy hanno la stessa funzio-ne dell’incuria e della dissipazione del bohémien.Entrambi incarnano una medesima protesta contro lamonotonia e la volgarità della vita borghese, solo che gliInglesi preferiscono portare il girasole all’occhiello piut-tosto che il colletto sbottonato. Com’è noto, già i model-li di Musset, Gautier, Baudelaire e Barbey d’Aurevillyerano stati inglesi; Whistler, Wilde e Beardsley rileva-no cosí dai francesi la filosofia del dandysmo. Per Bau-delaire il dandy è la protesta vivente contro il livella-mento democratico. Agli occhi del poeta egli raduna insé tutte le virtú aristocratiche compatibili con la vitaodierna; è all’altezza di ogni situazione, non si stupiscedi nulla, non è mai volgare e conserva sempre il freddosorriso dello stoico. Il dandysmo è l’ultima manifesta-zione dell’eroismo in un’età di decadenza, un sole al tra-monto, un estremo fulgido raggio dell’orgoglio umano56.L’eleganza del vestire, la raffinatezza del contegno, ilrigore intellettuale non sono che la disciplina esteriore,che gli uomini di quest’ordine eletto s’impongono nellavolgarità del mondo attuale; quel che soprattutto impor-ta è l’intima superiorità e indipendenza, l’assenza di

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scopi pratici e di precise ragioni nell’essere e nell’agire57.Baudelaire antepone il dandy all’artista58, poiché questiè ancora capace d’entusiasmo, lavora, produce: è anco-ra un meccanico, nel senso antico. Qui si va anche oltrela crudele previsione di Balzac: l’artista non solo distrug-ge l’opera sua, ma nega il suo diritto alla gloria e all’o-nore. Quando Oscar Wilde vuol fare della sua vita un’o-pera d’arte – l’arte delle sue conversazioni, dei suoi rap-porti, di tutto il suo modo di vivere – e la antepone allesue opere letterarie, guarda anzitutto al dandy di Bau-delaire, all’ideale di un’esistenza affatto inutile, gratui-ta, senza meta.

Ma quanta vanità e civetteria ci sia in questa rinun-zia agli onori e alla gloria, appare dalla strana unione didilettantismo e di estetismo che caratterizza i decaden-ti inglesi. Mai l’arte fu presa sul serio come ora; mai cisi diede tanta pena per scrivere versi magistralmentecesellati, una prosa impeccabile, frasi perfettamente arti-colate ed equilibrate. Mai l’elemento decorativo, la «bel-lezza», l’eleganza, la squisitezza e la rarità ebbero tantaimportanza nell’arte; mai il preziosismo e il virtuosismovi furono piú largamente spiegati. Se in Francia la pit-tura era modello alla poesia, in Inghilterra ci si ispirapropriamente all’arte dell’orafo. Non per nulla Wildeparla con tanto entusiasmo del «jewelled style» [«stilegemmato»] di Huysmans. Effetti di colore come i «jade-green piles of vegetables» [«velluti verde-giada degliortaggi»] a Covent Garden sono la sua personale aggiun-ta all’eredità dei francesi. G. K. Chesterton osserva daqualche parte che lo schema del paradosso di Shaw con-siste nel dire, invece di «uva bianca», «uva verde-chia-ro». Anche Wilde, che ha tanto di comune con Shaw adispetto di tutte le differenze, nelle sue metafore partespesso dalla massima evidenza e trivialità e il tipico delsuo stile si rivela appunto nell’unione del triviale con losquisito. È come se egli volesse dire che anche nella

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realtà piú ordinaria si trova la bellezza, come WalterPater gli ha insegnato. «Non il frutto dell’esperienza, mal’esperienza stessa è il fine... Nel mantenere quest’esta-si sta il successo nella vita», dice Pater nella conclusio-ne del Rinascimento, e in queste frasi è contenuto ilprogramma di tutto il movimento estetizzante. In Wal-ter Pater l’evoluzione iniziata con Ruskin e continuatacon William Morris giunge a compimento, ma, a diffe-renza dei suoi predecessori, i fini sociali esulano daisuoi propositi, che non sono che edonistici, mirano soload esaltare l’intensità dell’esperienza estetica. In luil’impressionismo è solo una forma di epicureismo. Poi-ché «tutto scorre» in senso eracliteo e la vita rumoreg-giando dilegua con sinistra rapidità, per noi non c’è cheuna verità, quella del momento, e tutta la voluttà o ilpiacere è solo quello che possiamo rapire all’istante. Maè in nostro potere di non lasciarne passare uno solosenza goderne il fascino particolare, l’intima virtú.

Quanto in questo l’estetismo inglese si allontani dal-l’impressionismo francese, lo vediamo chiaramente in unfenomeno come Beardsley. Non si può immaginareun’arte piú «letteraria» della sua, in cui piú d’ogni altrahanno importanza la psicologia, i contenuti intellettua-li, gli aneddoti. Il calligrafismo artigianale, che i maestrifrancesi si dànno tanto pena di evitare, è l’elemento piútipico del suo stile; ed è il punto di partenza di tuttaquell’evoluzione antimpressionistica che porta agli sce-nografi e agli illustratori mondani, cosí cari alla bor-ghesia benestante e mediocremente colta.

L’intellettualismo, dominante nella letteratura fran-cese nonostante la forte corrente intuizionistica, rap-presenta anche in Inghilterra il tratto fondamentale dellanuova letteratura. Wilde non solo accetta l’idea diMatthew Arnold, che è il critico a determinare il climaintellettuale di un secolo59, e non solo consente alle paro-le di Baudelaire, che ogni vero artista deve essere anche

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un critico, ma giunge ad anteporre il critico all’artista edè incline a considerare il mondo con gli occhi del criti-co. Questo spiega perché sovente l’arte sua, come quel-la dei suoi contemporanei, appare cosí dilettantesca.Quasi tutto quello ch’essi creano pare il gioco abilissi-mo di persone molto dotate, tuttavia non di artisti dimestiere. Ma, se dobbiamo credere loro, essi volevanoappunto suscitare quest’impressione. Sul terreno dellostesso intellettualismo, sebbene a un piú alto livello, simuovono Meredith e Henry James. Se nel romanzoinglese c’è una tradizione che collega George Eliot conHenry James60, è certo quella dell’intellettualismo. Dalpunto di vista sociologico, con George Eliot si apre unanuova fase nella storia della letteratura inglese: sorge unpubblico nuovo, piú esigente. Ma George Eliot, benchérappresentasse un ceto intellettuale assai superiore alpubblico di Dickens, poteva contare su una cerchia rela-tivamente ampia di lettori; il pubblico di Meredith eHenry James invece si limita ormai a un esiguo ambien-te d’intellettuali che a un romanzo non chiedono, comeil pubblico di Dickens o di George Eliot, un’azioneimpressionante e figure di gran risalto, ma uno stileimpeccabile e maturi, esemplari giudizi sulla vita. Quelche per lo piú in Meredith è soltanto maniera, in HenryJames è spesso vera passione intellettuale; ma entrambirappresentano un’arte che ha con la realtà rapportiessenzialmente astratti; e le loro creature, confrontatecon il mondo di Stendhal, Balzac, Flaubert, Tolstoj,pare che si muovano nel vuoto.

Verso la fine del secolo l’impressionismo predominain tutta Europa. Dappertutto fiorisce una poesia deglistati d’animo, delle impressioni atmosferiche, del dile-guare della stagione e dell’ora. La lirica si estenua in sen-sazioni fuggevoli, inafferrabili, in eccitamenti dei sensiindeterminati, indefinibili, in tinte delicate e voci stan-

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che. L’indeciso, il vago, quel che si muove alla sogliadella percezione sensoriale, diventa il tema principedella poesia; non si tratta piú della realtà obiettiva, madella commozione del poeta per la propria sensibilità ecapacità d’esperienza. Quest’arte eterea degli stati d’a-nimo domina ormai tutte le forme letterarie; tutte si tra-sformano in lirismo, in immagine e musica, in colore esfumatura. Il racconto si riduce a semplici situazioni, l’a-zione a scene liriche, il disegno dei caratteri alla descri-zione di intime disposizioni e stati psichici. Tutto diven-ta episodico, periferico in una vita priva di centro.

Fuori di Francia, l’influsso dell’impressionismo sullaletteratura è piú forte di quello del simbolismo. Se inve-ce si guarda solo alla letteratura francese, si è facilmen-te indotti a identificare le due correnti61. Anche VictorHugo chiamava il giovane Mallarmé «mon cher poèteimpressioniste». Ma a un esame piú attento le differen-ze sono evidenti: l’impressionismo è materialistico esensualistico, per quanto delicati ne siano i temi; il sim-bolismo invece è idealistico e spiritualistico, benché ilsuo mondo ideale non sia che una sublimazione delmondo dei sensi. Ma il simbolismo francese – in cui dob-biamo includere quello belga – con le sue derivazioni,cioè il vitalismo di Bergson da un lato, il cattolicismomonarchico dell’Action française dall’altro, si distingueessenzialmente in quanto rappresenta una tendenza sem-pre pronta a mutarsi in attivismo; mentre l’impressio-nismo dei viennesi, dei tedeschi, dei russi e degli italia-ni, che ha in Schnitzler, Hofmannsthal, Rilke, Ωechov,D’Annunzio, gli interpreti maggiori, esprime una con-cezione della passività, del perfetto abbandono al mondocircostante e del dissolversi senza resistenze nell’istan-te. Eppure, quanto siano profondi i rapporti fra impres-sionismo e simbolismo, come facilmente prevalga inentrambi il momento irrazionale e la passività si tra-sformi in frivolo attivismo, lo dimostra l’evoluzione di

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poeti come Stefan George e D’Annunzio. Saremmosenz’altro disposti a collegare con le simpatie fasciste diquest’ultimo il suo cattivo gusto, la paludata verbosità,la cronica ebrezza di vita, se Barrès e Stefan George nonmanifestassero la stessa velleità politica, pur con ungusto e con maniere letterarie tanto migliori.

La forma piú pura dell’impressionismo che ripugna adogni atteggiamento attivo e si abbandona senza resi-stenza al flusso delle esperienze è quella dei viennesi.Forse è la vecchia, stanca cultura della città, la mancanzadi ogni attiva politica nazionale e il grande contributostraniero, specie ebraico, alla vita letteraria, a dareall’impressionismo viennese il suo particolare caratteredi sottigliezza e di passività. Si tratta dell’arte di giova-ni eredi borghesi, espressione del malinconico edonismodi quella «seconda generazione» che gode i frutti dellavoro paterno. Sono nevrotici e tristi, stanchi e senzameta, scettici e ironici verso se stessi questi poeti deglistati d’animo squisiti e subito dileguati, di cui nullarimane, se non il senso del transitorio, del mancato e lacoscienza dell’inettitudine alla vita. Il contenuto laten-te di ogni impressionismo, la coincidenza di vicino e lon-tano, l’estraneità delle cose prossime, quotidiane, ilsenso di esser sempre divisi dal mondo, diventa qui l’e-sperienza di fondo.

«Si può dar che questi giorni vicini – sian passati, persempre passati e del tutto perduti?» domanda Hof-mannsthal, e in questa domanda sono contenute ingerme anche le altre: il brivido dell’«adesso e qui» cheè insieme un «oltre», lo stupirsi perché «queste cosesono altre e ancora altre le parole che usiamo», lo sgo-mentarsi perché «tutti gli uomini vanno per la loro stra-da» e infine l’ultimo, grande problema: «Quando unomuore, porta con sé un segreto: come sia stato possibi-le a lui, proprio a lui, vivere nel senso spirituale dellaparola». Se si pensa alla frase di Balzac «Nous mourons

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tous inconnus», si vede con quanta coerenza si sviluppiin Europa il senso della vita dopo il 1830. Esso presen-ta un carattere costante, prevalente, sempre piú profon-do: la coscienza dell’isolamento, della solitudine, chepuò avvilirsi fino al sentimento del completo abbando-no da parte di Dio e del mondo, o elevarsi nell’istantedell’orgoglio, che spesso è quello della massima dispe-razione, all’idea del superuomo; questi nell’aria rarefat-ta delle altezze si sente solo e infelice come l’esteta nellasua torre d’avorio.

Il fenomeno piú rilevante di tutta la storia dell’im-pressionismo europeo è la sua adozione da parte deirussi e il sorgere di uno scrittore come Ωechov, che puòdirsi il piú puro rappresentante di tutto lo stile. Nulla èpiú sorprendente di un tale artista in un paese che finoa poco prima viveva ancora nell’atmosfera intellettualedell’illuminismo, ed era del tutto estraneo all’estetismoe decadentismo che in Occidente accompagnano il sor-gere dell’impressionismo. Ma in un secolo tecnico comeil xix le idee si diffondono presto e l’adozione dell’eco-nomia industriale crea anche qui condizioni che porta-no al nascere di un gruppo sociale simile a quello degliintellettuali d’Occidente e al manifestarsi di un atteg-giamento analogo all’ennui62. Gor´kij fin dall’inizio com-prese la funzione decisiva che era destinata a Ωechovnella letteratura russa; egli vide che con lui si conclude-va tutta un’epoca, e che il suo stile possedeva per lenuove generazioni un fascino a cui esse non avrebberopiú potuto rinunziare. «Sa Lei quel che fa? – gli scrivenel 1900. – Lei annienta il realismo... Dopo uno dei Suoiracconti, sia pure il meno importante, tutto sembrarozzo, scritto con un bastone, non con la penna»63.

Come apologeta dell’insuccesso e dell’inettitudinealla vita, Ωechov ha i suoi precursori in Dostoevskij eTurgenev, ma questi non considerano ancora la sfortu-na e la solitudine come inevitabile destino dei migliori.

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Solo con Ωechov si ha una visione del mondo imperniatasull’esperienza della incomunicabilità fra gli uomini, cosícaratteristica dell’impressionismo, sulla loro incapacitàdi superare del tutto la distanza che li divide o, pur riu-scendovi, di mantenersi vicini. L’umanità di Ωechov sisente derelitta e disperata, irrimediabilmente paralizza-ta nella volontà, o sterile in ogni suo sforzo. Questa filo-sofia della passività e dell’indolenza, questo senso chenulla nella vita giunga allo scopo e al termine, hannograndi conseguenze formali; portano ad accentuare ilcarattere episodico, irrilevante dell’avvenimento ester-no, alla rinunzia ad ogni struttura formale, a ogni con-centrazione e integrazione, portano a preferire una com-posizione eccentrica, che trascura o violenta la cornice.Come Degas respinge parti importanti della scena pro-prio ai margini del quadro e le taglia con la cornice,Ωechov termina le sue novelle e i suoi drammi con un’ar-si, per accentuare anche cosí l’impressione del non con-chiuso, dell’interrotto, della fine casuale, arbitraria. Eglisegue un principio formale perfettamente opposto aquello della «frontalità»: anzi, tutto è predisposto perdare all’opera il carattere di un evento casuale, scoper-to, colto per caso.

Il senso che gli eventi esterni sono assurdi, irrilevan-ti e frammentari, porta nel dramma a ridurre al minimol’azione e a rinunciare agli effetti cosí caratteristici dellapièce bien faite. Il buon teatro deve essenzialmente la suaefficacia ai principî della forma classica: unità, conclu-sione e armonioso sviluppo dell’azione. Il dramma poe-tico, sia quello simbolico di Maeterlinck, sia quelloimpressionistico di Ωechov, rinunzia a questi mezzistrutturali a favore dell’immediata espressione lirica. Laforma cecoviana è forse la meno teatrale di tutta la let-teratura – una forma in cui i coups de théâtre, gli effet-ti scenici di sorpresa e di tensione hanno una parte mini-ma. Non c’è dramma piú povero di avvenimenti, di

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movimento, di conflitti. I personaggi ignorano la lotta,la difesa, la sconfitta; cedono, affondano a poco a poco,inghiottiti dalla monotonia della loro vita senza vicen-de e senza prospettive. Si abbandonano al loro destinoche si consuma in delusioni, non in catastrofi. Fin dallasua prima comparsa, si è dubitato di poter giustificareun simile dramma privo d’azione e di movimento e ci siè chiesti se fosse il vero dramma, vero teatro, cioè sesulla scena si sarebbe mostrato vitale.

La pièce bien faite apparteneva ancora al vecchio tea-tro e, pur accogliendo certi elementi del naturalismo, incomplesso si atteneva sia alle convenzioni tecniche dellascena, sia all’ideale eroico del dramma classico-roman-tico. Soltanto nel nono decennio il naturalismo conqui-sta la scena, quando già nel romanzo comincia la suaparabola discendente. Il primo dramma naturalistico,Les corbeaux di Henri Becque, è del 1882, e il Théâtrelibre di Antoine, il primo della corrente naturalistica, èfondato nel 1887. Da principio il pubblico borghese simostra del tutto refrattario, benché Henri Becque e isuoi immediati successori non facciano che sfruttare perla scena quel che già da gran tempo Balzac e Flauberthanno reso familiare a tutti. Il dramma naturalistico insenso stretto sorge altrove, nei paesi nordici, in Ger-mania e in Russia. A poco a poco il pubblico ne accettale convenzioni, come ha accettato quelle del romanzo,e Ibsen, Brieux e Shaw suscitano proteste solo per gliassalti troppo aspri alla morale borghese. Ma infine,benché avverso ad essa, il nuovo indirizzo conquista laborghesia, e persino il dramma socialista di GerhartHauptmann celebra i suoi primi e massimi trionfi negliambienti dell’alta borghesia berlinese. Il teatro natura-listico non è che la via verso il dramma intimo, versol’interiorizzazione dei conflitti, verso un piú immedia-to contatto fra scena e pubblico. I troppo facili espe-dienti, l’intreccio complicato e la tensione forzata, gli

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indugi e le sorprese artificiose, le scene madri e i finalidi grand’effetto resistono nel teatro piú a lungo che nelromanzo, ma a un tratto cominciano a sembrare ridico-li e debbono essere sostituiti o velati con effetti piú sot-tili. Senza l’adesione di un pubblico relativamente vasto,il dramma naturalistico non sarebbe mai divenuto unarealtà nella storia del teatro. Se un volume di liriche puòuscire in due o trecento copie, e un romanzo in mille oduemila, una rappresentazione teatrale dev’esser vistada diecimila persone, perché se ne coprano le spese. Ilnuovo dramma naturalistico in questo senso già da unpezzo si era dimostrato vitale, quando ancora critici eteorici si stillavano il cervello sulle sue possibilità. Essinon riuscivano a liberarsi dalla concezione classica deldramma e anche i piú ragionevoli fra loro, o i piú acuti,consideravano il teatro naturalistico come una contra-dictio in adiecto64. Soprattutto non potevano ammettereche si trascurasse l’economia del dramma classico, con-versando liberamente sulla scena, discutendo problemi,descrivendo esperienze, saltando di palo in frasca, comese la rappresentazione non dovesse mai finire. Biasima-vano che il dramma naturalistico non nascesse «dallaconsiderazione del destino, del personaggio e del sog-getto, ma da una riproduzione particolaristica dellarealtà65»; in realtà poi accadde semplicemente che larealtà, con i suoi vincoli concreti, divenne essa stessa ildestino, e i «personaggi» non furono piú semplici figu-re da palcoscenico, ma uomini dalle molte facce, com-plicati, incoerenti, «senza carattere» come si diceva untempo e che, come espose Strindberg nel suo proemio aLa signorina Giulia del 1888, erano un prodotto dellecondizioni, dell’eredità, dell’ambiente, dell’educazione,dell’indole, degli influssi locali, stagionali e accidentali;e le loro decisioni non avevano un solo motivo, ma tuttauna serie di motivi.

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Col prevalere dell’interiorità, dello stato d’animo,dell’atmosfera e del lirismo sull’azione drammatica, siassiste alla scomparsa del racconto vero e proprio, nelteatro come nella pittura impressionistica. Tutta l’artedel tempo mostra una tendenza allo psicologismo e allirismo; la ripugnanza al racconto e l’inclinazione a sosti-tuire il movimento intimo a quello esteriore, la filosofiae l’interpretazione della vita all’azione, possono di certoconsiderarsi il tratto essenziale del nuovo indirizzo arti-stico, che si afferma in ogni campo. Ma, mentre la pit-tura aneddotica non trovò difensori fra i critici d’arte,i critici teatrali protestarono con la massima energiacontro chi trascurava l’azione. Specialmente in Germa-nia, essi parlarono di una fatale separazione del dram-ma dal teatro, del peso decisivo dell’efficienza scenicaper l’esperienza teatrale, del carattere di massa di taleesperienza e della fondamentale assurdità del teatro inti-mo. I moventi di questa opposizione erano diversissimi;la reazione politica non sempre vi aveva la parte princi-pale, e spesso si esprimeva solo per via indiretta; dimaggior peso invece furono le simpatie per un «teatromonumentale» che, soprattutto in Germania, si con-trapponeva al teatro intimo rispondente alle vere esi-genze spirituali, nonché l’ambizione di creare un «tea-tro di massa» per le masse che effettivamente c’erano,ma non formavano un pubblico teatrale. Caratteristicodi tutta questa confusione d’idee fu che come stile adat-to al futuro teatro popolare si finí per presentare non giàil naturalismo cresciuto di pari passo con la concezionedemocratica, ma il classicismo della vecchia aristocraziae della borghesia.

Le maggiori accuse rivolte contro il nuovo drammaerano quelle di determinismo e relativismo, entrambiinscindibili dalla visione naturalistica del mondo. Si pro-clamava che dove manchino libertà intima ed esteriore,valori assoluti, regole morali obiettive, universali e indi-

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scutibili, non può esistere un vero dramma, cioè una tra-gedia. La relatività delle norme etiche e la comprensio-ne per opposte posizioni morali escluderebbe del tuttoun vero conflitto drammatico. Quando sia lecito tuttocomprendere e tutto perdonare, l’eroe nella sua lotta aoltranza apparirà alla fine un pazzo testardo, il conflit-to perderà ogni necessità e il dramma verrà a prendereun carattere tragicomico e patologico66. Tutto il ragio-namento brulica di equivoci, pseudoproblemi e sofismi.In primo luogo, si viene a identificare nel dramma tra-gico tutto il dramma, o almeno lo si rappresenta comela sua forma ideale, esprimendo cosí un giudizio di valo-re per se stesso molto relativo, in quanto determinato dacondizioni storiche e sociali. In realtà, non solo il dram-ma senza tragedia, ma anche senza conflitto può essereuna forma teatrale perfettamente legittima; e il teatro sipuò benissimo conciliare con una visione relativistica delmondo. Ma anche se si considera il conflitto un ele-mento indispensabile, è difficile capire perché dovreb-bero prodursi conflitti profondamente commoventi solodove si tratti di valori assoluti. Non è altrettanto impres-sionante la lotta degli uomini per i loro principî moralideterminati da un’ideologia? E perfino quando si trat-ta di una lotta necessariamente tragicomica non saràproprio questo suo carattere a produrre, in un tempo dirazionalismo e di relativismo, i maggiori effetti dram-matici? Del resto la premessa di tutta l’argomentazioneè discutibile, e cioè l’idea che l’assenza di libertà socia-le e il relativismo etico escludano senz’altro la tragedia.Non consta affatto che solo uomini del tutto liberi,socialmente indipendenti, come sovrani e condottieri,siano eroi da tragedia. Non è forse tragico il destino delMastro Antonio di Hebbel, del Gregers Werle di Ibsen,dello Henschel di Hauptmann? Concediamo pure chetragico e triste non sono la stessa cosa. Ma sarebbe«antidemocratico» affermare con Schiller che non ci

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può esser tragedia nel furto di cucchiai d’argento. La tra-gicità di una situazione dipende soltanto dalla forza, dal-l’intransigenza con cui diversi, inconciliabili principîmorali si affrontano nell’anima di un uomo. Ma perchési determini l’effetto tragico non è neppure assoluta-mente necessario che un pubblico veda posti in discus-sione valori ch’esso crede assoluti, e tanto meno valoriin cui non crede piú.

Nella storia del dramma moderno Ibsen è la figuracentrale, e non solo perché è il maggior drammaturgo delsecolo, ma perché l’opera sua pone con il massimo vigo-re i problemi filosofici del tempo. La liquidazione del-l’estetismo, problema cruciale della sua generazione,segna il principio e la fine della sua carriera artistica. Findal 1865 egli scrive a Björnson: «Se in questo momen-to io dovessi dichiarare quale profitto abbia tratto insostanza dal mio viaggio, direi che mi sono liberato dal-l’estetismo, che mi aveva tutto in suo potere, preten-dendosi fine a se stesso. Quindi esso ora mi sembra unamaledizione per la poesia, come la teologia per la reli-gione»67. Secondo ogni apparenza, Ibsen giunge a risol-vere questo problema sotto l’influsso di Kierkegaard,che tanta parte deve aver avuto nella sua evoluzione,bench’egli affermasse di non capire gran che delle teo-rie del filosofo68. Kierkegaard con il suo aut-aut deveaver dato l’impulso decisivo soprattutto all’evolversi delrigorismo morale ibseniano69. La passione etica di Ibsen,la coscienza di dover scegliere e decidere, la concezionedell’attività poetica come «l’ultima sentenza su se stes-si», tutto ciò ha radice nelle idee di Kierkegaard. Cheil «tutto o nulla» di Brand corrisponda all’aut-aut diKierkegaard, lo si è osservato spesso; ma Ibsen deve benaltro all’intransigenza del suo maestro; gli deve tutta lasua concezione etica, antiromantica e scevra d’estetismo.La miopia dei romantici consisteva soprattutto nel ridur-re ogni manifestazione dello spirito a categorie estetiche,

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e ai loro occhi tutti i valori portavano piú o meno l’im-pronta del genio. Kierkegaard fu il primo che contro ilRomanticismo osò affermare che l’esperienza etica ereligiosa non ha a che vedere con la bellezza e la genia-lità, e un eroe della fede è affatto diverso da un genio.Nell’Occidente postromantico nessun altro aveva coltoi limiti della sfera estetica, e all’infuori di lui non vi eranessuno che potesse influire in tal senso su Ibsen. Quan-to tale influsso abbia contribuito a determinare la criti-ca ibseniana del romanticismo è difficile dire. L’irreali-smo romantico era un problema generale del tempo, ecerto allo scrittore non occorrevano speciali stimoli peraffrontarlo. Tutto il naturalismo francese s’imperniavasul conflitto tra ideale e realtà, finzione e verità, poesiae prosa, e i piú noti pensatori del secolo riconoscevanonel difetto di realismo la maledizione della culturamoderna. Sotto questo aspetto Ibsen non fece che con-tinuare la lotta dei suoi predecessori, ultimo di unalunga serie che includeva tutti gli avversari del roman-ticismo. Il colpo mortale che egli porta al nemico consi-ste nello svelare il lato tragicomico dell’idealismo roman-tico. Dopo il Don Quijote la cosa non era del tuttonuova, ma Cervantes trattava ancora il suo eroe con sim-patia e indulgenza, mentre Ibsen annienta moralmenteBrand, Peer Gynt e Gregers Werle. L’«esigenza idea-le», fuor d’ogni realtà, dei suoi romantici si rivela puroegoismo, che l’ingenuità dell’egoista non basta a miti-gare. Don Quijote affermava i suoi ideali anzitutto con-tro se stesso; gli idealisti di Ibsen invece si distinguonosoltanto per la loro intolleranza verso gli altri.

Ibsen dovette la sua fama europea al messaggio socia-le dei suoi drammi, riducibile, in ultima analisi, a unasola idea: il dovere dell’individuo verso se stesso, il suocompito di realizzarsi affermando la propria natura con-tro le convenzioni, meschine, stupide e superate, dellasocietà borghese. Il suo era dunque un vangelo dell’in-

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dividualismo, un’esaltazione della personalità sovrana,un’apoteosi della vita creatrice; dunque, in certo modo,ancora un ideale romantico che fece la piú profondaimpressione sulla gioventú; e non solo era essenzial-mente affine all’idea nietzschiana del superuomo e all’é-lan vital di Bergson, ma tornò a riecheggiare in Shaw,nel suo mito della forza vitale. In fondo Ibsen era unindividualista anarchico; nella libertà personale scorge-va il piú alto valore della vita e il suo principio era chel’individuo libero, sciolto da ogni vincolo esteriore, puòfar molto per sé, mentre pochissimo può fare per lui lasocietà. La sua idea della realizzazione di se medesimiera innegabilmente di grande portata sociale, ma la«questione sociale» vera e propria lo lasciava indiffe-rente. «A dir vero, per la solidarietà non ho mai avutogran simpatia» egli scrive a Brandes nel 187170. Il suopensiero si imperniava sui problemi dell’etica indivi-duale; per lui la società esprimeva solo il principio delmale. Egli non vi scorgeva che il regno della stupidag-gine, del pregiudizio e della costrizione. Infine giunse aquella morale aristocraticamente conservatrice, che rap-presentò con particolare chiarezza in Rosmerholm. Perla sua modernità, il suo antifilisteismo, la sua lotta acca-nita contro ogni convenzione, Ibsen apparve all’Europauno spirito assolutamente progressista; ma in patria,dove si era in grado di giudicare le sue opinioni politi-che con maggior conoscenza di causa, lo si consideravail grande poeta conservatore, che si contrapponeva alradicale Björnson. All’estero tuttavia se ne intese megliol’importanza storica. Egli apparve una delle poche figu-re rappresentative dell’epoca, se non la sola, che fosselecito paragonare a Tolstoj, Anch’egli, infatti, dovetteil suo nome e la sua autorità non tanto alla sua opera dipoeta, quanto a quella di agitatore e di educatore. In luisi onorò soprattutto il grande moralista, l’appassionatoaccusatore e l’impavido campione della verità, per il

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quale il teatro era il mezzo a un fine piú alto. Politica-mente, tuttavia, Ibsen non aveva nulla di positivo dadire ai suoi contemporanei. Tutta la sua visione delmondo era incrinata da una contraddizione profonda:egli lottava contro la morale convenzionale, i pregiudi-zi borghesi, la società dominante, in nome d’una libertàch’egli stesso non credeva attuabile. Era un crociatosenza fede, un rivoluzionario senza ideali sociali: e ilriformatore si trasformò alla fine in un duro fatalista.

Ibsen finí proprio come il Frenhofer di Balzac, ocome Rimbaud e Mallarmé. Rubek, l’eroe del suo ulti-mo dramma, la piú schietta incarnazione della sua ideadell’artista, rinnega la propria opera e prova quel cheogni artista piú o meno ha provato dal romanticismo inpoi: il senso di essersi lasciato sfuggire per l’arte la vita.«Una notte estiva sui monti con te, sì, con te, Irene,questo sarebbe stata la vita!» In questo grido è implici-to il giudizio su tutta l’arte moderna. L’apoteosi delle«notti estive» della vita è diventata un povero surroga-to, un oppio che ottunde i sensi e rende l’uomo incapa-ce di godere direttamente la vita.

L’unico vero discepolo e successore di Ibsen è Shaw,l’unico che ne abbia continuato con efficacia la lottacontro il romanticismo, approfondendo il grande dibat-tito dell’Europa ottocentesca. È lui che completa losmascheramento dell’eroe romantico, e la distruzionedella fede nei grandi gesti teatrali. Tutto ciò che è pura-mente decorativo, vistosamente eroico, sublime e idea-listico con lui diventa sospetto; ogni sentimentalismo edistacco dalla realtà si rivelano inganni e imposture. Lapsicologia dell’autoinganno è la fonte della sua arte, edegli è fra i piú animosi e intransigenti, ma anche fra ipiú gioviali e divertenti smascheratori di quest’intimainclinazione. Se tutto il suo pensiero, cosí accanito neldistruggere leggende e rivelare finzioni, ha un’innegabileorigine illuministica, la sua filosofia della storia, radica-

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ta nel materialismo storico, fa di lui il piú progressistae il piú moderno scrittore della sua generazione. Eglidimostra che la falsa prospettiva in cui gli uomini vedo-no il mondo e se stessi, le menzogne ch’essi proclama-no o lasciano affermare come verità e per cui, in certicasi, sono pronti a tutto, sono legate alle ideologie, cioèa interessi economici e aspirazioni sociali. Il peggio nonè che essi pensino in modo irrazionale – spesso anzi sonofin troppo razionali – ma che non abbiano alcun sensodella realtà, che non vogliano ammettere i fatti comefatti. Quindi non il razionalismo, bensí il realismo è lameta di Shaw; e la volontà, non la ragione, è la facultémaitresse dei suoi eroi71. Questo spiega in parte anche lasua vocazione di drammaturgo, e come nel piú dinami-co fra i generi letterari le sue idee abbiano trovato la loroforma piú adeguata.

Shaw non sarebbe il perfetto rappresentante del suotempo, se non ne condividesse anche l’intellettualismo.Pur con la loro pulsante vivacità, l’efficacia scenica spes-so memore della pièce bien faite e il tono melodramma-tico talvolta un po’ volgare, i suoi drammi sono essen-zialmente intellettualistici; piú ancora di quelli di Ibsensono drammi di discussione e di polemica. Il ripiegarsidell’eroe su se stesso e il dibattito intellettuale fra le dra-matis personae non sono caratteristiche esclusive del tea-tro moderno; anzi il conflitto drammatico, se deve rag-giungere una sua incisività e un suo rilievo, esige sem-pre dai personaggi che vi sono impegnati la pienacoscienza di quel che avviene in loro. Non c’è veroeffetto drammatico, e tanto meno tragico, senza que-st’intellettualismo dei personaggi. I piú ingenui, impul-sivi eroi di Shakespeare diventano geniali nel momentoin cui si decide il loro destino. Ma, dopo il magro vittoofferto alla mente dalle commedie allora in voga, quei«dibattiti drammatici», come furono chiamati i lavori diShaw, riuscirono cosí indigesti, che critici e pubblico

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dovettero prima avvezzarcisi. Shaw si atteneva all’in-tellettualismo tradizionale del dialogo drammatico assaipiú rigorosamente dei suoi predecessori; ma nessun pub-blico poteva gustare una simile rappresentazione megliodegli intelligenti frequentatori del teatro sullo scorcio delsecolo. Ed essi si divertirono cordialmente alle acroba-zie intellettuali che venivano loro offerte, appena sifurono persuasi che gli assalti di Shaw alla società bor-ghese non erano davvero così pericolosi come pareva e,soprattutto, che egli non voleva togliere a nessuno il suodenaro. Alla fine si scoprí che in sostanza egli era soli-dale con la borghesia, ed era semplicemente il portavo-ce di quell’autocritica che rientra nell’abito mentale diquesta classe.

La psicologia, che sullo scorcio del secolo determinala concezione del mondo, è una «psicologia del profon-do». Tanto Nietzsche che Freud partono dall’assuntoche la vita psichica manifesta – cioè quel che gli uomi-ni sanno o pretendono di sapere sui moventi del lorocomportamento – spesso non fa che velare e deformarei reali motivi dei sentimenti e delle azioni. Nietzscheimputa tale falsificazione alla decadenza che travaglial’umanità dall’inizio del cristianesimo, e allo sforzo dipresentare come valori etici, come ideali altruistici eascetici, la debolezza e i rancori dell’umanità degenera-ta. Al fenomeno dell’autoinganno – che Nietzsche sco-pre valendosi della critica storica della civiltà – Freudgiunge analizzando la psiche individuale e giunge a sta-bilire che, dietro la coscienza dell’uomo sta, vero moto-re degli atteggiamenti e delle azioni, l’inconscio: ognipensiero cosciente non è che il velo piú o meno traspa-rente degli impulsi che sono il contenuto dell’inconscio.Qualunque cosa Nietzsche e Freud sapessero e pensas-sero di Marx, quando sviluppavano le loro teorie, ècerto che nelle loro indagini seguivano quella tecnica

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analitica, che per la prima volta il materialismo storicoaveva applicato. Anche Marx insiste sulla coscienzadeformata e guasta e sul fatto che essa vede il mondo inuna falsa prospettiva. Il concetto di «razionalizzazione»della psicanalisi corrisponde appunto a quel che Marx edEngels intendono per elaborazione delle ideologie e«falsa coscienza». Engels72 e Jones73 definiscono i dueconcetti nello stesso senso. Gli uomini non solo agisco-no, ma spiegano e giustificano le loro azioni secondo illoro particolare punto di vista, determinato da condi-zioni sociali e psichiche. Marx è il primo a rilevare che,sotto la spinta degli interessi di classe, non solo essiincorrono in singoli errori, falsificazioni e mistificazio-ni, ma che tutto il loro pensiero, tutta la loro visione nevengono distorti e falsati, ed essi non possono piú vede-re e giudicare la realtà se non partendo da premesse trat-te dalle loro condizioni economiche e sociali. La dottri-na su cui Marx fonda tutta la sua filosofia della storiaconsiste nel principio che in una società differenziata escissa in classi è senz’altro impossibile un pensiero cor-retto74. La scoperta che per lo piú si tratta di autoin-ganno, e che i singoli individui non sempre sono conscidei motivi del loro agire, fu di fondamentale importan-za per l’ulteriore sviluppo della psicologia.

Ma anche il materialismo storico, con la sua tecnicaanalitica, fu un prodotto di quella visione borghese-capitalistica, di cui voleva scoprire il fondo. Prima chel’economia avesse raggiunto nella coscienza del mondooccidentale l’assoluta preminenza che ha ai nostri gior-ni, una simile teoria sarebbe stata inconcepibile. L’e-sperienza decisiva per l’età postromantica fu quella delladialettica di ogni avvenimento, l’antitesi di esistenza ecoscienza, l’ambivalenza dei rapporti e delle rappresen-tazioni. Il principio fondamentale della nuova tecnicaanalitica è il sospetto che dietro ogni fatto manifesto cene sia uno latente, dietro ogni coscienza si celi un incon-

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scio, dietro ogni apparente unità un dissidio. Perchéquesto orientamento si generalizzasse non era affattonecessario che i singoli pensatori e studiosi consapevol-mente si rifacessero al metodo del materialismo storico;l’idea del pensiero e della psicologia come strumenti dismascheramento e rivelazione era tipica del secolo, eNietzsche non dipendeva tanto da Marx, né Freud daNietzsche, quanto tutti insieme da un’atmosfera di crisi.Ciascuno a suo modo, scoprirono che l’autonomia dellospirito è una finzione e che noi siamo gli schiavi di unaforza che opera dentro di noi e spesso contro di noi.Come piú tardi in quella della psicanalisi, nella dottrinadel materialismo storico, pur piú ottimista nelle sue con-clusioni, l’Occidente esprime una concezione che rive-la la perdita della baldanzosa fede in se stesso.

Anche i pensatori piú razionali e consapevoli, nonsempre, nello sviluppo delle loro teorie, partono da quel-le che sono le effettive premesse del loro pensiero. Spes-so le realizzano solo piú tardi, e talvolta mai. AncheFreud soltanto in uno stadio relativamente tardo dellasua evoluzione raggiunse una chiara consapevolezza del-l’esperienza da cui derivava la problematica della sua psi-canalisi. Questa esperienza, che era anche all’origine diogni significativa manifestazione del secolo, intellettua-le come artistica, Freud stesso la chiamò «disagio dellaciviltà». Essa era espressione dello stesso senso di estra-neità e di smarrimento che si ritrova nel romanticismoe nell’estetismo, della stessa angoscia mortale, della stes-sa incertezza sul significato della cultura, della stessasensazione di esser circondati da pericoli ignoti, inson-dabili, indefinibili. Freud spiegava questo disagio, que-sto senso di equilibrio instabile e precario, con la fortemenomazione della vita istintiva, e soprattutto degliimpulsi erotici, trascurando del tutto la parte che pote-va avervi la mancanza di sicurezza economica, di affer-mazione sociale e di influsso politico dell’individuo.

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Senza dubbio le nevrosi rientrano nel prezzo da pagareper la nostra civiltà, ma sono soltanto una parte, soven-te solo una forma secondaria, dello scotto che paghiamoalla struttura sociale. Freud per la sua visione stretta-mente scientifica non è in grado di valutare i fattorisociologici nella vita psichica degli uomini, e benché nelsuper-io egli scorga un’istanza sociale, nega nello stessotempo che l’evoluzione della società possa provocaresostanziali mutamenti nella nostra costituzione biologi-co-istintiva. Per lui le forme culturali non sono costru-zioni storico-sociologiche, ma espressioni piú o menomeccaniche degli istinti. Nella società borghese-capita-listica giungono a palesarsi istinti di erotismo anale, leguerre sono opera dell’impulso di morte, il disagio nellaciviltà risale alla repressione della libido. Perfino la teo-ria della sublimazione, che è fra i grandiosi risultatidella psicanalisi, porta a una pericolosa e grossolanasemplificazione del concetto di cultura, se si consideral’istinto sessuale come l’unica, o almeno la piú impor-tante fonte della creazione intellettuale. I marxistihanno ragione quando rimproverano alla psicanalisi dimuoversi nel vuoto, con il suo metodo che prescindedalla storia e dalla sociologia, e di celare un residuo d’i-dealismo conservatore nell’idea di una natura umanacostante. Assai piú dogmatica invece appare l’altra obie-zione, che designa la psicanalisi come un portato dellaborghesia in decadenza, destinato a soccombere conessa. Infatti, quali dei nostri valori intellettuali vera-mente vivi – compreso il materialismo storico – nonsono il portato di questa cultura «in decadenza»? Se lapsicanalisi è un fenomeno di decadenza, lo è anche l’in-tero romanzo naturalistico e tutta l’arte impressionisti-ca; e insomma tutto quello che porta in sé il dissidio del-l’Ottocento è decadenza.

Thomas Mann osserva che Freud per la natura delsuo materiale d’indagine – l’inconscio, gli affetti, gli

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impulsi e i sogni – è profondamente legato all’irrazio-nalismo dell’ultimo Ottocento75. In verità, Freud si legastrettamente non solo a questo irrazionalismo neoro-mantico, che accentra il suo interesse sul volto nottur-no della vita psichica, ma anche agli inizi e alle originidi tutto quel filone del pensiero romantico, che si volgeal primitivo e al prerazionale. C’è ancora parecchio diRousseau nel compiacimento con cui egli caratterizza lalibertà dell’uomo selvaggio, tutto istinto. E se anche nongiunge ad affermare che, ad esempio, l’uomo allo statodi natura che uccideva il padre e si accoppiava con tuttele donne della famiglia, si può chiamare «buono» nelsenso usato da Rousseau, comunque mette in dubbio chesia diventato gran che migliore o piú felice incivilendo-si. Il pericolo dell’irrazionalismo non sta, per la psica-nalisi, nella scelta del materiale d’indagine e nella sim-patia per i primitivi immuni dalla civiltà, ma nella suastessa teoria psicologica fondata sulla vita istintiva. Ogniconcezione dell’uomo che non sia dialettica e considerila sua natura come un dato costante, non modificabiledalla storia, contiene già un elemento irrazionale e con-servatore. Chi non crede alla possibilità di evoluzionedell’uomo, per lo piú non desidera affatto ch’egli mutise stesso e la società. Pessimismo e conservatorismosono in questo caso interdipendenti. Ma Freud non è unvero pessimista e neppure un conservatore o un irrazio-nalista. Nonostante tutti gli elementi pericolosi, l’ope-ra sua presenta con innegabile evidenza una spontaneafilantropia e un orientamento progressista per cui nonoccorrono speciali prove. Queste, del resto, non man-cano. Certo egli dubita che la ragione possa prevaleresugli impulsi, tuttavia dichiara che per dominarli non c’èaltro mezzo che la nostra intelligenza. E non è un’af-fermazione disperata in lui. «La voce dell’intelletto ètenue, – egli dice, – ma non tace prima di aver ottenu-to udienza. Alla fine, sovente dopo innumerevoli ripul-

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se, trova ascolto. Questo è uno dei pochi punti per cuisi può essere ottimisti sull’avvenire dell’umanità, ma insé non è cosa da poco e vi si possono riannodare altresperanze. Il primato dell’intelletto è certo molto, moltolontano, ma verosimilmente non a distanza infinita»76.

Freud sa superare il suo tempo e combatte le forzeoscure e irrazionali da cui esso è dominato; ma ad esso,alle sue conquiste e alle sue deficienze, è e rimane lega-to per innumerevoli fili. Il principio stesso della sua psi-cologia del profondo, in cui le differenze individualihanno una parte tanto maggiore che in Marx, è stretta-mente affine all’ideale impressionistico e al relativismofilosofico di quegli anni. È tipico della mentalità impres-sionista quel concetto dell’illusione che nasce dall’espe-rienza del continuo variare in noi di sensazioni e impres-sioni, di stati d’animo, e rappresentazioni, cosí che larealtà si mostra in forme sempre diverse, sempre insta-bili, e ogni impressione che ne ricaviamo è insieme cono-scenza e inganno; e la corrispondente idea freudianache gli uomini passano tutta la vita come in incognitodavanti agli altri e a se stessi, difficilmente sarebbe stataconcepibile prima dell’impressionismo. L’impressioni-smo è veramente lo stile del tempo, nel pensiero comenell’arte. Tutta la filosofia degli ultimi decenni del seco-lo ne è determinata. Relativismo, soggettivismo, psico-logismo, storicismo, lo spirito antisistematico, il princi-pio dell’atomizzarsi del mondo intellettuale e la conce-zione prospettica della verità, sono elementi comuni alleteorie di Nietzsche, di Bergson, dei pragmatisti e ditutti gli indirizzi filosofici indipendenti dall’idealismoaccademico.

«Non s’è ancor vista la verità a braccetto con un asso-luto», osserva Nietzsche. La scienza fine a se stessa, laverità incondizionata, la bellezza disinteressata, la mora-le altruistica sono, per lui e per i suoi contemporanei,finzioni. Quelle che noi chiamiamo verità, egli afferma77,

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realmente non sono che una serie di inganni e menzo-gne opportune, necessarie alla vita, di cui esaltano leenergie; e in sostanza anche il pragmatismo adotta que-sto concetto attivistico e utilitaristico della verità. Veroè quel che è efficace, conveniente, utile, quel che fabuona prova e si fa «pagare», come dice William James.Non si può immaginare teoria della conoscenza megliorispondente all’impressionismo. Ogni verità ha una pre-cisa attualità; è valida solo in ben determinate situazio-ni. Un’affermazione può essere vera in se, ma affattoassurda in certe circostanze, perché priva di qualsiasiriferimento. Se alla domanda: «Che età hai?» si rispon-de: «La terra gira intorno al sole», queste parole, nono-stante l’eventuale verità dell’asserzione, sono in questocaso affatto inutili e assurde. La verità è un rapportoindissolubile fra soggetto e oggetto, di cui i singoli com-ponenti non si possono discernere e concepire comeautonomi. Noi mutiamo, e con noi muta il mondo obiet-tivo. Ragguagli su avvenimenti naturali e storici, checent’anni fa possono esser stati veri, oggi non lo sonopiú, perché la verità è, come noi, in continuo moto, svi-luppo, mutamento; è la somma di fenomeni semprenuovi, inaspettati, casuali, e non può mai considerarsiconclusa. Tutto il pragmatismo deriva dalla mutevoleesperienza della realtà, che l’impressionismo aveva rea-lizzato; nell’impressionismo infatti, cioè nella sfera del-l’arte, i rapporti con la verità sono di fatto come quellafilosofia li afferma per l’esperienza in genere. Lo Shake-speare del dottor Johnson, di Coleridge, di Hazlitt e diBradley non esiste piú: le opere del poeta non sono piúquel che erano un tempo. Se le parole possono essere lestesse, un’opera non è soltanto fatta di parole, ma anchedel loro significato, e questo muta da una generazioneall’altra.

Il pensiero impressionista trova la sua espressionepiú pura nella filosofia di Bergson, e proprio nell’inter-

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pretazione bergsoniana del tempo, cioè di quel mediumche è l’elemento vitale dell’impressionismo. L’unicitàdell’istante, che non è mai esistito prima e non si ripe-terà mai piú, fu l’esperienza fondamentale dell’Otto-cento, e tutto il romanzo naturalistico, specie quello diFlaubert, non fu se non la rappresentazione e l’analisidi tale esperienza. La visione flaubertiana si distinguetuttavia da quella di Bergson soprattutto perché Flau-bert vedeva ancora nel tempo un elemento di dissolu-zione che distrugge la sostanza ideale della vita. Il muta-mento nella nostra concezione del tempo e in fondo ditutta la realtà sensibile si compí gradualmente, primanella pittura impressionistica, poi nella filosofia bergso-niana, infine – nel modo piú esplicito e significativo –nell’opera di Proust. Il tempo non è piú principio di dis-soluzione e distruzione, l’elemento in cui le idee e gliideali perdono il loro valore, la vita e lo spirito la lorosostanza, ma anzi è la forma in cui noi diventiamopadroni e consci del nostro essere spirituale, della nostranatura vivente, opposta alla morta materia e alla rigidameccanica. Quel che noi siamo, lo diventiamo non solonel tempo, ma grazie al tempo. Non solo siamo la sommadei singoli momenti della nostra vita, ma il prodotto deinuovi aspetti ch’essi acquistano ad ogni nuovo momen-to. Non diventiamo piú poveri per il tempo passato e«perduto»; solo esso anzi dà sostanza alla nostra vita. Lagiustificazione della filosofia bergsoniana è il romanzodi Proust; in esso per la prima volta si esplica piena-mente la concezione bergsoniana del tempo. L’esisten-za riceve vita, moto, colore, trasparenza ideale e conte-nuto spirituale solo dalla prospettiva di un presente cherisulta dal nostro passato. Non c’è felicità fuor del ricor-do, che risuscita, ravviva, conquista il tempo passato eperduto; poiché i veri paradisi sono quelli perduti, comedice Proust. Dall’età romantica in poi si era semprefatto carico all’arte di perdere la vita, e si era conside-

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rato il dire e l’avoir di Flaubert come una tragica alter-nativa; Proust è il primo a scorgere nella contemplazio-ne, nella memoria e nell’arte non solo una delle formepossibili, ma l’unica in cui sia dato possedere la vita.Veramente la nuova concezione del tempo nulla muta disostanziale nell’estetismo di quegli anni, solo gli confe-risce un’apparenza piú confortante; ma null’altro cheun’apparenza, poiché in Proust il trasmutare dei valoridella vita non è che il conforto e l’illusione di un mala-to, di un sepolto vivo.

1 andré bellessort, Les Intellectuels et l’avènement de la troisièmeRépublique, 1931, p. 24.

2 p. louis, Histoire du socialisme en France de la Révolution à nosjours, 3a ed., 1936, pp. 236-37.

3 a. bellessort, Les Intellectuels ecc. cit., p. 394 w. sombart, Der moderne Kapitalsmus cit., III, 1, 1927, pp. xii-xiii5 p. louis, Histoire du socialisme ecc. cit., pp. 242, 216-17.6 Cfr. henry ford, My Life and Work, 1922, p. 153.7 w. sombart, Der moderne Kapitalismus cit., III, 2, pp. 603-7 - Die

deutsche Volkswirtschaft im 19. Jahrhundert cit., pp. 397-98.8 Cfr. pierre francastel, L’Impressionisme, 1937, pp. 25-26, 80.9 georg marzynsky, Die impressionistische Methode, in «Zeitschrift

für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», xiv, 1920. 10 georges rivière, Exposition des Impressionistes, in «L’impressio-

niste. Journal d’Art», 6 aprile 1877. Riprodotto in l. venturi, LesArchives de l’Impressionisme, 1939, II, p. 309.

11 andré malraux, The Psychology of Art, in «Horizon», 1948, 103,p. 55.

12 g. marzynsky, Die impressionistische Methode cit., p. 90.13 Ibid., p. 91.14 john rewald, The History of Impressionism, 1946, pp. 6-7 [trad.

it., Storia dell’impressionismo, Firenze 1949].15 albert cassagne, La Théorie de l’art pour l’art en France, 1906,

p. 351.16 e. e j. de goncourt, Journal, 1° maggio 1869, ed. cit., III, p. 221.17 h. focillon, La Peinture aux XIXe et XXe siècles, 1928, p. 200.18 paul bourget, Essais de psychologie contemporaine, 1885, p. 25.

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19 charles seignobos, L’Évolution de la troisième République, in e.lavisse, Histoire de la France contemporaine, VIII, 1921, pp. 54-55.

20 henry bérenger, L’Aristocratie intellectuelle, 1895, p. 3.21 a. thibaudet, Histoire de la littérature française de 1789 à nos jours,

1936, p. 430.22 e. r. curtius, Maurice Barrès, 1921, p. 98.23 jules huret, Enquête sur l’évolution littéraire, 1891, pp. xvi, xvii.24 e. e j. de goncourt, Idées et sensations, 1866.25 nietzsche, Menschliches Allzumenschliches, 155.26 baudelaire, Richard Wagner et Tannhäuser à Paris, 1861.27 id., La Peintre de la vie moderne, 1863, in L’Art romantique, ed.

Ernest Raynaud, 1931, p. 79.28 villiers de l’isle-adam, Contes cruels, 1883, pp. 13 sgg.29 emile tardieu, L’Ennui, 1903, pp. 81 sgg.30 e. von sydow, Die Kultur der Dekadenz, 1921, p. 34.31 peter quennel, Baudelaire and the Symbolists, 1929, p. 82.32 max nordau, Entartung, 1896, 3a ed., II, p. 102.33 baudelaire, Journaux intimes, ed. Ad. van Bever, 1920, p. 8

[trad. it., Giornali intimi, Torino 1942].34 t. mann, Kollege Hitler. Das Tagebuch, a cura di Leopold Schwarz-

schild, 1939.35 Cfr. rené dumesnil, L’Époque realiste et naturaliste, 1945, pp. 31

sgg. - ernest raynaud, Baudelaire et la religion du dandysme, 1918, pp.13-14.

36 baudelaire, Œuvres posthumes, ed. J. Crépet, I, p 223 sgg.37 anton Ωechov, Dom s mezoninom [trad. it., La villa del mezza-

nino, in Racconti, Torino, 1950, I, p. 419].38 «Le Figaro», 18 settembre 1886.39 a. thibaudet, Histoire de la littérature française ecc. cit., p. 485.40 Ibid., p. 48941 j. huret, Enquête sur l’évolution littéraire cit., p. 60.42 Cfr. ernest raynaud , La Mêlée symboliste, 1920, II, p. 163.43 john charpentier, Le Symbolisme, 1927, 62.44 charles mauron, introduzione alle poesie di Mallarmé tradotte

da Roger Fry, 1936, p. 14. 45 georges duhamel, Les Poètes et la poésie, 1914, pp. 145-46.46 Cfr. roger fry, An Early Introduction to Mallarmés Poems, 1936,

pp. 296, 302, 304-6. 47 henri bremond, La Poésie pure, 1926, pp. 16-20.48 e. e j. de goncourt, Journal, 23 febbraio 1893, IX, p. 87. 49 j. huret, Enquête sur l’évolution littéraire cit., p. 297.50 Cfr. c. m. bowra, The Heritage of Symbolism, 1943, p. 10. 51 g. m. turnell, Mallarmé, in «Scrutiny», v, 1937, p. 432.52 j. huret, Enquête sur l’évolution littéraire cit., p. 23.

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53 h. m. lynd, England in the Eighteen-Eighties, 1945, p. 17.54 Ibid., p. 8.53 bernhard fehr, Die englische Literatur des 19. und 20. Jahrhun-

derts, 1931, p. 322.56 baudelaire, Le Peintre ecc. cit., pp. 73-74.57 j.-p. sartre, Baudelaire, 1947, pp. 166-67.58 baudelaire, Le Peintre ecc. cit., p. 50. 59 m. l. cazamian, Le Roman et les idées en Angleterre (1880-1900),

1935, p. 167. 60 f. r. leavis, The Great Tradition, 1948, passim.61 h. hatzfeld, Der französische Symbolismus, 1923, p. 140.62 Cfr. d. s. mirsky, Modern Russian Literature, 1925, pp. 84-85.63 janko lavrin, An Introduction to the Russian Novel, 1942, p. 134.64 t. mann, Versuch über das Theater, in Rede und Antwort, 1916,

p. 55.65 paul ernst, Ein Credo, 1912, I, p. 227.66 id., Der Weg zur Form, 1928, 3a ed., pp. 42 sgg.67 ibsen, Sämtliche Werke, X, 1904, p. 40, lettera del 12 settem-

bre 1865.68 halvdan koht, The Life of Ibsen, 1931, p. 63.69 m. c. bradbrook, Ibsen, 1946, pp. 34-35.70 ibsen, Sämtliche Werke, X 169.71 holbrook jackson, The Eighteen Nineties, 1939 (1913), p. 177.72 Lettera a Mehring del 14 luglio 1893, in marx-engels, Corre-

spondance, 1934, pp. 511-12.73 ernest jones, Rationalism in Everyday Life. Read at the First

International Psycho-Analytic Congress, 1908, in Papers on Psycho-Analy-sis, 1913.

74 karl mannheim, Ideology and Utopia, 1936, pp. 61-62.75 t. mann, Die Stellung Freuds in der modernen Geistesgeschichte, in

Die Forderung des Tages, pp. 201 sgg.76 s. freud, Die Zukunft einer Illusion, in Gesammelte Werke, XIV,

1948, p. 377.77 nietzsche, Werke, 1895 sgg. XVI, p. 19.

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