Contributi critici sul testo di Eschilo · revisione critica e riedizione delle tragedie di...

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Matteo Taufer (ed.) Contributi critici sul testo di Eschilo Ecdotica ed esegesi

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Contributi critici sul testo di Eschilo

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DRAMA Neue Serie · Band 8Studien zum antiken Drama und zu seiner Rezeption

Herausgegeben von Bernhard Zimmermann

in Zusammenarbeit mit Juan Antonio López Férez (Madrid),Giuseppe Mastromarco (Bari), Bernd Seidensticker (Berlin),N.W. Slater (Atlanta), Alan H. Sommerstein (Nottingham),Pascal Thiercy (Brest).

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Druck und Bindung: Laupp & Göbel, NehrenPrinted in Germany

ISSN 1862-7005ISBN 978-3-8233-6686-7

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INTRODUZIONE Il presente volume raccoglie, rielaborati e ampliati, pressoché tutti i contributi esposti durante il convegno internazionale di studio Eschilo, il creatore della tra-gedia, organizzato nei giorni 26-28 maggio 2011 presso il Liceo ‘G. Prati’ di Trento dalla Delegazione trentina dell’Associazione Italiana di Cultura Classica con il sostegno finanziario della Regione Autonoma Trentino-Alto Adige/Süd-tirol (Ufficio per l’Integrazione Europea), della Provincia Autonoma di Trento (Assessorato alla Cultura e Presidenza del Consiglio), del Comune di Trento (Assessorato alla Cultura) e della Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto. Tale incontro ha visto nuovamente coinvolti, per una messa a punto e un confronto delle indagini in corso d’opera, l’équipe internazionale di studiosi impegnata nel progetto, che gode del patrocinio dall’Accademia dei Lincei1, di revisione critica e riedizione delle tragedie di Eschilo, compresi i frammenti dei drammi perduti e le testimonianze scoliastiche2. Questo gruppo di ricerca, le cui basi sono state poste, più di dieci anni fa, da Vittorio Citti presso l’Università di Trento, è andato definendosi e progressivamente ampliandosi, in vista dell’im-presa ecdotica lincea, nell’ultimo quinquennio, offrendo al dibattito scientifico una consistente e variegata serie di studî, tra monografie e numerosi saggi su questioni puntuali. Pur movendo da prospettive diverse nell’approccio alla tra-dizione manoscritta e a stampa del poeta, l’équipe si dimostra solidale nell’inten-to di delineare un metodo globalmente storico nella rilettura del testo eschileo. In particolare, si rivela elemento di forza, ben condiviso nelle premesse metodologi-che, la necessità di restituire alla ����� del tragediografo le molteplici anomalie o asimmetrie – in specie di lessico e sintassi – in cui consente la paradosi: Eschilo è poeta scabro, che trae il suo vigore espressivo dall’uso di termini e costrutti inconsueti o stranianti, come gli riconosceva già Aristofane nelle Rane. Una rin-novata edizione dei drammi superstiti dovrà tenere nel debito conto quei tratti distintivi, su cui fece peraltro leva la sensibilità critica antica, troppo spesso o-scurati da una certa tendenza normativa in voga, da almeno due secoli, prin-cipalmente nella scuola anglosassone. Lo spirito di geometria forse troppo riveri-to da illustri – e per varî aspetti benemeriti – editori moderni andrebbe ridiscusso alla luce dei frequenti casi in cui la tradizione manoscritta, più o meno vistosa-mente ‘ritoccata’ da congetture, potrebbe esser difesa con solidi argomenti.

Aprono la serie dei contributi qui ospitati le riflessioni di Bernhard Zimmer-mann dal titolo Approccio testuale e dimensione filologica oggi. Conservato vo-lutamente nella forma in cui è stato pronunciato, l’Eröffnungsvortrag di Zimmer- 1 Il progetto è stato approvato in data 30 marzo 2007 dal Comitato dell’Accademia dei Lincei per la Preparazione dell’Edizione Nazionale dei Classici Greci e Latini, sotto la presidenza del Prof. Bruno Gentili. 2 Per un quadro orientativo sull’iniziativa si veda V. Citti, Introduzione ai lavori del Convegno internazionale di studio Per Eschilo (Rovereto, Accademia degli Agiati, 22-24 maggio 2007), QUCC 90 (2008) 11-6.

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mann, invitato al convegno trentino non solo in veste di esperto di teatro greco, ma anche come presidente federale del Deutscher Altphilologenverband, illustra in una prima parte gli scopi istituzionali del DAV e il livello d’interesse/vitalità delle lingue classiche in Germania, per poi proporre alcune urgenti considerazio-ni, calibrate sull’iniziativa eschilea per i Lincei, sul «dovere culturale» spettante a ogni generazione di filologi classici di cimentarsi in edizioni – o più spesso riedizioni – critiche, le quali, oltre a fornire nuovi e desiderati apporti per una mi-glior conoscenza della storia di un testo, «sono pure e soprattutto testimoni della Geistesgeschichte dell’epoca in cui sono sorte».

Seguono diciassette lavori di specifica pertinenza eschilea: quattordici son de-dicati alle sette tragedie, disposte secondo la sequenza adottata nelle più recenti edizioni, due ai frammenti e uno agli scolî. I Persiani sono rappresentati da quat-tro densi contributi: la parodo è studiata da Riccardo Di Donato, che focalizza l’attenzione sui nessi tra forme espressive (lessico, morfologia/sintassi, metrica) e strutture interpretative, scostandosi, nel privilegiare la «visione esistenziale», da una certa linea d’esegesi che enfatizza piuttosto il dato politico-ideologico o il conflitto etnico; disamine su problemi puntuali sono invece proposte nei tre saggi rispettivamente di Stefano Amendola, che dà fondato credito alla congettura di Elmsley ������ al v. 481 (benché il tràdito � ����� non manchi di ragioni a suo favore), di Giovanna Pace, che reputa sano il testo dei codici al v. 549 = 559, mostrandone con dovizia di prove la conformità all’uso eschileo per metrica, lingua e sintassi, e di Paola Volpe Cacciatore, cui si deve un’indagine approfon-dita – che verte a più riprese sul dibattuto problema dello iota eliso in tragedia – dei vv. 834 e 850. I Sette sono oggetto dell’attento studio di Pierre Judet de La Combe, che riapre la discussione sulla presunta inautenticità del finale eviden-ziando, a favore della paternità eschilea dei vv. 1005-78, la coerenza tematica di questi ultimi con il resto della tragedia e segnatamente col prologo. Seguono tre contributi sulle Supplici: Vittorio Citti affronta gli spinosi problemi dei vv. 355, 359-64 e 402-3, additando, là dove possibile, vie d’uscita ispirate da criteri pru-denziali; Liana Lomiento indaga la funzione del cosiddetto efimnio ritmico-me-trico nel secondo stasimo (vv. 630-709), vedendovi, grazie ad un’analisi compa-rativa con Aesch. Ag. 355-487 ed Eur. HF 348-450, «l’ossatura di un canto stori-camente esistito»; Carles Miralles, infine, s’interroga sui varî problemi posti dal controverso finale della tragedia, inclinando a riconoscere la voce dei soldati argivi nei vv. 1034-51. L’Orestea è rappresentata da quattro diversi studî: Anto-nella Candio, sulla base di un confronto omerico, interpreta la discussa formula ����� ����� in Ag. 276 nel senso di ‘messaggio non ancora rivelato’; Enrico Medda affronta problemi testuali e metrici in Ag. 1117/1128 e 1143/1153, versi notevolmente alterati da interventi ope ingenii di noti editori del XIX secolo, giungendo alla conclusione che non sussistono, in realtà, argomenti stringenti per rifiutare i dati della paradosi; Carles Garriga (‘collocato’ entro l’Orestea per il suo attuale impegno ecdotico sulle Eumenidi, ancorché il presente lavoro investa l’intero corpus eschileo) passa in rassegna le occorrenze di ��������� / �������� in Pers. 787, Ag. 956, Suppl. 442 ed Eum. 490, ricordandone il valore

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base di ‘overthrow’ (Dover); Ivan Sodini pone a confronto le diverse valenze di ����� nell’Orestea, mettendo in luce come la parola compaia per quindici volte tra Agamennone e Coefore, ma non emerga più nelle Eumenidi, «regno di Dike». Al Prometeo, infine, si dedicano sia Maria Pia Pattoni, che con ricca documenta-zione a supporto si pronuncia, contro i moderni, a favore di ����� (tradizione diretta) del v. 2 e al v. 803 interpreta lo hapax ������� ‘che altamente stridono’ (ipotizzando alpha intensivum), sia il sottoscritto, che invita a riflettere sull’op-portunità di un’integrale collazione dei testimoni al fine di rettificare inesattezze o colmare lacune degli attuali apparati, ma anche per meglio illustrare la Textge-schichte del Prometeo. Ai frammenti si volgono le ricerche puntuali di Piero To-taro, che dà un penetrante commento dei frr. 258-60 R. (Fineo), 36-8 (Glauco di Potnie) e 25a-b (‘incerti Glauci’), e di Paolo Cipolla, che sottopone a serrata a-nalisi il fr. 78a R. dai ���� !�"#������, identificando gli �"$#��� del v. 50 con ceppi anziché, come voleva Snell, con giavellotti. Conclude il volume il denso saggio di Renzo Tosi, che muove dall’incontestabile presupposto che i re-cenziori non trasmettono necessariamente scolî recenti, donde l’opportunità di collazioni sistematiche ai fini di un’edizione integrale – tuttora attesa – della sco-liografia eschilea; di sicura utilità euristica, nell’indagine di Tosi, è peraltro la nozione di ‘glossa tradizionale’ (Thomson), più consona ad una recensione aper-ta rispetto all’univoca formula di ‘scolî lessicografici’.

Nell’auspicio che i materiali di studio qui offerti alla comunità scientifica pos-sano stimolare (ri-avviare, problematizzare) il dibattito non solo su questioni di filologia eschilea, ma pure su aspetti metodologici d’interesse più ampio (si pen-si al normativismo – morfologico, lessicale, metrico – i cui eccessi hanno modi-ficato sensibilmente il testo di varî poeti antichi), si coglie l’occasione per espri-mere un ringraziamento particolare, a nome di tutti gli autori dei saggi qui rac-colti, alla Provincia Autonoma di Trento, grazie al cui supporto finanziario si è resa possibile la pubblicazione di questo volume, nonché a Bernhard Zimmer-mann, che segue i lavori dell’équipe eschilea fin dai primi anni della sua genesi trentina e ha voluto accogliere i nostri contributi nella prestigiosa serie «Drama» del Narr Verlag, e infine, per il loro instancabile supporto scientifico e organizza-tivo, a Lia de Finis, fondatrice dell’AICC trentina e indefessa studiosa d’impron-ta ‘mitteleuropea’, e a Vittorio Citti, spiritus rector del gruppo eschileo di cui ab-biamo l’onore di esser parte. Freiburg im Breisgau, 17 ottobre 2011 Matteo Taufer

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APPROCCIO TESTUALE E DIMENSIONE FILOLOGICA OGGI È per me una gran gioia e un ancor più grande onore poter aprire, oggi, i lavori di questo Convegno con una relazione inaugurale. Gioia grande, poiché m’è ridata l’occasione di trascorrere, come negli anni scorsi, stimolanti giornate insieme al-l’attivo gruppo di studiosi e cultori di Eschilo.

Mi siano concessi, anzi tutto, alcuni cenni personali. Allo spiritus rector del gruppo di ricerca, l’amico Vittorio Citti, sono legato da quasi un quarto di seco-lo. Il nostro primo incontro personale avvenne nel 1987, a Siracusa, in occasione di un convegno sulla commedia greca che m’aprì, per così dire, le porte della fi-lologia classica italiana. Ci rivedemmo a cadenza regolare, sia nelle sedi accade-miche in cui fu attivo Vittorio – Venezia, Cagliari e in particolare Trento –, sia nella sua città natale, Bologna, e in convegni tenutisi altrove. A Venezia, ricordo, parlammo – rinchiusi in albergo per l’acqua alta – dell’opportunità di fondare u-na nuova rivista, che, col nome di «Lexis», avrebbe veduto la luce nel 1988 in un volume, ancor esile, di appena centoventi pagine. Ma il ‘pàrgolo’, nel frattempo, crebbe: da allora al 2010 ventotto sono i numeri apparsi, e di livello tale che la rivista appartiene oggi – possiamo dirlo a voce alta – agli strumenti scientifici, nel nostro settore, più quotati sul piano internazionale. Non ultimo dei fattori di successo, per «Lexis», è certo l’instancabile impegno di Vittorio per il ‘figlio prediletto’.

Un secondo punto che vorrei toccare è l’impresa scientifica internazionale, cui Vittorio ha sempre tenuto particolarmente e di cui l’attuale come i precedenti convegni sono viva espressione. Allorché io – che al tempo dominavo poco o nulla la lingua italiana – presi parte per la prima volta, nel 1985, a un convegno italiano, ad Urbino, sulla musica nell’antichità greca, i contatti scientifici tra filo-logia tedesca e italiana erano limitati a pochi casi individuali. Che oggi siano divenuti la regola, lo dobbiamo anche a precursori come Vittorio, i quali hanno attivato con energica convinzione i primi programmi Erasmus di scambio per studenti e docenti. Se pure, infatti, miriamo tutti a un medesimo obiettivo, cioè allo studio dei testi dell’antichità greco-romana, esistono nondimeno in Europa – e per fortuna! – diverse culture scientifiche, diverse modalità d’approccio ai testi, diversi curricoli didattici e, com’è naturale, predilezioni diverse. Perciò, alle nuove leve della scienza non potremmo proporre nulla di più proficuo che stac-carsi, per un periodo più o meno lungo, dal proprio alveo scientifico d’origine, trascorrendo altrove quelli che Goethe chiamava Lehr- e Wanderjahre.

Tale aspetto, che riteniamo inerente alla politica della formazione, mi porta al secondo prolegomenon, e all’onore che m’è riconosciuto per questa relazione in-troduttiva. È un grande onore, per me, potermi rivolgere ai presenti in qualità di presidente federale del Deutscher Altphilologenverband, il fratello, diciamo, del-la vostra AICC. Il DAV sostiene gli interessi, per così dire, delle lingue classiche presso scuole e università, e conta al momento, all’incirca, settemila membri. In conformità con la ripartizione federale del territorio tedesco, esso consta di quin-

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dici realtà federate, una per ciascun Land (Berlino e Brandeburgo figurano ac-corpati). Le associazioni dei rispettivi Länder organizzano corsi d’aggiornamen-to per i docenti ginnasiali, stages informativi per le scuole ecc., e possono altresì svolgere, all’occorrenza, funzioni politiche all’interno dei Länder. Invece, cóm-pito prioritario del DAV a livello federale è programmare e organizzare, ogni due anni, un grande congresso che mira a fornire contributi didattici e scientifici. L’ultimo ha avuto luogo nel 2010 nella stessa Friburgo e il prossimo, cui deside-ro, già da ora, estendere l’invito ai presenti, si terrà ad Erfurt dal 10 al 14 aprile 2012. Di norma, affluiscono ai congressi dagli ottocento ai mille interessati. Du-rante il mio mandato di presidente, tenterò di dar visibilità al DAV anche a livel-lo internazionale e oltre i confini dell’area germanofona: oggi m’è già data una prima opportunità di attuare tale intento. Del resto, è solo a vantaggio e nell’in-teresse di noi classicisti – non importa se attivi nel mondo scolastico o a livello universitario – essere bene informati sul livello di conoscenza e d’insegnamento delle lingue antiche anche in altri Paesi.

Da dieci anni a questa parte, la Germania sta conoscendo una straordinaria fioritura d’interesse per le lingue classiche, e in modo spiccato per il latino; par-lare, tuttavia, di un nuovo Rinascimento è a mio avviso prematuro. È sì vero che più del 30% degli alunni ginnasiali sceglie il latino in una certa fase della forma-zione scolastica; ma per il greco, si noti, i numeri sono nettamente inferiori: solo l’1% degli iscritti al Gymnasium studia greco. Questo rinnovato interesse coglie sorpresi pure noi classicisti, tanto più che fino agli anni Ottanta e Novanta si po-teva avere la costante impressione che la vitalità delle lingue antiche, a livello di Gymnasien nonché – sia pure con fisiologico ritardo – universitario, sarebbe an-data intuibilmente diminuendo. Tale ‘rinascita’ imprevista, che data a un dipres-so dal 2000, ha però dovuto constatare un’elevata carenza di personale docente, soprattutto di latino ma in parte anche di greco. Nondimeno, benché col consueto ritardo di tre-cinque anni, si doveva registrare come positiva conseguenza che l’insegnamento accademico delle lingue classiche, quanto al numero di studenti iscritti ai corsi, dovesse sbocciare di una nuova fioritura.

Sui motivi dell’inatteso successo delle lingue antiche nei Gymnasien pos-siamo solo tentare qualche ipotesi. Vi sono in primo luogo – suppongo – ragioni didattiche: dagli anni Novanta, infatti, viene applicato con notevole successo un modello pedagogico in base a cui, nel primo ciclo di formazione ginnasiale, sco-lari tra i dieci e i dodici anni studiano una lingua straniera moderna (per lo più inglese, talora anche francese) e al contempo il latino. La combinazione di com-petenze linguistiche attive e – in misura variabile – passive ha riscosso significa-tivi successi: il latino ha conseguito l’indiscusso rango di materia di prim’ordine, che fornisce competenze linguistico-grammaticali d’impatto positivo non solo sullo studio delle lingue straniere ma anche, e soprattutto, nell’approfondimento della propria lingua madre. Ciò non viene però riconosciuto al greco, che occupa il terzo o quarto posto, in svantaggiata concorrenza con più attrattive lingue mo-derne, nelle scelte linguistiche degli alunni ginnasiali. Ne consegue che i corsi di greco al Gymnasium, ora, sono più orientati a trasmettere competenze culturali

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lato sensu anziché propriamente linguistiche. Pertanto, benché il greco rimanga ancora – per il momento – entro il canone delle materie ginnasiali, non vi è, pur-troppo, così fortemente radicato quanto lo è il latino. Fatali, a mio avviso, gli ef-fetti sullo studio universitario del greco: in Germania sono sempre più modeste, rispetto a solo quindici anni fa, le competenze linguistiche – e qui non mi riferi-sco all’abilità nel tradurre semplici testi in prosa, bensì ai rudimenti morfosintat-tici del greco – che riscontriamo negli studenti iscritti al primo semestre accade-mico. I docenti universitari, negli ultimi anni, debbono così supplire a ciò che un tempo spettava agli insegnanti ginnasiali. Prevedibili se non già in atto le conse-guenze: la cosiddetta strumentazione filologica – storia della lingua, metrica, pa-leografia e critica testuale, per limitarsi alle discipline maggiori – sono possedute ormai in misura modesta quando non del tutto insufficiente. Si tende a ripiegare nel dominio del generico, specie occupandosi di ricezione dei classici entro le letterature moderne.

I presupposti teorici, o meglio ideologici, furono creati – tale è la mia im-pressione retrospettiva – già negli anni Settanta del secolo scorso: per garantire un aggancio della filologia classica alle scienze letterarie moderne e collocarla a un pari livello di dialogo, s’è tentato a tutti i costi – e in maniera estremamente controversa e polemica – di rimuovere il forte, incontestabile deficit teorico della filologia classica. (Ciò, ben inteso, valga per il versante tedesco; un discorso a parte, in altra prospettiva, andrebbe riservato al mondo italiano). Deficit che oggi è certo superato; anzi, si può persino dire che negli ultimi anni la filologia greca rivesta, a livello di formazione teorica, un ruolo guida tra le scienze letterarie moderne e sia divenuta interlocutrice gradita agli esponenti della nuova filologia.

Tuttavia, conseguenze di tale linea evolutiva sono, da un lato, che la filologia classica minaccia di smarrire (se non l’ha già, sovente, smarrita) la sua àncora, cioè il suo statuto di Altertumswissenschaft, e dall’altro, che la vocazione princi-pe della filologia – editare e commentare testi – sta cadendo sempre più in oblìo. Se esaminassimo quante nuove edizioni critiche di autori antichi abbiano prodot-to negli ultimi anni le università tedesche, i risultati ci lascerebbero attoniti.

La necessità e il dovere scientifico di rendere accessibili, in nuove edizioni, testi finora inediti sono difficilmente contestati; più dubbiosa e discussa, invece, la questione se sia necessario un nuovo impegno ecdotico su testi già da tempo e, non di rado, più volte criticamente editi, com’è il caso dei tragici del V secolo. Ricordo, in merito, il pensiero d’uno dei miei maestri – peraltro filologo tra i più in vista della seconda metà del Novecento –, che soleva definire discipline come la critica del testo, l’arte congetturale e la metrica nient’altro che «lavori di trafo-ro»: eleganti passatempi, ma inopportuni per le persone adulte tra cui egli si an-noverava. Posizione estrema, pur nella sua ironia, eppure spesso – e par divenirlo sempre di più – condivisa.

Che potremmo obiettare a chi, con scetticismo, ponga in dubbio il valore di nuove edizioni di autori classici? Anzi tutto un argomento pratico. Oggi, ben più di ieri, grazie all’ausilio delle nuove tecnologie, possiamo dominare in modo e-

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saustivo la tradizione (manoscritta e a stampa) di un autore come Eschilo e sop-pesarne i testimoni nella maniera più accurata possibile. Ciò consente numerose rettifiche di luoghi comuni vulgati dagli apparati critici; da Matteo Taufer, duran-te i nostri colloqui friburghesi, ho imparato molto sotto questo profilo. Corregge-re, tuttavia, gli apparati di Page e West può esser ritenuto, in fondo, un vanitoso gioco di perle di vetro (nel senso voluto dal romanzo di Hermann Hesse); è la ri-valutazione di uno o più manoscritti, invece, che può gettar nuova luce sulla sto-ria della tradizione di un autore. I codici, in certo qual modo, hanno una loro bio-grafia. Nascono in determinati luoghi, in un determinato tempo, entro un deter-minato ambiente culturale: ri-valorizzare un codice consente di posare una nuova pietra nella Geistesgeschichte di un’epoca e di una città.

Lo stesso vale, in pari misura, quando ripercorriamo le edizioni prodotte tra XV e XIX secolo. I filologi d’allora non erano certo eruditi da tavolino, che s’i-solavano dalla vita culturale del loro tempo rimanendo assorti, a porte chiuse, in esoteriche speculazioni. Mi si permetta un fulgido esempio tratto dalla letteratura e, in più ampia prospettiva, della cultura tedesca: Johann Wolfgang von Goethe. Nessuno, più di lui, prese così attivamente parte ai dibattiti filologici tra fine XVIII e inizio XIX secolo. I diari, le lettere, i colloqui con Eckermann documen-tano un vivo interesse per l’opera di Johann Gottfried Hermann. I trattati her-manniani sui frammenti eschilei, De Aeschyli Niobe dissertatio (Lipsiae 1823) e De Aeschyli Philocteta dissertatio (ibid. 1826) affascinarono così intensamente Goethe, che, ad un certo punto, dovette persino staccarsene. In particolare, non lo abbandonava mai il pensiero che il frammentario Filottete eschileo potesse esser ricostruito (lettera a Zelter del 20 marzo 1826: «Anche in questo caso [sc. riflet-tendo sulla ricostruzione del Filottete] non riesco a procedere perché vengo sùbi-to sedotto; non posso infatti astenermi dal pensare sopra ogni cosa e in ogni det-taglio a una questione per me così importante, giacché vi vedo accadere i fatti più strani. Pure un remoto autore latino scrisse un Filottete, e dopo Eschilo: ce ne rimangono ancora frammenti, grazie a cui l’antico poeta greco potrebbe, in certa misura, essere apprezzabilmente restaurato. Vedi, però, che ci sarebbe un mare da bersi interamente: non facile, per la nostra vecchia gola, inghiottirlo tutto»1. E sebbene nel marzo 1826 avesse deciso d’interrompere la frequentazione dell’E-schilo di Hermann, egli vi tornava sopra quattro mesi dopo (diario del 27 luglio 1826: «Ho messo mano di nuovo alla dissertazione di Hermann sui tre Filotte-ti»2). Il bilancio del suo porsi a confronto con la tragedia attica è di rassegnata ammirazione: «Credo d’aver creato anch’io qualcosa, ma dinanzi a uno dei gran-

1 «Auch hier (sc. im Nachdenken über die Rekonstruktion) darf ich nicht weiter gehen, weil ich gleich verführt werde; denn ich konnte mich doch nicht enthalten diese für mich so wichtige Angelegenheit vor allen Dingen durch und durch zu denken; denn hier kommen die wunderlichs-ten Dinge vor. Sogar hat ein uralter Lateiner einen Philoktet geschrieben, und zwar nach dem Äschylus, wovon denn auch noch Fragmente übrig sind und woraus sich der alte Grieche begreif-bar einigermaßen restaurieren ließe. Du siehst aber, daß das ein Meer auszutrinken sey, für unse-re alte Kehle nicht wohl hinab zu schlucken» (cit. in Grumach 1949 I 252). 2 «Die Hermannische Dissertation über die drey Philoctete wieder vorgenommen» (cit. ibid. 253).

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di poeti attici come Eschilo e Sofocle mi sento davvero una nullità» (Dialoghi, 7 settembre 1827)3.

Grande influsso su Schiller e Goethe esercitò il trattato hermanniano De me-tris poetarum Graecorum et Latinorum, del 1796 (si veda la lettera a Goethe del 27 settembre 1800, in cui Schiller richiedeva l’opera di Hermann nonché infor-mazioni sulla miglior grammatica greca per principanti che allora fosse disponi-bile4). La struttura metrica della schilleriana Sposa di Messina (1803), che ambi-sce a un diretto confronto coi tre tragici attici, dipende essenzialmente dal trattato di Hermann, così come ne risentono la suddivisione del coro in due semicori e la sua risoluzione in voci singole5. In un breve �##%� dell’Ifigenia in Tauride eu-ripidea, ai vv. 643-56, Hermann effettua una bipartizione in semicori; Schiller, da parte sua, presuppone che Euripide, nella medesima tragedia, abbia fatto uscir di scena il coro dopo il canto di lamento degli stessi vv. 643-56.6

Pochi esempi, ampliabili a piacere: bastino a dimostrare in che misura i poeti del cosiddetto classicismo di Weimar prendessero parte al dibattito filologico con-temporaneo e vivamente s’interessassero, in prima persona, a questioni che oggi diremmo tecniche. L’attività ecdotica – possiamo ben affermarlo sulla base dei documenti citati – è operazione di alta cultura che deve sì mirare a preservarci le opere letterarie, non però a isolarle in un museo come ���#��� �� �&��. Le edi-zioni sono sempre – ciò va costantemente tenuto in conto – il prodotto di una determinata epoca, e sorgono sempre da un preciso retroterra storico di cui reca-no il segno, siano essi saggi teorici o precise concezioni di un’epoca, di un poeta o in generale della funzione della letteratura nella società. Ciò che s’intende per ‘eschileo’ o ‘sofocleo’ soggiace alla costante possibilità di esser altrimenti defi-nito, diversamente valutato e veduto. Ciò non significa, ben inteso, che le conce-zioni di una precedente generazione siano false; piuttosto, sono i testi di valore a disporre di un potenziale di tale livello – diremmo con Gadamer e Jauß – che in ogni epoca possono dispiegare nuovi sensi agli occhi dei lettori. Ciò che una ge-nerazione considera dominante potrà risultare secondario per la successiva.

Le edizioni dei classici della letteratura antica sono pure e soprattutto testimoni della Geistesgeschichte dell’epoca in cui sono sorte. Esse non solo mirano a of-frire testi più affidabili e illuminano di nuova luce le vie della tradizione mano-scritta e a stampa; esse riflettono altresì i princìpi metodici ed ermeneutici di chi volle rieditare un certo testo, risultando, così, preziosi testimoni dell’immagine dell’antichità formatasi in una certa epoca. Se noi dunque rinunciassimo al no-

3 «Ich glaube auch etwa geleistet zu haben, aber gegen einen der großen attischen Dichter wie Aeschylos und Sophokles bin ich doch gar nichts» (cit. ibid. 253). 4 Cf. Schiller 1982 II 229. 5 Cf. Platnauer 1938, 115. 6 Così nella recensione dell’Iphigenie di Goethe: cf. Schiller 1968 V 654; si veda anche Schwin-ge 2006, 212-8.

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stro impegno ecdotico, impediremmo alle future generazioni di cogliere il nostro modo di rappresentarci l’antichità, a prescindere dal fatto ch’esso sia o meno condivisibile. L’attività ecdotica – e con ciò intendo concludere – è un dovere culturale della filologia classica. Freiburg im Breisgau Bernhard Zimmermann

(traduzione di Matteo Taufer) RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Grumach 1949 E. Grumach, Goethe und die Antike, I-II, Berlin 1949. Platnauer 1938 M. Platnauer, Euripides. Iphigenie, Oxford 1938. Schiller 1968 F. Schiller, Sämtliche Werke, I-V, München 1968. Schiller 1982 F. Schiller, Briefe, I-II, ausgewählt und erläutert von K.-H. Hahn, Berlin-Weimar 1982. Schwinge 2006 E.-R. Schwinge, Schiller und die griechische Tragödie, in H. Feger (Hg.), Friedrich Schiller. Die Idealität des Idealisten, Heidelberg 2006, 203-47.

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LA PARODO DEI PERSIANI: FORME ESPRESSIVE E STRUTTURE INTERPRETATIVE∗

Una corretta impostazione dei problemi posti dalla parodo dei Persiani, o alme-no quella che io sento di dover proporre come tale, non può che partire da una mera accettazione di una breve serie di dati di fatto ad un livello elementarmente teatrale. Il primo ed essenziale – a mio giudizio, nella sostanza bene espresso poco più di trent’anni fa da Oliver Taplin – è quello costituito da alcuni truismi che non debbono dar luogo a discussione1. Che in questa tragedia sia il coro a prologizein è un primo dato di fatto, qualunque sia il senso che attribuiamo al verbo, ‘agire da prologo’/‘agire il prologo’. Che questo accada secondo la forma tecnica di una parodo, di un canto corale d’ingresso (con enfasi sul sostantivo canto), è il secondo, essendo chiaro che è la realtà a determinare la definizione e non il contrario. Che in questo canto, una prima sezione anapestica non sia in alcun modo separabile (sul piano del contenuto) da quella lirica che la segue e che essa si giustifichi teatralmente con la mera esigenza di far entrare il coro, in quanto tale, fino a raggiungere l’orchestra dove agirà secondo la sua vocazione drammatica (nel senso anche spettacolare), attraverso cioè la danza e il canto, è il terzo. Ripeto una affermazione già pronunciata: io trovo, a riguardo, immortale la frase di Taplin: «the chorus enters because it is the chorus»2.

Mettere in questione questa sequenza di dati secondo le diverse visioni – anti-che e moderne – della formalizzazione del dramma (a partire cioè da una astratta nozione di prologo o anche di parodo) appare a me totalmente inutile, almeno da un punto di vista esegetico3. Può corrispondere a un interesse – oggi assai svi-luppato – di considerazione dell’autonomia delle forme letterarie rispetto alla lo-ro sostanza storica, e quindi umana e reale, ma non illumina per quanto attiene alla comprensione del testo che è il primo compito dell’interprete, il quale non può che considerare questo come factum, oggettivo anche se parzialmente modi-ficabile, in quanto prodotto di una attività umana, suscettibile di motivazioni molteplici. Discorrere quindi della arcaicità di questo modo di prologizein, ri-spetto a quello diverso, di un prologo recitato o dialogato, risulta in ogni modo vano, se si considera la parvità assoluta (e ancor più quella proporzionale rispetto alla totalità – non documentata – del fenomeno) della materia esaminabile per il ∗ Intendo qui riprendere, sviluppare e – in qualche misura – concludere i pensieri proposti in for-ma assai sommaria a Sestri Levante nel febbraio del 2010, soprattutto alla luce del progresso che nel frattempo si è verificato nel lavoro in corso. Si tratta ancora, nelle mie intenzioni, di un con-tributo interno alla sezione dell’opera di edizione, traduzione e commento, che è affidata ai colle-ghi dell’Università di Salerno coordinati da P. Volpe Cacciatore. Il mio contributo presuppone quindi gli studi pubblicati o presentati per la pubblicazione da G. Pace e ne dipende per quanto attiene allo stabilimento del testo. Agli amici salernitani il lavoro è affettuosamente dedicato. 1 Taplin 1977, 61 ss. 2 Ibid. 68. 3 Cf. le posizioni in Garvie 2009, 43 ss.

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periodo successivo al 472 e l’assenza di elementi certi e dirimenti per i circa ses-sant’anni di vita del dramma che precedono composizione e rappresentazione dei Persiani (venticinque dei quali vedono Eschilo attivo). Può forse essere utile per decidere dell’autorità di Temistio e della qualità della sua dipendenza da Aristo-tele ma non serve a noi a capire meglio i Persiani4.

Tragedia senza prologo attoriale, i Persiani si caratterizzano immediatamente per il ruolo drammatico affidato al coro, la cui presenza e la cui funzione costitu-iscono peraltro l’elemento di maggiore continuità nello svolgimento dell’azione dell’intera tragedia da questo inizio fino all’epodo che conclude, con gli ultimi gemiti e lamenti, il kommòs finale. La coincidenza con il dato fornito dalle Sup-plici non si estende a questo secondo livello di osservazione: in ciò i Persiani so-no un unicum.

Il precedente delle Fenicie di Frinico, che lo stesso autore della hypothesis ri-porta riferendolo come indicato da Glauco di Reggio, e quindi da un autore di età pre-aristotelica – appare valido per l’aspetto della conclamata imitazione della forma della espressione verbale, ma certo sottolinea per noi la diversità eschilea – che pare francamente assurdo voler connotare di arcaicità o di arcaismo quasi che Eschilo possa aver volontariamente deciso di tornare indietro rispetto al suo predecessore: l’autore ha semplicemente scelto una delle possibilità a sua dispo-sizione e l’indagine sulle sue intenzioni appare aporetica come ogni altra della stessa natura. La risonanza sonora tra i versi dei due tragediografi appare, tra l’altro, semanticamente ingannevole: nel passaggio dai trimetri pronunciati dal-l’eunuco di Frinico, agli anapesti dei vecchi Persiani, il deittico iniziale definisce entità diverse. Assai probabilmente nel primo caso ��'� si riferisce al luogo, alla sede dei Persiani («la dimora» traduce addirittura Belloni5) mentre nel secondo esso indica le persone immediatamente loquenti, gli anziani Fedeli rimasti là donde gli uomini in armi sono partiti, quelli cioè che sono in grado di agire il dramma e lo faranno nella diretta interlocuzione con i protagonisti.

Nell’introdurre la questione della struttura del dramma, l’ultimo commentato-re mette facilmente da parte la vecchia teoria del Wilamowitz, che leggeva i Per-siani come una tragedia in tre parti, sostanzialmente autonome e pesantemente giustapposte senza vera integrazione e richiama le più recenti e meno condizio-nate posizioni a riguardo6. Nella valutazione puntuale della parodo tuttavia, Gar-vie pare ancora subalterno della logica classificatoria che fu conclusivamente definita da Aristotele e arriva a domandarsi – in modo francamente paradossale – se la seconda sezione anapestica, quella che segue la seconda parte della sezione lirica, ne faccia o meno parte7. Quasi che la parodo (ma meglio: una parodo) esi-sta nel senso di costituire una entità meritevole di giustificazione in termini di totale autonomia.

4 Contra: Garvie 2009, 43. 5 Belloni 1994² 3. 6 Wilamowitz 1914, 42. 7 Garvie 2009, 93.

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Una modalità di approccio alla parodo, che si voglia allora rispettosa delle forme in cui questa ci è pervenuta, non può che limitarsi a considerare sempli-cemente la sequenza delle forme espressive, ciascuna secondo le proprie specifi-cità, rispetto alle esigenze teatrali cui singolarmente corrispondono, prima ancora di entrare nel merito degli elementi di contenuto che il testo nella sua forma me-trica contiene e veicola.

In assenza del dato essenziale della musica, la metrica guida l’interprete nel primo compito che è quello di stabilire nessi tra forme e contenuti o se si preferi-sce di dare un significato a tutti i significanti, verbali e non verbali, che l’azione tragica mette in atto. Gli anapesti iniziali sono significativi, a un primo elementa-re livello, di un movimento del coro che va inteso come di marcia, a parer mio, senza le valenze connotative che questo termine comporta nella nostra lingua ove il sostantivo marcia appare spesso qualificato dall’associazione con l’attributo militare. Per entrare dalle eisodoi nella orchestra i coreuti camminano, cioè non corrono né danzano. Tanto non basta inoltre a caratterizzare l’espressione verba-le come necessariamente recitata e non cantata. Indefinibile oggettivamente, il problema – se recitativo o canto – resta affidato alla sensibilità degli interpreti che – in modo comprensibile – si dividono a riguardo. Per mia sensibilità, trovo meno assurdo che il coro entri cantando, o meglio cantilenando, sul ritmo dei di-metri anapestici – per farsi ben sentire e capire – e poi, cominciando a danzare, articoli melodicamente il canto nella parte che diciamo lirica, per quanto lo con-sentono ovviamente le due diverse forme ritmiche utilizzate. Nel canto lirico, le diverse forme, a partire da quella ionica, che vale nel contesto a rafforzare quella che in prima approssimazione diremo caratterizzazione etnica, contribuiranno a fornire elementi di senso paralleli a quelli della comunicazione verbale: i lecizi varranno, per parte loro, a compiere la funzione che è propria delle sequenze tro-caiche, massimamente comunicative.

Nella sezione anapestica l’esigenza espressiva incipitaria appare, sul dato es-senziale, teatralmente ovvia e quasi banale. Che poi sia il solo corifeo oppure tutti i coreuti (come a me pare certo) a far sentire la propria voce, il fine della co-municazione appare comunque immediatamente informativo sotto la specie della denominazione. Il pubblico deve innanzi tutto apprendere che i vecchi compo-nenti del coro – che la maschera, significante scenografico essenziale, può già forse aiutare a identificare come tali – sono i Pistá, i Fedeli del gran Re, cui è af-fidata la custodia del palazzo di Susa in assenza del sovrano.

La funzione drammatica del coro, nel senso più ristretto ed iniziale del termi-ne, sarà in seguito asseverata dai quattordici anapesti che concludono la parodo con la definizione dello spazio scenico (lo ����� �(��� di v. 141) l’autocon-vocazione in consiglio da parte degli anziani, la duplice domanda riassuntiva dei dubbi angosciosi nella dimensione personale, connessa alla sorte del re, e in quella collettiva, sul prevalere della forma asiatica o di quella greca del conten-dere e – infine – con l’annuncio (teatrale) dell’arrivo della Regina. Il finale pas-saggio al principale ritmo trocaico indicherà quindi l’ulteriore svolta drammatica rappresentata dalla interlocuzione con la Regina.

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La coincidenza tra i due momenti espressivi uniti dal metro si limita al rappor-to tra gli anapesti e lo spostamento spaziale a ritmo di marcia o comunque senza altra particolare accentuazione. I dati di contenuto dei due distinti messaggi sono non solo distinti ma rispondenti a due funzioni drammatiche profondamente di-verse: i primi anapesti definiscono l’identità del coro e lanciano il suo messag-gio, i secondi (140-54) verbalizzano la lenta azione drammatica ed esprimono in forma di esplicita domanda le questioni che saranno al centro del successivo dia-logo con la Regina.

Prima di lasciare questa prima questione si potrebbe approfondire l’analisi dei tre movimenti del Coro: l’ingresso, la danza e lo spostamento verso la Regina. In termini di comprensione, il problema si può, a questo punto, ulteriormente limi-tare alla sezione centrale, quella danzata: i due spostamenti non hanno bisogno di altra spiegazione dopo quella funzionale. Il coro deve entrare nell’orchestra se vuole svolgere la sua funzione e, se vuole interloquire con la Regina, deve rag-giungerla nel proscenio.

Incorniciata in modo, asimmetrico ma funzionale, dagli anapesti, la sezione li-rica costituisce naturalmente il corpo del canto corale la cui irregolarità ha turba-to e continua a turbare gli interpreti. Lo sforzo di tutti consiste nel tentativo di stabilire precise corrispondenze tra le forme tutte della espressione e quelle del contenuto (metriche, linguistiche e reali). Domina in questo campo un bisogno, più o meno consapevole, di simmetria che estende, io credo, al di fuori dei cano-ni la dominante cogenza della responsione strofica. Come questione preliminare ad ogni intervento esegetico va considerata quella della posposizione della co-siddetta mesodo (o epodo posta in mezzo, come dice Triclinio) che costituisce il dono avvelenato di K.O. Müller alla comprensione dei Persiani8. Se ce la voglia-mo cavare con una affermazione metodologica possiamo limitarci a ripetere che resistere alla tentazione dell’intervento migliorativo – quando non indispensabile all’intelligenza del testo – pare essere virtù necessaria al filologo9. Il punto debo-le della posposizione – tale da escluderne la praticabilità – sta nella debolezza (per non dire: vanità) di ogni tentativo di spiegazione del fenomeno reale che po-trebbe averla determinata nel corso della tradizione manoscritta. Illuminante a ri-guardo è il salto dell’occhio del copista con due diversi successivi eventi negati-vi (annotazione a margine e poi inserimento fuori luogo) che il recentissimo Gar-vie appare costretto a immaginare a chiusa della sua discussione a riguardo10. Le 8 Müller 1837, 369 n. 11. 9 Il rispetto di una ragione metodologica generale pare a me soprattutto necessario in questo spe-cifico caso: discutere un testo che appaia generato da una interpretazione non aprirebbe alcuna prospettiva interessante alla riflessione critica: l’alternativa si ridurrebbe alla considerazione cri-tica della ipotesi, se cioè accettare o respingere l’interpretazione e con questa il testo. Trovo si-gnificativa e per certi versi conclusiva a riguardo la discussione che proprio su questa scelta te-stuale si svolse a Cagliari nel maggio del 1998 e che fu pubblicata in Lexis 17/1999. Ovvio ricor-dare come in quel caso base di partenza del discutere fu l’opposta scelta operata da Garvie, poi confermata nella sua edizione: la posizione con cui soprattutto concordo è quella espressa in quella circostanza da Pierre Judet de La Combe (pp. 36-8). 10 Garvie 2009, 49.

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argomentazioni relative al senso e al suo miglioramento non hanno alcun valore o almeno ne hanno uno inferiore a quelle, ad esempio di Di Benedetto11, che tro-vano una logica nel testo tradito, pur con minimi aggiustamenti. Di questo vale prioritariamente la pena di occuparsi.

Assunto empiricamente il testo tradito come iniziale oggetto di una analisi dei messaggi verbali possiamo proporci di finalizzare quest’ultima alla verifica della generale tendenza degli interpreti a considerare la parodo come determinante il carattere generale della tragedia dei Persiani – in questa direzione resta importan-te il contributo di Guido Paduano che data ad oltre trent’anni fa – ma soprattutto possiamo contribuire a precisare questo carattere12.

Non ripeto qui integralmente il tentativo già svolto di semplificazione del ra-gionamento in termini di strutture interpretative. Ricordo la possibilità di lemma-tizzare l’analisi secondo un criterio di interesse, soggettivo come qualunque al-tro. Si può, in quel caso, partire dai lemmi relativi a uomini, aggregazioni umane e luoghi che sono gli ovvi elementi determinativi di qualunque caratterizzazione umana, a partire da quella etnica. Abbiamo quattro insiemi che intersecano carat-terizzazione umana, plurale o singolare, e radicamento territoriale. I Persiani compaiono tre volte nello stesso caso e numero plurale (1, 15, 23) e una specifi-cazione spaziale (59 ��"� )���'� ����). Abbiamo solo altri due etnici plurali connotati (41 *�'������ +,'-�; 52 ��������� .,��) ben bilanciati da 9 indicazioni locative la cui funzione è quella ovvia di indicare la vastità dell’im-pero persiano e la distinta qualificazione dei luoghi che esso occupa (tralascio qui l’elenco a tutti noto). Sottolineo come minima appaia la caratterizzazione ini-ziale dell’insieme antagonistico indicato due volte come meta e come oggetto della invasione (2 /���'0 �� �1��; 50 2,�3� �#�������� '$��� /���'�). La massima estensione appare nell’insieme bipartito della umanità singolarmente intesa. Questa contrappone il sovrano, definito con abbondanza (5-6; 8; 24; 58), al catalogo dei capi militari che costituisce, con il suono stesso dei suoi 17 nomi, non tanto una ripresa quanto una esplicita trasformazione di una delle forme pe-culiari della poesia epica. Di un certo interesse appare anche l’insieme di undici attestazioni che potremmo indicare come relativo a gruppi, numeri e categorie.

Per questa parte si può concludere provvisoriamente per punti: a. forte indicazione sui Persiani in quanto tali b. molteplicità e varietà etnica c. varietà, ampiezza, ricchezza, sacralità di luoghi d. totalità della sola Asia e. distinzione qualitativa tra sovranità e regalità f. varietà onomastica orientaleggiante con epiteti caratterizzanti g. varietà militari e istituzionali.

11 Di Benedetto 1978, 9. 12 Paduano 1978, 31-49.

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L’ultimo lemma indicato è quello che contiene indicazioni in cui l’elemento u-mano si articola in una dimensione che possiamo dire culturale. I modi della ag-gregazione umana, civili-istituzionali e bellici-militari, sono uno dei possibili e-lementi descrittivi caratterizzanti da un punto di vista etno-antropologico.

Sempre restando nella stessa analisi, limitata ai messaggi verbali della sezione anapestica, potremmo riaggregare i nostri dati entro diversi lemmi ordinatori finalizzati ad approfondire quei tratti collettivi che abbiamo detto culturali. A-vremmo allora:

a. ricchezza b. armi c. fertilità, nutrimento d. esercizio del potere (sovrano e subalterno).

La parte lirica arricchisce questo quadro e lo modifica in qualche elemento, in particolare riguardo alla figura del sovrano la cui identità è essenziale nello svol-gimento del dramma nel passaggio dalla fortuna alla sventura. Per questa parte l’analisi formale vacilla per scarsezza di dati: il passaggio dagli anapesti ai metri ionici comporta una modificazione sensibile del linguaggio. Non c’è più accu-mulazione come nel lungo catalogo ma selezione.

Si può tentare con assai limitato successo una lettura che faccia coincidere ogni singola unità metrica con una unità tematica. Se invece procediamo ad una analisi analoga a quella realizzata per la sezione anapestica troviamo sostanziali conferme ma restano vuoti i due insiemi della pluralità etnica e della pluralità onomastica: il canto di angoscia si restringe ai due destinatari, il singolo, Serse, per la sventura, e, per la morte, il collettivo dei Persiani.

Si deve ora tentare il passaggio dalla morfologia alla sintassi interpretativa. In quale modo le diverse immagini espressive si succedono e soprattutto se-

condo quale ordine si organizzano nel testo? Che ruolo svolge il livello di orga-nizzazione formale che è rappresentato per noi dalla struttura metrica?

Si può certo affermare che l’intera sequenza anapestica serva essenzialmente per descrivere, secondo distinte modalità e con ricorso ad un’arte che va definita, nel senso più stretto, letteraria, varietà e vastità della potenza espressa dall’eser-cito persiano, comunità di popolo e di popoli, guidata da un sovrano e comanda-ta, per quanto attiene all’azione bellica, da capi prestigiosi. Ma certo i versi con-clusivi della stessa sezione anapestica ruotano intorno ad un sostantivo, �%"� e a due verbi, �������� e �#� ���� che non lasciano dubbi all’interprete: il rim-pianto per chi se n’è andato suscita acuta espressione di dolore e timore in una attesa paurosa: è bella la traduzione di Belloni del verso 64, che descrive i senti-menti di genitori e spose: «paventano un tempo che si allunga»13.

13 Belloni 19942 7.

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A una lettura ravvicinata, le immagini della sezione lirica si mostrano come maggiormente articolate. La segmentazione ritmica non pare tuttavia fornire un vero aiuto al processo di comprensione e neanche il livello semantico della re-sponsione strofica che si definisce con una certa difficoltà. Forse, e non parados-salmente, il solo contenuto che appare sottolineato a livello della strutturazione poetica è quello isolato dalla forma autonoma dell’epodo. Proprio il carattere sentenzioso del messaggio è messo in rilievo dai versi liberati dal vincolo re-sponsoriale. L’inganno del dio, la presenza minacciosa di Ate entrano nel dram-ma per quella via che spezza – se pure in forma interrogativa e quindi ambigua – il quadro generale definito dalla luce della forza e della potenza e dal buio del rimpianto e del dolore.

Una lettura per accumulazione di temi, o come meglio potrebbe dirsi, per se-quenza di immagini poetiche appare soltanto preliminare ad una valutazione del-l’insieme: in questa consiste l’interpretazione.

Seguo allora volentieri il senso che l’editrice ritiene dover ricavare dal testo che ha costituito e che così riassume, nell’interlocuzione a me indirizzata:

«Credo – scrive Giovanna Pace – che la successione del pensiero possa essere questa: dopo aver descritto lo spiegamento dell’esercito persiano per terra e per mare e avere affermato che nessun uomo sarebbe in grado di sconfiggerlo, il coro nell’epodo (che, con la sua insolita posizione, introduce il dubbio all’interno del-la celebrazione) esprime il timore che la divinità, attraverso l’inganno, potrebbe invece ('�) causarne la rovina. Nella terza coppia strofica il coro indica il motivo del suo timore, collocando la spedizione di Serse in una più ampia prospettiva: poiché proprio gli dei ("�%"�� ��) hanno voluto finora il successo dei Persiani sia per terra che per mare (il '� del v. 109 ha probabilmente valore connettivo – come sostiene Garvie –, non avversativo), tale successo (giunto con Serse al culmine) potrebbe essere nient’altro che un’����4 "�� e mutarsi nel suo con-trario: per questo (�����, v. 114) il coro è preoccupato»14.

Si può essere naturalmente d’accordo e insieme osservare come queste consi-derazioni confermino una sorta di ritorno alla visione esistenziale della proposi-tio thematis del dramma e all’abbandono delle linee interpretative che hanno nel tempo privilegiato la visione politico-ideologica o più immediatamente quella del conflitto etnico.

Definita e compresa la parodo resta da comprendere il dramma. Pisa Riccardo Di Donato RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Belloni 19942

L. Belloni, Eschilo. I Persiani, a c. di L. Belloni, Milano 1994².

14 Comunicazione relativa al commento in corso d’opera: 19.07.2011.

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Di Benedetto 1978 V. Di Benedetto, L’ideologia del potere e la tragedia greca: Ricerche su Eschilo, Tori-no 1978. Garvie 2009 A.F. Garvie, Aeschylus. Persae, with Introduction and Commentary, Oxford 2009. Müller 1837 K.O. Müller, Scholien zu den in diesem Museum Jahrg. IV H. III S. 393 ff. von Herrn Dr. Dübner herausgegebnen Versen des Tzetzes über die verschiedenen Dichtungsgat-tungen, RhM 5 (1837) 333-80. Pace 2010 a G. Pace, Aesch. ‘Pers.’ 97-99, Lexis 28 (2010) 3-19. Pace 2010 b G. Pace, La colometria della sezione lirica della parodo dei ‘Persiani’ (vv. 65-139), BICS 31 (2010) 35-51. Paduano 1978 G. Paduano, Sui ‘Persiani’ di Eschilo. Problemi di focalizzazione drammatica, Roma 1978. Taplin 1977 O. Taplin, The Stagecraft of Aeschylus. The dramatic Use of Exits and Entrances in Greek Tragedy, Oxford 1977. Wilamowitz 1914 U. von Wilamowitz-Moellendorff, Aischylos: Interpretationen, Berlin 1914. ABSTRACT This exegetical note aims at accompanying the critical text, edited with a preliminary commentary by University’s of Salerno équipe, directed by Paola Volpe Cacciatore.

The study focuses the possibility of establishing connexions between forms of the ex-pression (namely metrical and linguistic) and exegetical structures.

The Parodos of Persae shows, in its lyrical section, the meaningful strength of Aes-chylus’ metrical choices.

Both the themes emerging, the characters of oriental ethnicity and the mourning for the leaved army, found their own clear expression.

That confirms the general value of the initial song of the Chorus for the interpretation of the full drama. KEYWORDS: Aeschylus - Persae - Parodos

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NOTA AD AESCH. PERS. 481 Atossa, appena informata dal messaggero sulla disperata reazione del figlio Serse dinanzi alla disfatta di Salamina e al massacro della migliore gioventù persiana nell’isolotto di Psittalea1, domanda al nunzio notizie precise sulla sorte delle navi scampate al disastro (Pers. 478-81):

� �5 ' �&�� ��-� �6 ����$����� #%�

�� ���' 7������ 1�"� �4#8��� �-� 9� ��-� ': ���� �-� �����##���� �$'4���� ;� <� �=��#� ������ �,���

Al v. 481 la quasi totalità dei manoscritti3 offre � ����� (solo M presenta uno spirito dolce sul dittongo ��, ma ciò non può essere considerato elemento ascri-vibile alla tradizione): la lezione dei manoscritti viene stampata concordemente da tutti gli editori eschilei fino agli inizi del XIX secolo ed il sintagma � ������,��� è interpretato nelle prime traduzioni latine come «eligunt fugam» o «fu-

1 Vv. 465-70: >��4� ' ��?#���� ���-� @-� ��"�A […] B���� ': ����,� �������$������$ ��2C ���������� ��� �����$#��� / D4� ��%�#E �5� �,�F (‘Serse, scorgendo un baratro dei mali, scoppiò in singhiozzi […]. Lacerata la veste e prorompendo in un acuto grido di dolore, dato immediatamente un ordine all’esercito di terra, si abbandona a una fuga disordina-ta’). 2 Riproduco il testo di West 1998: al v. 480 l’editore teubneriano stampa '� della maggioranza dei manoscritti e non �� di F G, giustificando la sua scelta sulla base di Denniston 1954, 171, che spiega «in dialogue, when one question has been answered, and a second question asked (intro-duced by '� or some other connecting particle), the second answer is sometimes introduced by '�» e, sul passo dei Persiani, aggiunge «'� marks the continuation of the Messenger’s speech». A Denniston rinvia recentemente anche Garvie 2009, 219, che evidenzia però come tra gli esem-pi di un simile uso di '� registrati da quest’ultimo (Il. 3.229, Aristoph. Nub. 192, Pl. Cra. 398 C e 409 A) non vi sia alcun luogo tragico. A tal proposito si potrebbe segnalare come possibile paral-lelo in tragedia Eur. Hipp. 341:

G� H ��8#� I� #8�� J��"4� 7�K L� 7�(� K�$, ����� �� �M� �%'�G� �$ � H ������ N#��#� O��$�, '�#�K ����� �� ���(��� �,��%�,� ���"��� (340)G� ���4 ' ��P '$��4�� Q� ��%��,#��

Al v. 341 il �� sembrerebbe segnalare la continuità esistente tra i tre interventi di Fedra (337, 339 e 341): ella pone se stessa come terza dopo la madre Pasife e la sorella Arianna a chiusura di un catalogo di donne rovinate da Eros. Come Aesch. Pers. 480, anche Eur. Hipp. 341 è preceduto da una doppia domanda, sebbene la seconda interrogativa non presenti nessuna particella introdutti-va richiesta da Denniston. Diversamente dal passo dei Persiani, dove il messaggero risponde alla richiesta di Atossa, nella sticomitia dell’Ippolito (almeno per la prima risposta al v. 339) la regina sembra davvero ignorare le domande della nutrice e dunque proseguire il proprio discorso senza curarsi delle interruzioni della serva. 3 Dalla collazione di Dawe 1964, 318, si apprende che H presenta � ����� con -� sovrascritto in fine di parola, V *,���� Nac� ����.

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gam instituunt»4. È Blomfield5 il primo a stampare ������ al posto del tràdito � �����, accogliendo la proposta avanzata alcuni anni prima da Elmsley in nota al v. 505 degli Eraclidi di Euripide (= v. 504 Diggle: [...] �& �%��� #:� ����/ ���',�� R#-� S��� ����"�� #����), dove lo studioso congettura ����"��per il tràdito � ���"��:

«Quoties permutentur ����"�� et � ���"��, vix quisquam harum literarum ita expers est ut nesciat. Quo magis miror apud Aesch. Pers. 481 in omnibus edd. reperiri � ����� �,���, cum veram scripturam ������ e Rhes. 54. 126 reponere potuerint editores [...]».6

Lo studioso basa dunque il suo intervento sul confronto con due passi del Reso, il cui testo riporto di seguito secondo l’edizione Diggle 1994:

[Eur.] Rh. 53-5

T�'�� �U �� �8� �8�'� �,���E ����V��"%���� W##� �<#3� ����"�� �,�X�#���,�� [...]

����"�� �����"�� ) ����"�� Y �D��"�� Z �,��� �,�8 �� ,�8 �,�4[ )

[Eur.] Rh. 126-7

�[� #:� ������� �,�������(���� �#����#�� \����� ����C

������ �,��� 8 � Y

La sostituzione di � ����� con ������, suggerita come detto da Elmsley e accolta nella prima edizione di Blomfield, viene stampata da quasi tutti i succes-sivi editori eschilei7; e nelle rare e brevi note di commento dedicate alla questio-ne gli studiosi si limitano per lo più a richiamare alcuni dei loci similes già se-

4 Così traducono rispettivamente Sanravius 1555, 106 e Stanley 1663, 259. 5 Blomfield 1814, 43. 6 Elmsley 1813, 87 (Annotationes). Nella stessa nota Elmsley suggerisce ancora di sostituire � ����� con ������ in Eur. fr. 50 K. ('$��� N�� ������ '����-� ���� / �3� �-�@#��� �%��#� ������ #����; intervento accolto sia da Nauck 1889, 376, sia da Kannicht 1994, 187) sulla base di Aesch. Suppl. 342 (���� �$ � �1��� �%��#� ���"�� ���) e 439 ( ����� ��� �%��#� ����"�� #���� �]� 7�� �����4), luoghi menzionati anche nei com-menti a Aesch. Pers. 481 (cf. infra la nota di Garvie 2009 ad l.). 7 Tra le eccezioni segnalo Butler 1816, 22; Lange-Pinzger 1825, 45; Bothe 1831, 309; Schneider 1837, 132; Haupt 1830, 22 (ma in nota «f. ������»).

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gnalati da Elmsley8, in particolare i due passi del Reso pseudo-euripideo. Più e-stesa è la recente osservazione ad l. di Garvie, che così scrive: «Elmsley’s ������ (‘undertake’) is preferable to � �����, ‘choose’». � has preserved the cor-rect breathing. Cf. [E.] Rhes. 54 ����"�� (����"�� codd., �����"�� pap.) �,���, and such expressions as ��#�� ��%�� 795, Supp. 342, 439»9. L’editore, a differenza dei suoi predecessori, segnala come un papiro – per l’esattezza l’Achmîn 4, siglato P. Paris. Suppl. gr. 1099, 2 (Pack2 427), olim Codex Pano-politanus – presenti a Rh. 54 (unico dei due passi del dramma pseudoeuripideo citato da Garvie) �����"��, riproponendo anche in questo caso l’incertezza tra i verbi ��#�� e � � #��.

Sebbene la confusione ����"�� / � ���"�� sia certamente plausibile, il tentati-vo, avviato da Elmsley, di ‘uniformare’ il verso dei Persiani ai due esempi del Reso meriterebbe una maggiore riflessione. In particolare, è da notare come in entrambi i passi citati del dramma pseudo-euripideo (vv. 54 e 126) l’accusativo �,��� sia congettura dell’umanista H. Estienne: tale dato, evidenziato negli ap-parati critici delle moderne edizioni del Reso, appare sistematicamente omesso nei commenti dedicati ad Aesch. Pers. 481. Nelle sue Annotationes Estienne scrive così a proposito dei due versi del Reso10:

ad Rh. 56: «Pro �,����11 reponendum est �,��� (assentientibus etiam vet. cod.)

non autem ���F, ut quidam putarunt, decepti his verbis quae leguntur pag. 5 �[� #:� ������� �,�F [...]».

ad Rh. 126: «Dicunt Graeci ����"�� �,��� non �,�F: qua dixit forma Sophocles in Aiace, �'�� ���U� ���"��. ideoque ut pag. II vetus codex habet ����"�� �,���, ita hic quoque ������� �,��� repono».

Appaiono opportune almeno due osservazioni sulle note dell’umanista francese:

1) Il parallelo con Soph. Ai. 247, richiamato da Estienne a sostegno delle sue

congetture al Reso e ripreso tra l’altro da alcuni editori eschilei a proposito di Pers. 48112, non può considerarsi valido, dato che nell’Aiace ���"�� è infinito aoristo di ��,#��

8 Cf. e.g. Wellauer 1824, 335; Rose 1957, 126-7; Groeneboom 1960, 110; Roussel 1960, 196. Cf. inoltre Ritchie 1964, 199. 9 Garvie 2009, 219-20. 10 Stephanus 1568, 115-66. 11 Estienne adopera come testo di riferimento per le sue Annotationes quello dell’Aldina del 1503, dove si legge: T�'�� �U �� �8� �8�'� �,���E ����V ��"%���� W##� �<#3� ����"�� �,���� #���,�� Si noti che �,���� è variante attestata da alcuni codici del XIII/XIV sec. in Aesch. Pers. 481, tra i quali Y Asscr. W D L Lb P��.. 12 Blomfield 1814, 43; Groeneboom 1960, 110, Roussel 1960, 196. Tra gli editori sofoclei l’erra-to parallelismo è riproposto ad esempio da Jebb 1902, 49: non così Kamerbeek 1953, 68 («in spite of Aesch. Pers. 481, ������� �,���, and Eur. Rh. 54, 126, the form is from ��,#��

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2) Non possedendo alcuna certezza sulla reale esistenza degli anonimi veteres codices menzionati da Estienne13, dagli apparati critici moderni (in particolare da quelli di Zanetto e del già citato Diggle14) si apprende che la lezione tràdita dalla maggioranza dei codici è �,�8, da intendersi come dativo senza iota ascritto. Recentemente G. Pace15 ha difeso il sintagma ������� �,�F, dando al verbo il significato di partire/salpare e considerando quindi �,�F dativo avverbiale (‘in fuga’). A sostegno della sua ipotesi la studiosa segnala:

a) il ricorrere nel solo Reso di altri due esempi di �,�F con valore avverbiale (v. 98: ��� ��������� �$� �� �<���#�� ��-� / �,�F �3� ��,� �8�'��#����� ("�%�; e v. 798: 6 ' W(4#� �����3� / ���%���� D���� D�����,�F �%'�). A tal proposito si noti che nei Persiani, oltre a �,��� di v. 481, le altre tre attestazioni del sostantivo �,�� sono tutte al dativo: 1. Pers. 392 < �UQ� �,�F / ���]� ��$#�,� ��#�3� ^��4��� �%�� [...]; 2. Pers. 422 �,�F '��%�#�� �]�� ���� J����� […]; 3. Pers. 470 [...] D4� ��%�#E �5� �,�FIn due casi (testi 1 e 2) si tratta di dativo avverbiale, ed in entrambi l’avverbio è riferito al movimento di navi; nel restante (testo 3) si ha invece un dativo moda-le-strumentale (�$� + dat.), riferito alla fuga disordinata di Serse (��%�#E �5��,�F);

b) il parallelo offerto da Eur. Med. 938 (R#��� #:� �� �8� �8�' ����#���,�F), dove il composto �����, in diatesi attiva, è accompagnato dall’avver-biale �,�F.

I due più stretti paralleli indicati da Elmsley a sostegno della correzione in Aes-ch. Pers. 481 di � ����� con ������ sono dunque frutto di fortunati emen-damenti umanistici: nei tragici non vi è alcuna occorrenza certa del costrutto ��#�� più accusativo �,���, un elemento che, pur non inficiando la validità [...]»); Garvie 1998, 150 («from ��,#�� [...] and contrast Aesch. Pers. 481, [Eur.] Rhes. 54 [...] from ��#��»). 13 Le note di Estienne ad Euripide sono presentate come Henrici Stephani annotationes in poste-riores Euripidis tragoedias (id est, eas quae a librariis e typographis posteriore loco sunt collo-catae) quibus in annotationibus de multorum locorum emendationibus agitur, quorum aliquae ex coniectura, longe plures ex duobus vetustissimis exemplaribus petitae sunt. Nell’introduzione [pp. 98-9] alle Annotationes euripidee l’umanista fa riferimento ad un suo viaggio presso alcune biblioteche italiane «non solum publicas, sed etiam ex privatis eas quae locupletiores putaban-tur», dove lo studioso potrebbe essersi imbattuto in quei vetusti exemplares grazie ai quali avreb-be potuto correggere alcuni luoghi euripidei altrimenti «insanabiles». Ma di questi exemplares lo studioso non fornisce alcuna informazione. A tal proposito così scrive Dindorf 1840 xxx: «Eo-dem fere tempore (a. 1568.) H. Stephani prodierunt annotationes in Sophoclem et Euripidem, cum variis lectionibus ad Rhesum et reliquas postremas fabulas e duobus codicibus Italicis enota-tis, quas Stephanus cum suis ipsius aliorumve conjecturis ita commiscuit, ut MSS. suis plurima tribueret, quae nullo unquam in codice exstitisse sit certissimum. Ex quo sequitur ea tantum quae aliorum librorum auctoritate postmodum sint stabilita, codicibus Stephani tuto tribui posse, reli-qua autem conjecturae esse imputanda, donec probetur contrarium». 14 Zanetto 1993, 11 e 15, registra al v. 54 �,��� Steph. �,�8 (vel �,�F) VOLPQ �,�4[ �1 e al v. 126 �,��� Steph. �,�8 (-F Q) codd.; per l'apparato di Diggle 1994 cf. supra. 15 Pace 2002, 453-5.

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della correzione di Elmsley, potrebbe consigliare maggiore prudenza nel condan-nare il tràdito � �����.

A quanto finora detto si potrebbe aggiungere un’ultima considerazione di ca-rattere più propriamente esegetico, evidenziando una differenza a mio avviso si-gnificativa che intercorre tra il passo dei Persiani e i proposti paralleli del Reso e che potrebbe giustificare il mantenimento del tràdito � �����. Nei passi del Reso soggetto di ����"�� / ������� �,��� sono i guerrieri greci, indicati ge-nericamente come ��'�� dei quali i Troiani (in particolare Ettore) sospettano una possibile fuga notturna; nei Persiani, invece, soggetto di � ����� / ������ sono ��-� [...] ����, ossia comandanti di vascello. Se nel dramma pseudo-euripideo sono uomini anonimi, guerrieri senza distinzione di grado o di ruolo, a poter darsi alla fuga, nei Persiani i ���� sono investiti di una responsabilità col-lettiva: essi possono certamente fuggire (prendere la fuga) con le navi ma pos-sono altresì ‘scegliere una fuga’ (� ����� �,���) disordinata, optare per essa, preferendola ad altre alternative (quali restare a combattere, morire, fuggire con ordine) non esplicitate nel testo eschileo16.

In conclusione, la congettura di Elmsley, nata dal confronto con due loci pa-ralleli, il cui testo, come visto, è stato emendato in età umanistica, ha grandi pos-sibilità di successo in quanto 1) è facilmente spiegabile la genesi dell’errore con la frequente e documentata confusione tra le forme simili; 2) il sintagma, non at-testato, come detto, con sicurezza nei tragici, può trovare sostegno in espressioni eschilee quali ����"�� �%��#�. Tuttavia la stessa lezione dei codici offre un senso accettabile, e potrebbe alludere alla responsabilità dei comandanti persiani nel decidere, dinanzi alla sconfitta oramai imminente, una fuga disordinata e po-co onorevole delle navi superstiti. Di ciò si mostra consapevole già Wellauer, il quale, pur accogliendo l’emendamento di Elmsley, aggiunge nel commento ad l.: «Non nego quidem � ����� �,��� quoque dici posse, sed hoc non erit fugam capere sed fugam eligere»17. Salerno Stefano Amendola RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Blomfield 1814 Aeschyli Persae, ad fidem manuscriptorum emendavit, notas at glossarium adjecit C.J. Blomfield, Cantabrigiae 1814.

16 Sul significato del verbo � ���"�� cf. Fraenkel 1950, 178 ad Aesch. Ag. 350. 17 Così Wellauer 1824, 335. Netta invece la preferenza espressa per il tràdito � ����� Schneider 1837, 133: «� ����� hat man wegen Eur. Rh. 54, 186, Soph. Aias 247 in ������verwandelt, d. i. sie nehmen auf sich, unterziehen sich (...) doch ist an � ����� nichts auszuset-zen: sie wählen sich, ziehen vor, vergl. Sieb. 996, Eur. Med. 852 �%��, Aisch. Hik. 919 und Eur. Alex. Br. IX �%��#�, Herakl. 505 ���',��, Aisch. Ag. 1643 vielleicht �X� �$(4�».

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Bothe 1831 Aeschyli Tragoediae, edidit F.H. Bothe, I, Lipsiae 1831. Butler 1816 Aeschyli tragoediae quae supersunt, deperditarum fragmenta et scholia graeca ex edi-tione Th. Stanleii [...]. Accedunt variae lectiones et notae criticae ac philologicae quibus suas passim intertextuit S. Butler, VII, Cantabrigiae 1816. Dawe 1964 R.D. Dawe, The Collation and Investigation of Manuscripts of Aeschylus, Cambridge 1964. Denniston 1954 J.D. Denniston, The Greek Particles, Oxford 19542 (1934). Diggle 1981 Euripidis Fabulae, ed. J. Diggle, I, Oxonii 1981. Diggle 1994 Euripidis Fabulae, ed. J. Diggle, III, Oxonii 1994. Dindorf 1840 Euripidis tragoediae superstites et deperditarum fragmenta ex recensione G. Dindorfii, III, Oxonii 1840. Elmsley 1813 Euripidis Heraclidae. Ex recensione P. Elmsley, qui annotationes suas et aliorum selec-tas adjecit, Oxonii 1813. Fraenkel 1950 Aeschylus, Agamemnon, edited with a commentary by E. Fraenkel, II, Oxford 1950. Garvie 1998 Sophocles, Ajax. Edited with introduction, translation and commentary by A.F. Garvie, Warminster 1998. Garvie 2009 Aeschylus, Persae. With Introduction and Commentary by A.F. Garvie, Oxford 2009. Groeneboom 1960 Aischylos’ Perser, I (Einleitung Text Kritischer Apparat) – II (Kommentar), hrsg. von P. Groeneboom, Göttingen 1960 [ed. olandese originale Groningen 1930]. Haupt 1830 C.G. Haupt, Aeschyli Persae. Quaestionum Aeschylearum specimen IV, Lipsiae 1830. Jebb 1907 C. Jebb, Sophocles: The Plays and Fragments, with Critical Notes, Commentary and Translation, VII: The Ajax, Cambridge 1907. Kamerbeek 1953 J.C. Kamerbeek, The Plays of Sophocles. Commentaries, Part. I: The Ajax, Leiden 1953. Kannicht 2004 R. Kannicht, Tragicorum Graecorum Fragmenta, vol. 5.1: Euripides, Göttingen 2004.