nato morto

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NATO MORTO Das Bedenklichste in unserer bedenklichen Zeit ist, dass wir noch nicht denken. Martin Heidegger Il cigno tace tutta la vita per cantare bene una sola volta. Antico proverbio C'était l'enfant sacré qu'un beau vers fait pâlir. Adrien Juvigny La mente è stanca, la mano trema; SPERO, nonostante tutto questo, di riuscire a restituirvi almeno un decimo di ciò che ho da dire, e che almeno uno dei lettori prenda sul serio le mie parole, provvedendo in maniera opportuna sulla sua vita, almeno. I frutti di ricerche durate oltre sessant'anni non sono bastati a risolvermi alla pubblicazione, così come non bastarono allora gli avvenimenti che adesso, col senno del poi, del troppo poi, giudico rivelatori. Ieri, il 24 giugno del 2024, il Papa è stato scaraventato giù dal balcone durante il suo discorso di insediamento. Questo, la natura stessa di quell'orazione abortita, l'epifania che mi ha provocato, il desiderio di non lasciare al vento ciò che il mondo dovrebbe riconoscere al più presto, nonché l'avvicinarsi impietoso della mia di morte, hanno infine abbattuto la cortina di dubbi che mi orientava al desistere. In verità saranno scritti parecchi libri su Emanuele Pazziastri. 1

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NATO MORTO

Das Bedenklichste in unserer bedenklichen Zeit ist, dass wir noch nicht denken.Martin Heidegger

Il cigno tace tutta la vita per cantare bene una sola volta.Antico proverbio

C'était l'enfant sacré qu'un beau vers fait pâlir.Adrien Juvigny

La mente è stanca, la mano trema; SPERO, nonostante tutto questo, di riuscire a restituirvi almeno

un decimo di ciò che ho da dire, e che almeno uno dei lettori prenda sul serio le mie parole,

provvedendo in maniera opportuna sulla sua vita, almeno.

I frutti di ricerche durate oltre sessant'anni non sono bastati a risolvermi alla pubblicazione, così

come non bastarono allora gli avvenimenti che adesso, col senno del poi, del troppo poi, giudico

rivelatori. Ieri, il 24 giugno del 2024, il Papa è stato scaraventato giù dal balcone durante il suo

discorso di insediamento.

Questo, la natura stessa di quell'orazione abortita, l'epifania che mi ha provocato, il desiderio di non

lasciare al vento ciò che il mondo dovrebbe riconoscere al più presto, nonché l'avvicinarsi impietoso

della mia di morte, hanno infine abbattuto la cortina di dubbi che mi orientava al desistere.

In verità saranno scritti parecchi libri su Emanuele Pazziastri. Sorgeranno musei, correnti di

pensiero... persino una religione, credo. Sono ben consapevole del fatto che Maria Salvemini è

destinata a cadere nell'effimera popolarità e poi nell'inesorabile discredito, al pari di tutti quegli

sciacalli che, favoleggiandone, millanteranno amicizie strette e parentele lontane con tale

straordinario individuo.

Su questi indispensabili presupposti di sincerità, urgenza e rassegnazione, che il lettore deve sempre

tenere presenti, comincio ora la descrizione degli avvenimenti che hanno fatto e disfatto tutta la mia

vita fino a oggi.

Cercherò di sottomettere il disastroso influsso del senno del poi, raccontando i fatti nella loro reale

evoluzione, creando la stessa trama di tensioni e risoluzioni che ho provato in prima persona, per

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dare la giusta dignità letteraria a fatti che non meritano di essere riferiti come mere informazioni.

Perdonerete la chiara contraddizione tra l'urgenza e dunque la brevità del testo, e la gran quantità di

episodi descritti. Molto poco trovo di contingente in ciò che mi è accaduto; più rifletto e più mi

rendo conto che persino l'aver spostato la tazza di caffé da qui a lì, in un lontano e solitario

pomeriggio, sia stato in qualche modo prescritto, e fondamentale alla rivelazione del tutto.

Tra qualche giorno morirò. Semmai avrò degli onori non potrò goderne, e non ho parenti che

potrebbero farlo al posto mio, magari seduti in qualche sciocco talk show. Ho solo un grande amore,

e una gran pietà per tutti voi.

Nel settembre del 1958 ero al mio settimo mese di gravidanza. Soltanto questo per me era motivo di

gioia e speranza: nonostante la mia tenerissima età già avevo alle spalle due gravidanze finite male.

Il primo figlio morì al terzo mese, il secondo al sesto.

Tutto procedeva per il meglio, avevo persino smesso gli eccessi a cui precedentemente non avevo

saputo rinunciare. Mio marito, Giuseppe Santonastaso (che Dio lo rifulmini e continui ad averlo in

gloria), aveva da poco iniziato la professione di libero docente di violino. Io ero riuscita in extremis

a diplomarmi, ed ero fermamente decisa a contribuire alla mia vocazione e all'economia di casa

lavorando come insegnante di scuola elementare, appena finita la maternità.

In quel periodo mi limitavo a dare delle lezioni private, soprattutto a bambini con difficoltà di

apprendimento. Alfabeto, sillabazione, numeri naturali, e poco più.

Una sera sentii scalciare molto più forte del solito. Avevo paura che potesse addirittura nascere, a

volte capita. Invece, fortunatamente (o non avevo voglia di partorire quel giorno) voleva soltanto

parlare con me. Mi stupiva sempre parlare con mio figlio, anche se avveniva tutto nella mia testa.

Peculiarità di quegli scambi, i pensieri che venivano a lui, attraverso me, non erano da me. E io li

ascoltavo come se effettivamente fossero di un altro.

Avevo da poco sperimentato le droghe leggere, il cui uso per fortuna non assunsi a consuetudine.

Mi dicevo: sarà per quello. Facevamo delle conversazioni davvero assurde. Ricordo soprattutto

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quando mi confessò di aver imparato a parlare ascoltando me e il padre, e imparando da me i

rudimenti di grammatica che spiegavo durante le lezioni. E quando gli obiettai che un individuo

privo di altro senso oltre a quello dell'udito non può comprendere cosa sia una c, o un ca-, o un

cane, o meglio, non può associare suoni a oggetti che non ne emettessero, e fossero quindi seppur in

modo mutilo da lui riconoscibili, mi rispose che lui aveva le mie mani, i miei occhi, e (questo non lo

disse, ma era chiaro) la mia mente. Mi comunicò che questo legame più che vitale con me

alimentava e si alimentava con il suo straordinario sviluppo psichico, grazie a cui già dal sesto mese

sentiva la nozione fondamentale dell'"Io Sono", e cercava disperatamente di farsene qualcosa.

E quanto insistentemente mi chiedeva di farlo nascere! Aspetta, gli dicevo, nemmeno due mesi e sei

fuori. Capivo la sua situazione (era come sepolto vivo) ma temevo che potesse essere troppo

gracilino e avere complicanze successivamente: meglio perdere due mesi e guadagnare dieci anni,

che l'inverso. Ma soprattutto ero straconvinta che quello fosse lo strano effetto del due grammi di

marijuana che avevo assunto in tutta la mia breve esistenza. In alternativa ero matta, e ciò in realtà

era la cosa più inammissibile di tutte.

A partire da quegli scambi mistici con la mia creatura, ero molto più attenta agli stimoli che potevo

trasmettergli: non erano poi così indiretti e irrilevanti.

Per fortuna mio marito era del tutto distratto dalle donne in gravidanza, per cui non dovei subire il

torto di dirgli di no tra le coperte. Mi resi conto, però, che al di là delle cose sconce o poco salubri,

era dai concetti che dovevo distogliere mio figlio. In lui germinavano come se fosse imbottito di

tutti i tipi di metanfetamina, senza gli effetti collaterali che io invece dovevo di quando in quando

sopportare. La mia mente era sempre più ingombrata dalla sua presenza, e invasa dai collegamenti

inauditi tra le cose che soltanto un supergenio non nato che avvertiva la realtà come un mostro

polifonico e la madre come una gabbia, poteva fare.

In principio era il Verbo, non la luce. E' errato credere che i ciechi abbisognino di essere risanati, e

che un bimbo nasce quando viene alla luce, e che comprende appieno la vita una volta ricevuta

l'Illuminazione. E' vero, una sola eccezione non basta a distruggere la regola, ma se ciò che stava

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capitando a me non era inventato, e ciò che capitò a Maria di Nazareth pure non fu inventato, le

eccezioni erano due.

Sarà per gli influssi gnostici e neocabalistici del Rinascimento, o per quella cultura che nel nostro

paese ha costituito un virile strumento per ottenere l'unità tanto agognata, oltre che un effeminato

mezzo di intrattenimento... fatto sta che spesso e volentieri, anche nella nostra bella lingua, udire è

reso con sentire.

Ben presto dovetti smetterla di parlare di storia, e soprattutto di filosofia. Platone, il Teeteto e il

Mito della Caverna, l'Eterno Ritorno, il fenomeno e il noumeno, la Scrittura perfino, che Dio mi

perdoni, nell'insperato caso che esista ancora, e dopotutto non sia morto anch'Egli di crepacuore...

Quanti dubbi, quante intenzioni soprattutto, vedevo celate dietro le sue domande!

Avevo toccato il fondo.

Era in quei giorni uscito al cinema Vertigo, un film di Alfred Hitchcock. Decisi di accontentare

Giuseppe e di andare a vederlo; non poteva fare a mio figlio peggio delle nostre disquisizioni

teoretiche. Anche questa, idiota idiozia: ma ve ne accorgerete, sempre che vogliate.

Per darvi un'idea più precisa del modo di ragionare di mio figlio, vorrei raccontare l'episodio meno

strabiliante. Parlavamo del nome che gli avrei dato una volta nato. Considerando (ormai

ironicamente) la possibilità di un parto prematuro, egli mi disse: "Chi nasce di cesareo e si chiama

Cesare, è un individuo destinato all'etimologia.

Ma chi ha a che fare con i nomi, che come diceva papà nove giorni fa sono le ombre delle cose, che

a loro volta sono gli aloni delle idee, merita bene l'appellativo di "Ombroso".

Dico "ombroso" e non "umbratile" perché altrimenti il gioco di parole "Cesare l'Ombroso", in

assonanza con il delinquente della psicologia dell'ottocento di cui ventidue giorni fa più o meno a

quest'ora avete sbirciato la foto in bianco e nero in un vecchio manuale, non funziona. Chi sa quale

sia il ritratto psicologico del suo volto, analizzato attraverso i suoi stessi precetti... Se ne uscisse

fuori che un uomo dai suoi tratti è incline alla creazione di scienze inattendibili, la sua scienza

sarebbe (meglio, sarebbe stata) da considerare attendibile, oppure no?

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Applicando gli elementi della fisiognomica ai soli tratti del volto, ho valutato che il signor

Lombroso sia stato un soggetto incline alla gelosia, avido, diffidente, portato al rancore e

all'avarizia. Molto intelligente, per carità, assennato e dal forte senso pratico, eppure irascibile, dal

carattere difficile, ai limiti del fanatismo. Ipocrita.

Le narici larghe in particolare, sono indice scarsa consistenza morale, poca sensibilità e diplomazia.

Il che dovrebbe darmi almeno un po' di ragione."

Se ne andava in questo modo, con voli pindarici e logorroici che a volte duravano ore, e che io

sempre sopportavo e ammiravo, docilmente seduta sull'orlo dell'esasperazione.

Quando si ruppero le acque, una settimana e un giorno prima del nono mese, il bambino era nato

morto. O almeno così mi dissero. Le dinamiche del parto furono davvero strane... non credo sia un

comportamento normale da parte di un medico prendere un bambino, in fretta recidere il cordone, e

scappare dal reparto maternità per poi ritornarvi poco dopo a dare l'infausta notizia con malcelata

alienazione.

Ma che potevo saperne io! Ero giovane, sventata, avevo una disperata paura del giudizio degli altri,

ero perfettamente al corrente dei miei precedenti aborti, del mio uso di alcool e droghe leggere, e

indulgere in atteggiamenti ossessivi e immotivati avrebbe potuto segnare la mia condanna al

manicomio. Decisi di accettare anche quello, ma l'eco dei pensieri di mio figlio, ancora nella mia

testa, si vaporizzò in sogni, togliendomi il riposo a ogni notte.

Il comportamento del medico, per non parlare di quello di mio marito, si rimescolarono in me, e

catalizzati dagli avvenimenti successivi, acquisirono sempre più un senso, insieme alla

consapevolezza del troppo tardi, e al livore nei confronti di quel senno del poi di cui tutti gli uomini

sono in balia, intrinseca confutazione del concetto stesso di senno.

E fu sera e fu mattino: primo anno.

La depressione perdurava chiudendomi gli occhi ai segnali del mondo, e l'assenza di mio marito

non mi incuriosì più di molto. La marea slavata di scuse che frapponeva mi sembravano abbastanza

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convincenti. Il lavoro è la prima cosa, senza quello non c'è il benessere, e senza questo non c'è la

salute, nonostante a Napoli è sempre la salute il primo desiderio da esprimere al Genio.

Avevo inteso il velo calato sui suoi occhi per un atto dovuto, prima ancora che sentito. Mio marito

non aveva un tale grado di sensibilità in fondo (o forse in superficie), nonostante per gli ebrei avere

figli maschi sia molto più importante che amare la moglie che non glieli da'.

Un pomeriggio (non lo dimenticherò facilmente) mi alzai bene. Non bene "non è mai successo

nulla", ma bene "ricominciamo adesso". E tutte le domande che in quei quasi due anni si erano

sedimentate dentro di me cominciavano a riaffiorare in maniera ora effusiva, ora pliniana.

Giuseppe non aveva il coraggio per dirmelo. Aveva molto di ciò che è possibile desiderare da un

uomo, ma non il coraggio. Lo conoscevo abbastanza da capire che considerava l'idea di lasciarmi.

Una moglie può sopportare del marito o la tristezza in assenza, o quella in presenza. Impossibile

entrambe.

Cessato il lavoraccio dovuto al boom di aspiranti violinisti al Vomero, si era inventato di prestare

servizio volontario in una casa famiglia. Una volta lo seguii, e ciò che venni a conoscere non mi

piacque. La casa famiglia esisteva, quindi ci entrò. A ricevermi fu una donna molto bella, che aveva

sulla scrivania e sul cartellino che portava appuntato al maglione il mio stesso nome, e il cognome

di mio padre. "Il signor Giuseppe è nella stanza a fianco", e mi diede un rotolone di carta da cucina

e un set di acquerelli da portargli, già che c'ero.

Nella stanza cinque o sei bambini di cinque o sei anni si inseguivano in pressoché totale sbaraglio.

Lui era seduto alla finestra, con un piccolo in braccio. Sembrava avere non più di tre anni.

Sembravano sussurrarsi molte cose, e di quando in quando si affacciavano, talvolta indicando,

talvolta ridacchiando e scuotendo il capo, come per negare, o considerare ipotesi.

So bene che per sussurrare, ridacchiare e considerare ipotesi, occorre avere almeno otto anni, di

norma, infatti nel brevissimo istante in cui il mio sguardo incrociò quello del bimbo, dovei

riconsiderare le mie stime riguardo la sua età. Né avrà dieci, mi dicevo, sarà affetto da nanismo.

Solo dopo realizzai che quella disparità tra altezza ed espressione, tra la grazia e la consapevolezza

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dei movimenti e la tonda goffagine dei suoi arti e articolazioni, non riguardavano l'età, bensì la sua

entità. Il suo viso era solcato di rughe strane, gli occhi erano grigi, come l'abisso sul cui fondo

rifulge una perla.

Dopo avermi guardato sussurrò qualcos'altro a Giuseppe e quando, timidamente, gli portai la roba,

lui rispose senza voltarsi con un fugace e abitudinario: "Grazie amore mio".

Uscii dalla stanza, e correndo nell'androne dell'istituto verso l'uscita, gridai alla bella Maria che

secondo il mio modesto parere era ancora più puttana di quelle puttane che gli avevano appioppato i

loro poveri figlioli indesiderati. Una volta a casa, feci le valigie in fretta e furia e abbandonandola,

sbattei la porta come se lì ci fosse ancora qualcuno a potersene risentire.

Andai a vivere dai miei ad Heidelberg, e il fatto che mio marito non venne a cercarmi mi convinse

ancor di più della correttezza del mio comportamento. Ricominciò la depressione che per due

giorni aveva allentato la sua morsa, trascinandomi in un abbraccio nero che durò diciotto inverni.

Furono i sogni a svegliarmi.

Come per la botta precedente (diciassette), le cose che non avevo la forza di comprendere a volo

(sedici) precipitavano nel mio Inferno privato. Capitava a volte (quindici) che qualche anima scaltra

riuscisse a imboccare la salvifica scalata del Purgatorio onirico (quattordici), fuggendo

dall'inconscio, giungendo spesso al Paradiso della mia consapevolezza (tredici).

Al di là di una sensazione vaga che ci fosse qualcosa di grosso da capire (dodici), fui animata dalla

convinzione (anzi dal credo, undici) che mio figlio non fosse morto. Non so come e perché, ma quel

sentimento era completamente diverso da un folle desiderio di madre mancata.

Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, un altro capodanno trascorso in solitudine,

senza pandoro, senza riposo, senza buoni propositi per l'anno nuovo, ma soprattutto, senza Trenino

(Giuseppe veniva chiamato così da quando era piccolo, prima per la sua passione per i trenini, poi

per via del suo fisico sgraziato e spezzato, come fosse suddiviso in vagoni, infine per la

preoccupante quantità di sigari che quotidianamente faceva fuori).

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Le ricerche vere e proprie cominciarono quando in biblioteca mi imbattei in un libro di poesie, una

raccolta di vari autori tra cui spuntava come uno scherzetto un certo Aniello Placido. La sua

biografia era la più curiosa di tutte: Aniello Placido ha vent'anni. Punto. Non c'era traccia dei soliti

"ha studiato qui", "ha pubblicato lì", "si è addottorato in"... niente. Stupefacente, oltracciò, era che

un ventenne veniva pubblicato insieme ai signori Sanguineti, Montale e Gatto.

Al mondo verrò senza farmi vedere

mostrerò la mia voce per farmi ignorare

a tutti dirò dall'altare più alto

che il cielo di Dio non è blu,

né cobalto.

Il verbo geniale alla fine,

la rima:

"come si conviene"

nascondere il prima.

Dio disse a Mercalli che lo stava

sottovalutando, chiamando apocalittico

il grado dodici del sisma.

Lui gli rispose

che chi risponde a Dio non può sbagliarsi.

L'umanità è un uomo che col suo sperma scrive in aria:

l'ontogenesi, ricapitola la filogenesi,

col fumo del suo sigaro cancella via le parole:

"Umanità è un che in aria: la filogenesi cancella via le parole".

Una mente che non dimentica è una mente stitica.

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Ma non ci capii molto. Poteva benissimo essere solo suggestione, compreso quello stupendo

poemetto sulla figura di Lombroso. Il suo nome però, Aniello, cioè Agnello, mi suggerì una strada.

Una sera (anche questo ricordo sopravviverà al mio decesso...) camminavo in Darwinstraße.

Ero andata a trovare i miei, e l'indomani sarei partita per Monaco, dove mi aspettava l'aereo che mi

avrebbe riportata a casa. La malinconia del ritorno era quella volta un po' sedata dall'idea che a casa

ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarmi. Lui mi accompagnava da più di un anno, ed ero finalmente

riuscita a lasciarmi alle spalle la vecchia relazione con quel Giuda avellinese.

Appena imboccata la strada, sentii una musica provenire da lontano. Mi arrampicai sull'albero più

vicino per vedere da dove provenisse. Non vidi nulla in lontananza, doveva per forza essere in

qualche strada vicina. Scesi dall'albero (non è per mancanza di autostima che sento il bisogno di

spiegarmi. Vi chiederete come sia possibile prestar fede alle parole di una vecchia che trova

normale salire su un albero per poter vedere più lontano. Vi confesso che è una cosa che adoro fare,

e trovo sempre una scusa per farlo. La scusa in questione era che la musica somigliava molto a

quella di mio marito, e nel caso fosse lui non potevo incontrarlo: meglio cambiare strada. Se

conoscete il problema di Monty Hall sarete d'accordo con me nel pensare che questa è una scelta da

persona intelligente, non codarda) e proseguii. La musica era cessata. Poco più avanti, proprio

all'angolo con Robert-Koch-Straße, scoprii un fuoco ardente da un barile di latta. Accanto al fuoco

c'era un uomo, con un violino in mano, nell'intento di sostituire il mi cantino. Waren Sie vorher zu

spielen?

-Ich spiele nicht, geehrte Frau, arbeite.

Non risi per la battuta (facile a dire il vero) ma per la sua prontezza.

Ponderai che per Monaco ero abbastanza in anticipo.

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La reticenza è una figura retorica spesso adoperata per esprimere in qualche modo, comunque

negativo, l'inadeguatezza del linguaggio al pensiero in certe circostanze.

La reticenza segna la resa del poeta all'inesprimibile, quando è ben intenzionato, oppure la sua

pigrizia creativa. E' un fatto che solo ciò che non si conosce, o che si conosce in maniera confusa,

rimanga inespresso. Ed è un fatto che il linguaggio non è semplicemente l'espressione del pensiero,

in rapporto al quale sta come il fenomeno al noumeno, ma un'altra cosa ancora. Lo dimostra la

tendenza a lasciarci influenzare dalle parole, sia dette che ascoltate, modificando le nostre idee. Per

cui, oltre alla differenziazione tra reticenza onesta e disonesta, sento di poter distinguere anche tra

reticenza di pensiero e reticenza di linguaggio.

La prima avviene quando le nostre categorie mentali non riescono a catturare il dato quando, cioè,

non si trova il senso di ciò che si sta percependo. E' la reticenza dell'Inferno. Quando ciò che si

percepisce si comprende, ma il linguaggio risulta inadeguato a veicolarne la portata colossale, si ha

la reticenza del linguaggio. E' quella usata da Dante nel suo Paradiso. La differenza non viene colta

perché la prima, nonostante attacchi il pensiero, si riflette comunque nel linguaggio.

Il dire il non dicibile ha lo stesso sapore di un verso articolato di scimpanzé, che noi scambiamo per

parola. Può esplodere in diverse riflessioni, aprire le più svariate problematiche, ma tutto è in realtà

frutto dell'immaginazione. Non dicendo nulla, ma cercando di dirlo, il reticente continua a non aver

detto, così che la sua espressione ha la stessa giustificazione alla vita del verso degli animali: "Io

Sono".

Se vi dimostro che so cosa sia una reticenza, e addirittura che abbia un tale commercio con essa da

averci riflettuto abbastanza da poter darne una mia ulteriore interpretazione, è per non dirvi nulla, se

non che ci sarebbe così tanto da dire, che uscirei fuori dallo spazio concessomi dalla mia urgenza,

fallendo così il mio intento iniziale.

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Vi chiederete se non fosse stato meglio destinare ad altro il tempo appena sprecato... la risposta è:

no.

Il violino del barbone era dello stesso modello di quello di mio marito. Iniziali leggermente incise

sul retro mi suggerirono affatto flebilmente che quello in realtà fosse il violino di mio marito.

Ebbi un balzo a cuore, ma non credetti per più di un microsecondo che il clochard fosse Giuseppe.

Ebbene sì, il mio barbone violinista, non aveva neanche la barba. Non saprei proprio dire cosa lo

rendesse più speciale, se ciò che ho appena detto, o la grande e inaspettata mano che mi tese.

Mi disse che a regalarglielo era stato un distinto signore dall'accento italiano, che gli si era

presentato come Ettore Palma.

Grazie a lui ritrovai mio marito, che abitava a due passi dai miei.

Era sposato e affermato (bella casa, casella di posta in due cognomi), ma non mi interessava .

Doveva scendere, e ricevermi.

Quando lo rividi ci fu un colpo di fulmine, e lui morì. Scioccata, corsi dai miei, lasciando a terra il

mio ex marito fumante, tra le braccia di sua moglie, non dopo avergli baciato dolcemente le mani.

Quando arrivai lì, trafelata, loro già sapevano tutto. Senza dire una parola mi diedero una busta

sigillata, e dopo avermi giurato di aver giurato di non averla mai letta, me la consegnarono,

facendomi giurare di non aprirla se non a Napoli. Ne ricopio qui i tratti salienti:

Cara Maria,

ti chiedo scusa. Se ti scrivo non è per giustificarmi, ma perché tu sappia.

Quando mi raccontasti che il bimbo ti parlava, e io ti risi in faccia, ti credevo. Parlava anche con

me, ed è stato lui a convincermi a toglierti dal tuo grembo, corrompendo il medico, e a metterlo in

una casa famiglia. [...] Te lo giuro Maria, oltre ogni fiducia, oltre ogni lavaggio del cervello, io ero

completamente plagiato da quel bambino. Il nostro bambino. [...] Tutti erano a conoscenza del

legame speciale che c'era tra noi, e aveva molto paura che qualcuno venisse a scoprire la nostra

parentela.

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Anche adesso che scrivo, non sono a conoscenza delle sue reali intenzioni.

Ma quando mi disse: "Non voltarti, rispondi naturalmente, con un 'grazie amore mio'", io l'ho fatto,

senza chiedere spiegazioni. Come sapeva avresti fatto, mi hai abbandonato. Lui il giorno dopo ha

lamentato al personale cose orribili sul mio conto. Di queste cose fa schifo anche a parlarne, per cui

il processo che mi condannò a quindici anni di gattabuia fu del tutto sommario. Erano venti in

realtà, ma tu sai la mia buona condotta... Mi mancava solo un anno alla scarcerazione, quando le

guardie mi portarono in cella uno stupendo Guarneri del Gesù, portato da un ragazzo sui vent'anni,

dicevano.

Accanto c'era un biglietto, con su scritto: Per suonare bene il violino occorre avere il braccio bene

impostato, cosa impossibile se ci si lascia prendere dall'emozione della musica, a sua volta

conseguenza inevitabile del bel suonare.

La meditazione interrompe le comunicazioni tra le aree del cervello deputate alla ricezione del

dolore e quelle legate alla percezione della sensazione dolorosa, come l'amidgala, l'ippocampo e la

corteccia prefrontale. Chi medita mantiene, e persino aumenta, la capacità di percepire il dolore,

ma è in grado di escludere l'interpretazione del vissuto soggettivo, e quindi la sofferenza. Scusa.

[...] Quando ero dentro non ho voluto cercarti. Ero sicuro che tu non avresti sofferto più di tanto, per

uno scapestrato come me. Un annetto, forse due, al massimo. Poi non meritavi di accollarti la

zavorra di un marito carcerato.

Una volta fuori ti ho cercata, ma non c'eri. Ho preso un volo per la Germania, per venire a trovare i

signori Maddaloni, e cercare di sapere qualcosa in più sul tuo conto. Mi hanno detto che eri da poco

ritornata a Napoli, e hanno confermato le mie ipotesi sul tuo umore. Non mi sentii così in colpa,

allora, quando all'areoporto incontrai Judith che sicuramente, anche se per poco, avrai conosciuto.

E' una donna molto gentile. Ho regalato il mio vecchio violino a un barbone: ho chiuso in questo

modo con la mia vecchia vita. [...] e sento la morte addosso come una spada di Damocle. Sono

sicuro che ci reincontreremo, ma che non riusciremo a parlarci. Qualcosa dovrà pure impedircelo.

Ho indagato parecchio su nostro figlio, negli ultimi anni. Non ho cavato un ragno dal buco, ma

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questo scrittore in particolare, Cristoforo Sparviero, sembra mostrare molte coincidenze col modo

di pensare di nostro figlio. Medita su questo. [...] Lui ti conosce, tu no. A meno che il tuo sentore di

madre e di donna non operi qualche miracolo, tu non lo troverai senza il suo permesso. E se ci ha

separato, senza esitare a mandare suo padre in prigione, sta' sicura che non lo vuole.

Lascialo in pace, Mariella, sono sicuro che un giorno verrà lui da te.

Non ti giuro niente io. Ogni giuramento è negazione della vita. Tu mi capisci, mi sono spiegato, e

sai bene quanto ti ho amata, e quanto ti amo ancora.

Ti stringo forte forte forte,

Giuseppe Santonastaso

Heidelberg, 13 marzo 1976

Cesare era vivo, e si nascondeva dietro a pseudonimi. Giuseppe era morto colpito da un fulmine a

ciel sereno-variabile, ma già da un po' sapeva di dover morire, il che da' alla vicenda un quid di

sinistro e paranormale. Quel cretino ha creduto che io abbia sofferto un annetto o due, e quei

deficienti dei miei genitori gliene hanno dato conferma, solo perché ovviamente quando vado da

loro cerco di sorridere il più possibile.

Quel Cristoforo Sparvieri trasformò in tesi quella che per me era stata solo un'intuizione: andare alla

ricerca di pseudonimi che avessero a che fare con Cristo. Agnello, Cristoforo...

I pensieri più insignificanti sono quelli scritti per darsi un contegno, i più alti quelli costruiti con

l'intento di essere derisi; i sublimi quelli scritti senza intento alcuno, se non quello di non essere mai

letti. Gli aforismi più insignificanti sono quelli che seguono una struttura triadica, simbolo

dell'inginocchiamento del pensiero allo spirito geometrico; i più belli sono quelli che covano il

germe della loro negazione. L'espressione più conforme al pensiero è la parola nuda e irrelata: per

questo motivo il pensiero vero da' adito a tutte le contraddizioni e confutazioni possibili. Il pensiero

più vero è quello che non da' ricette, e lo scrivere è uno scrivere per, e lo scrivere per è una ricetta.

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L'espressione più vera del pensiero è il silenzio, ma dato che l'ho detto non è vero. Non è vero che

non è vero. Non è vero che non è vero che non è vero.:;:,:...

Il vivere per lo scrivere, ad esempio, sfocierebbe in un completo accomodamento dell'artista al suo

ego, raccolto e rafforzato dal suo pensée fixe. Ne deriverebbe una sempre più fine capacità di

riconoscere l'estraneità, di porsi cioè in una condizione di scelta. Si costruirebbe il tavolo e la sedia,

la penna, a suo piacimento, così come tutto ciò che serve alla sua immaginazione. Potrebbe persino

arrivare a considerare l'idea di scrivere da sé i libri da leggere per guadagnare l'ispirazione alla

stesura del suo testo essenziale.

L'intelligenza è come la temperatura: è definibile un grado minimo, ma non uno massimo. Oltre una

certa temperatura le cose si riscaldano, oltre un'altra si bruciano, oltre un'altra ancora si

metamorfosano. Sono possibili processi chimici che a temperature normali sono fantascienza.

L'intelligenza bruciante pianifica, quella metamorfosizzante crea. Creare è il non arrendersi

all'eccesso di variabili, dato dal riconoscimento di esse come incognite; è il riconoscere

l'impossibile come troppo difficile, e il troppo come moltissimo.

E' da quelle temperature che noi veniamo e, volenti o nolenti, ad esse ritorneremo.

Quest'ultimo brano invece è di un certo Cristiano Nicolaiti.

Siamo tutti geni quando dormiamo. Questo quotidiano solitario, pallina contro il muro prima del

match, masturbazione prima del sesso proprio, ci convince che la morte ci deifichi.

Sapere è potere.

Chi muore vive in eterno.

RISOLVENTI

Chi muore sa tutto e può tutto nell' eterno.

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Page 15: nato morto

Non è morto ciò che può vivere in eterno, e in strani eoni anche la morte può

morire.

A pensarci, il concetto di porta è ben più semplice di porta murata, o di porta che da' a un muro.

Chi l'ha fatto quel muro? In quanto tempo? Chi vuole applicare questo ragionamento alla porta

stessa, divelga la maniglia, scardini i cardini. Non una porta, la morte è un varco.

Tutto questo non ha senso, se il sonno non è la nostra morte quotidiana, e se l'immaginazione di

Lovecraft superava addirittura il suo intelletto.

Ciò che salva dalla morte è la pianificazione portata all'eccesso. A un disperato senso del poi alla

fine della vita, contrappongo un eccitante senso del prima, all'inizio. E' questa l'intelligenza nel

mondo degli uomini, la previsione. L'estrapolazione di leggi per prevedere i fenomeni. Una volta

estrapolata, la legge diventa fenomeno, e può conglomerarsi in altre macroleggi. Una persona

brillante, diciamo geniale, con metodo e pazienza (con ossessione rutinica) può nel giro di decenni

estrapolare leggi nell'ordine di decine, e macroleggi nell'ordine di unità. Può pensare abbastanza

velocemente da vedere il frutto del suo lavoro prima di intraprenderlo, e questo è il carburante della

felice ricerca che culminerà, probabilmente, dopo anni, ai risultati. Decisivi, se sei un genio,

sconvolgenti, se sei un supergenio.

Ora: cosa, se in una persona svolge in un giorno ciò che un genio svolge in anni?

E' forse un super-super-mega-ultra genio? O forse è il più cretino di un'altra specie?

Is it better to reign in Hell, or to serve in Heaven? Soprattutto: quale ricerca vale la pena

intraprendere se finisce appena iniziata?

E se un tal tale ha ricordi della sua vita in utero? O addirittura la sua intelligenza fosse così precoce

da poter ascoltare dalla pancia ciò che avviene nel mondo reale?

Il mio fratellino è più intelligente di Aristotele, solo perché quest'ultimo non era in grado di

craccare i videogiochi dal web?

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Macrolegge, pianificazione, Scrittura, Cristo, Morte, Resurrezione nella Carne.

Mi lanciai a capofitto nella disperata ricerca della mosca viola. Ritagli di giornale, mappe,

concettuali e geografiche, postit, libri sparsi... la casa era un macello. A partire dal 1999, mi dotai

persino di un computer. Ero riuscito a prendere contatti con gente, le cui voci ambigue piano piano

presero forma e consistenza finché, l'11 gennaio del 1988, non bussai trionfante al campanello di

una casupola sperduta in provincia di Benevento.

Ad aprirmi fu un vecchio. Mi disse che il ragazzo era uscito di casa tre giorni prima, perfettamente

deciso a intraprendere la vita religiosa.

Se il ragazzo di cui parlava (che si faceva chiamare Salvatore Eriugena) fosse stato Cesare, cosa

davvero molto probabile, lo avevo mancato di soli tre giorni. Tre giorni! Mi consolai un poco al

pensiero che se fossi arrivata tre giorni prima, sarei comunque stata in ritardo di tre giorni.

Dopo quell'episodio le mie ricerche rallentarono alquanto. Decisi di dare retta al mio sventurato ex

marito e non cercarlo più, nonostante il mio occhio restasse vigile a ogni possibile connessione.

***

"Annuntio vobis gaudium magnum: Habemus Papam! Eminentissimum ac reverendissimum

dominum Sanctae Romanae Ecclesiae cardinalem Emmanuel, sibi nomen imposuit Eucaliptus! "

"Carissimi fratelli, pur care sorelle,

bella!! Innanzi tutto vi confesso, che è tutta la vita che sogno questo giorno!

Ogni mio gesto, ogni mio respiro fino ad ora è stato calibrato sul conseguimento di questo scopo.

Avevo ventinove anni, da poco entrato in seminario, un mio amico mi fa':"Hei Cé, cervellone,

scommetto che non ce la fai a diventare papa!". Scherzo. Era già da molto prima che egli mi

provocasse, che desideravo ciò. Vi chiederete che ca...o significa Eucaliptus, come nome di Papa.

Sapete tutti che in greco Ευκάλυπτος significa: "nascondere come si conviene", ma ciò di cui avete

bisogno non è una lezione di etimologia, ma una lezione di vita! Vi chiederete se ha senso

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ascoltarla da uno che ha modulato tutta la propria su un evento che molto probabilmente non

sarebbe accaduto, ma che volete... avevo proprio bisogno di qualcosa in cui credere dal momento

che in (aha! Hahaha!) che in Dio proprio non ci riuscivo. Non preoccupatevi, il vostro papa non è

ubriaco, è solo sincero. Suvvia, vorreste farmi credere con quelle bocche spalancate che invece voi

credete in Dio? Si? Infatti avete ragione. Ho ragione io e avete ragione voi.

Adesso vi dico una cosa, una piccola cosa insignificante che causa prurito alla testa, accelerazione

cardiaca, e una inarrestabile voglia di cambiare esistenza: vi dirò la Verità! Domani..."

A quel punto succede ciò che tutti sappiamo. Qualcuno, probabilmente un vescovo o un cardinale,

lo spinge da dietro facendolo precipitare, di fronte alla massa che ancora doveva finire di scioccarsi

per le parole da lui appena pronunciate.

Il video, che ha quasi raggiunto cinque miliardi di visualizzazioni su youtube, ha avuto profondi

effetti in tutti quelli che l'hanno visto. I più credenti sono morti per la delusione, i più intelligenti

sono morti dalla curiosità di sapere come il discorso sarebbe andato a finire. Gli altri hanno

continuato a vivere, chi meglio, chi peggio di prima. I filosofi hanno tutti esultato.

Chi da tempo cantava il relativismo, ne aveva la prova; i fautori del determinismo, ne avevano

l'effetto più estremo. Un tale, un certo Giovanni..., utilizzando la stessa terminologia e gli stessi

espedienti di Aristotele, risolse questo problema dell'uovo e della gallina asserendo che il

relativismo viene prima ontologicamente, mentre il determinismo lo precede dal punto di vista

logico. Per aver scongiurato, col solo uso della dialettica, gli inevitabili scontri ideologici che

sarebbero seguiti alla morte di papa Eucalipto, ma in realtà per motivi che tutti ignorano, gli

assegnarono il Premio Nobel per la Pace.

In quel breve filmato è provato tutto ciò che ho detto finora: la poesia di Aniello Placido, gli scritti

di Cristoforo Sparvieri e Cristiano Spelonca, il ritiro a vita religiosa di mio figlio... e quel "Cé" che

si è fatto scappare sta per Cesare: non è vero, come in molti credono, che ha balbettato "cervellone".

Emanuele Pazziastri, cioè Cesare, mio figlio, le cui spoglie sono state sottratte al mondo con la

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stessa sospetta fretta di quando fu tolto al mio seno...

So che è tanto, troppo, credere a tutto questo. Tuttavia, a costo di condannarmi al ridicolo e rendere

vana la mia piccola speranza iniziale, mi sento di aggiungere: Cesare non è morto. Non so cosa si

sia inventato, non so a cosa si sia ispirato per inventarlo, ma lui passeggia tra di noi, con occhiali da

sole e un sigaro in bocca, fresco fresco di plastica facciale magari, beffandosi di tutto ciò che ha

combinato. E se è vertiginosamente fuori del mondo almeno un centesimo di quanto l'ho conosciuto

io, sono sicura che la prossima volta che sfuggirà alla morte, non sarà per finta. Almeno.

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