Noch hab ich mich ins Freie Nicht gekämpft - iperborea.com · gnificante degli uomini liberi....

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Noch hab ich mich ins Freie Nicht gekämpft * . Goethe * Ancora un libero spazio non mi son conquistato. (N.d.T.)

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Noch hab ich mich ins FreieNicht gekämpft*.

Goethe

* Ancora un libero spazio non mi son conquistato. (N.d.T.)

CAPITOLO I

IL FORTE BIANCO

Le merci che si trasportano dalla Danimarcain Guinea sono essenzialmente acquavite,polvere da sparo e fucili a schioppo. In cam-bio di tali mercanzie si ottengono oro, schia-vi e zanne d’elefante, oltre alle provvigionisugli schiavi che devono essere esportati. Lenavi della Compagnia caricano tanti schiaviquanti riescono ad assicurarsene, e li condu-cono a San Thomas, nelle Indie Occidentali*.

Ludvig Holberg

* Le Indie Occidentali Danesi, Saint Croix, Saint Thomas eSaint John, corrispondono alle attuali Isole Vergini Americane nelMar dei Caraibi. (N.d.T.)

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Avevamo un forte in Africa. Si trova ancora laggiù,costruito su un basso sperone di roccia, nel punto incui la costa sembra allungare un piede in mare. Lemura imbiancate a calce risaltano in mezzo alle pal-me. Sul portale d’accesso c’è il monogramma di Cri-stiano VII. Ogni volta che una palma vicina si agita nelvento, la sua ombra frastagliata passa e ripassa sulleiniziali, come in un vano tentativo di cancellare la vec-chia iscrizione.

Dai bastioni che sovrastano il portale puoi arrivare avedere lontano nell’entroterra. Prima la savana, con ilmiscanto alto come un uomo e qualche baobab isola-to qua e là, poi le alture di Akwapim, dove comincia laforesta pluviale. Hai promesso a certi bambini diAkwapim di comprare loro un pallone. Rimani un po’con i gomiti appoggiati al parapetto. Da qui si poteva-no seguire le lunghe colonne di negri che scendevanoverso la costa per essere venduti al forte danese. Haivisto qualche volta un gruppo di africani attraversare ilprato del campus universitario: è libero e aperto daogni lato, ma loro camminano lo stesso in fila indiana,e se c’è stata una partita di calcio tra bianchi e neri, igiocatori europei lasciano il campo a piccoli gruppi,mentre gli africani se ne vanno in una lunga fila, comese seguissero un tracciato invisibile nell’erba tagliata difresco, gli stretti sentieri dei progenitori attraverso lagiungla e la savana. Così camminavano gli schiavidiretti al forte bianco. Uno a uno. Passo dopo passo.

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Spesso erano stati in viaggio per settimane, a voltearrivavano da villaggi distanti più di cento miglia, nel-l’interno del paese, molti di loro avevano già cambiatomolti proprietari. Prima, tutto era diverso. Prima diquel tempo erano uomini liberi e vivevano la vita insi-gnificante degli uomini liberi. Pescavano nel fiume.Andavano a caccia nella foresta. Lavoravano il ferro,tessevano e fabbricavano vasi d’argilla. Si sposavano eavevano figli. Poi, un giorno, avvenne che il villaggiofu circondato e assalito. In una vecchia ballata dell’exterritorio danese una donna negra dice:

Se hai compiuto cattive azioni,Se hai compiuto cattive azioni,Esse ti condanneranno.Se hai compiuto cattive azioni,Le tue cattive azioni Alla fine ti perderanno.

Ma io zappavo la terra dietro alla mia capanna,Ero come una giovane pollastra Catturata per essere venduta.Non ho mai rotto un vaso d’argilla,Non ho mai ammaccato un piatto di stagno,Eppure mi hanno preso e venduto.

Erano come giovani pollastre. I loro uomini eranoagili e snelli. Uomini e donne possedevano la stessanatura allegra. Diffidavano della velocità. Non conce-pivano la fretta. Amavano i colori forti, i tamburirumorosi e le decisioni ponderate. Conoscevano ivasti crepacci nel folto della foresta pluviale, dove loscroscio delle cascate, tra nuvole d’acqua polverizzata,è zittito solo dai brevi temporali pomeridiani. Avevanovisto gli ippopotami accoppiarsi sotto la luna piena.Sapevano che la bile del coccodrillo è un veleno rapi-do ed efficace. Pensavano che il grasso che si trova

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sotto la pelle della leonessa giovasse ai reumatismi.Ma non avevano mai conosciuto il mare, né visto unaruota, né incontrato un uomo bianco. Ora si avvicina-vano lentamente a tutte queste cose. Uno a uno. Passodopo passo. Il mare, la ruota e l’uomo bianco. Dietrodi loro il cammino era costellato dei malati che nonriuscivano a tenere il passo: uomini e donne e bambi-ni giacevano qua e là lungo il sentiero e morivano difebbre malarica.

Il forte si chiamava Christiansborg. Il nome venivapronunciato con l’accento sulla prima sillaba, come lecittà di Christianssted e Frederikssted nelle isole delleIndie Occidentali. Era lo stile coloniale danese: qui,sotto i tropici, i nomi familiari mutavano di colorecome i fiori d’appartamento quando vengono piantatiin terra estranea. Christiansborg è in Guinea, nelpunto in cui la grande gobba dell’Africa occidentalecurva all’indietro e dà inizio a una costa meridionalequasi rettilinea lungo l’oceano Atlantico: la Costa delpepe, la Costa d’avorio, la Costa d’oro e la Costa de-gli schiavi. Christiansborg si trova sulla Costa d’oro,ma quando nel 1661 l’ottimo Christen Cornelis-søn posò la prima pietra del forte bianco, la vecchiasuddivisione portoghese aveva già perduto il suosenso. Il commercio dell’oro e dell’avorio era diminui-to, ma l’Africa era ancora un’ottima fornitrice di uomi-ni: il giro d’affari s’era ampliato di anno in anno etutta la Costa, dalla Gambia al Niger, era diventata laCosta degli schiavi. I danesi di Christiansborg passaro-no allora a denominazioni più semplici: il tratto aovest del forte venne chiamato Costa alta, mentre laCosta bassa comprendeva la parte che si allungava aest, verso il Niger. Nella lingua di tutti i giorni i posse-dimenti danesi erano chiamati semplicemente “laCosta”, e i funzionari che vi erano assegnati in servizio“gente della Costa”. Dal tuo posto sul bastione puoiabbracciare con lo sguardo quasi tutto il territorio

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danese, che aveva la forma di un triangolo isoscele. Aun paio di tiri di cannone a ovest, il forte olandese diCrèvecoeur e l’inglese Saint James sono immersi nellafoschia dorata e polverosa che aleggia su Accra. Accraè oggi la capitale del Ghana indipendente. Ti trovi alvertice occidentale del triangolo danese. Da Accra ilconfine seguiva all’incirca il piede dei monti che siinnalzano verso l’interno in cime scoscese fino aincontrare, dopo un centinaio di chilometri a nordest,il fiume Volta. Qui la linea del confine deviava perseguire il corso del fiume fino alla costa. La base deltriangolo era la spiaggia di sabbia bianca che si proten-de a est, e la cui lunga risacca è come una linea digesso sottile e sinuosa nell’azzurro dell’oceano.

Lungo tutta la spiaggia le palme si affacciano agruppi di due o di tre sul mare con la loro chioma ar-ruffata come nel disegno di un bambino. Non cresco-no palme sulla pianura triangolare, e si può avere l’im-pressione che ad un certo momento gli alberi ab-biano cominciato a migrare verso il sud del paese finoal punto oltre il quale non potevano più proseguire.Come le lunghe file degli schiavi, che scendevano apiedi fin sulla costa per essere venduti al forte bianco.

Passo dopo passo. Uno a uno. Silenziosi e gron-danti nel caldo umido dei tropici. No, non erano inca-tenati gli uni agli altri come si vede nelle illustrazionipopolari. Il ferro era un materiale costoso e, inoltre,chi si sarebbe trascinato indietro tutto quel peso unavolta concluso il mercato al forte, quando si dovevatornare nella foresta in cerca di rifornimenti? Il daneseL.F. Rømer racconta nel 1754: “Il braccio destro delloschiavo è fissato con un rampone di ferro a un grossopezzo di legno, che lo schiavo riesce a malapena a sol-levare. Lo schiavo deve portarlo sulla testa, e si fa que-sto per impedirgli di fuggire”. Così avanzavano nellaforesta vergine. Oltre la cima degli alberi il sole splen-deva da un cielo azzurro: quaggiù regnava un eterno

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crepuscolo. Fuori il vento poteva soffiare a volontà:quaggiù non si muoveva una foglia. Alberi, cespugli erampicanti lottavano per ogni pollice quadrato di ter-reno. Tamarindi, alberi del drago, acacie e bombax,alberi del kapok i cui primi rami crescevano a centopiedi di altezza, alberi del burro la cui corteccia pro-duceva una sostanza gialla e vischiosa, palme a venta-glio e palme da olio, alberi della gomma, l’acaciahomalophylla e le belle querce africane dalle foglieargentate si innalzavano sopra un fitto sottobosco dibambù, pruni e felci, mangrovie cespugliose conun’infinità di radici, banani selvatici e olivastri, alberidi fico con le foglie spesse e carnose, la nera palma lecui noci danno l’avorio vegetale, la pianta dell’inchio-stro, gli arbusti del pepe dalle bacche rosso fuoco, lozenzero amaro e il lungo rattan dalle foglie piumate.Da mille rampicanti l’umidità gocciolava sui corpiaffaticati, l’aria impregnata d’acqua era pesante darespirare, il vaiolo e la dissenteria decimavano lacolonna, le spine penetravano nei piedi nudi e forma-vano ascessi che rendevano quasi impossibile conti-nuare a zoppicare. Dovevano tendere ogni singolomuscolo del corpo per evitare la frusta di cotennad’ippopotamo dei sorveglianti, avanzare nel fango deipantani, scavalcare i tronchi caduti, guadare corsid’acqua pieni di sanguisughe e serpenti. Con il brac-cio libero scartavano cespugli e rami, con l’altro tene-vano fermo sulla testa l’inutile carico. Non lo abban-donavano mai: anche la notte, dormendo, lo tenevanoin braccio come una rozza bambola. Le donne eranopiù docili. Una semplice fune annodata da un braccioall’altro bastava di regola a mantenerle in fila. Deibambini non si teneva conto: erano obbligati a seguirealla meglio sulle loro piccole gambe magre e nere, epoco male se qualcuno rimaneva indietro. I bambininon valevano quasi nulla al forte bianco.

Non c’è un filo d’ombra sul bastione. I vecchi can-

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noni danesi di bronzo bruciano da far venire le vesci-che sulla pelle, se per sbadataggine capita di posarvi lamano. Christiansborg si trova a cinque gradi di latitu-dine nord, dalla batteria si gode una vista magnificasull’equatore. Ti trovi nella cintura equatoriale, l’impe-ro del sole sulla terra, vegliato a nord da un granchio ea sud da un capricorno. Niente stagioni, la stessa quan-tità di fiori a gennaio e a luglio, giorno e notte ugual-mente divisi nel perpetuo equinozio dei tropici. Nien-te albe né crepuscoli, la luce del giorno si accende e sispegne come se ogni giorno alla stessa ora qualcunopremesse su un interruttore. Il sole sorge esattamentea est, quasi con un salto, e rimane allo zenit per qua-si tutto il giorno, perciò la gente se ne va in girosenz’ombra come i dannati nell’inferno di Dante. Per-fino la notte è difficile che il termometro scenda sottoi trenta gradi, ma non è aria secca riscaldata a quellatemperatura. È vapore. Dove le case di pietra hannole finestre, il vetro all’esterno è appannato. Una giaccalasciata appesa in un armadio si copre di muffa nelgiro di una settimana, e la bella camicia stirata di fre-sco che hai messo stamattina ti si appiccica addossocome se fossi caduto in acqua. L’aria umida arriva colmonsone di sudovest: dicono sia il vento più anticodella terra, e il più costante, ma qui sulla costa dellaGuinea non è altro che una brezza leggera che faoscillare l’ombra delle palme sulle iniziali di CristianoVII. Solo la forza delle onde rimane la stessa, e anchenei giorni senza vento la risacca percuote la costa.Allora il mare davanti al forte bianco sembra unabelva affamata, che si limita a mostrare i denti senzadarsi la pena di alzarsi. Verso dicembre il monsonespossato incontra un avversario forte e minaccioso, ela bandiera danese, che ha languito per mesi versol’entroterra, si mette di colpo a schioccare tesa verso ilmare. L’harmattan è un vento del deserto. Mentre ilmonsone di sudovest non ha fatto mai altro che sof-

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fiare sugli oceani d’acqua salata dell’Atlantico, l’har-mattan conosce solo gli oceani di sabbia del Sahara.Lo scontro tra i due dà origine a violenti tornado, chei danesi chiamavano travater: nubifragi improvvisi ac-compagnati da tuoni, fulmini, venti di violenza inaudi-ta e un diluvio d’acqua. In aprile queste battaglie siconcludono con la vittoria dei monsoni, a dicembrevince l’harmattan. Ed è allora che al forte bianco arri-va davvero il caldo. La canicola ardente che per tuttal’estate si è accumulata sul Sahara è sospinta dal ventosulla costa. Un sottile strato di sabbia si deposita suibei mobili di mogano. Di giorno la temperatura salenormalmente fino ai quaranta gradi. Ma l’umidità èscomparsa. Il legno si spacca per l’arsura, le unghie sispezzano per un nonnulla, il governatore deve adat-tarsi a scrivere i suoi rapporti a matita perché l’inchio-stro si secca dentro la penna d’oca, e il suo sputo sulpavimento è già quasi scomparso quando lo schiavonegro al suo fianco si china per pulirlo. Verso il mesedi maggio, quando la prostrazione è al culmine, tornail monsone di sudovest e ricomincia il grande bagnodi vapore della stagione delle piogge. I libri contabili,la biancheria da letto, le parrucche: ogni cosa al fortedev’essere strizzata come uno straccio prima di poter-la usare. È il momento delle grandi carneficine. Mala-ria e febbre gialla. Tifo e dissenteria. Verme della Gui-nea e itterizia. In una parola: febbre dei tropici. Solouna minoranza, tra gli abitanti della costa, riusciva asopravvivere a lungo agli scontri tra il monsone e l’har-mattan. La sopravvivenza media al forte superava dirado l’anno, e a chi arrivava di lunedì toccava spessoun’orazione funebre nella funzione della domenicasuccessiva. Altri erano già psicologicamente annientatimolto prima che il loro fisico si deteriorasse. La febbredei tropici risparmiava loro la vita, ma ne aggrediva ilcarattere, fiaccandone i sentimenti, rendendoli biliosie irascibili, spingendoli al punto in cui l’unica gioia

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dell’esistenza si riduceva a una silenziosa, malignabrutalità. Lontani dalla patria, costretti a mesi e annidi attesa per le lettere dei loro cari, distrutti dal caldo,dalle febbri, dall’alcolismo e dalle malattie veneree,amareggiati dall’insofferenza reciproca e maledicendola loro stessa miseria, i demoni bianchi nel loro fortebianco aspettavano l’arrivo del popolo della foresta.

Come un enorme bruco la colonna usciva dalla fo-resta snodandosi in mezzo all’erba della savana. Uomi-ni e donne erano in media nel fiore degli anni, alti e

Porta d’ingresso di Christiansborg con il monogrammadi Cristiano VII di Danimarca.

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ben fatti con le loro membra lunghe e snelle, il nasolargo e le orecchie piccole, i corti capelli lanosi. Tran-ne che sul palmo delle mani e sulle piante dei piedi,erano completamente neri. Non dorati come l’erbariarsa intorno a loro. Non bruni come la terra sotto iloro piedi. Ma neri. Come l’acqua del fiume di notte.Come l’acqua nel pozzo di giorno. La pelle nera face-va risaltare i denti armoniosi e lucenti, e dava a voltealle pupille scure circondate di bianco una profonditàd’espressione che costringeva gli europei a distoglierelo sguardo, prima con imbarazzo, poi con odio. Gliuomini camminavano con passo elastico e cadenzato,ben dritti sotto il loro blocco di legno. Donne anchegiovanissime portavano un bambino sulla schiena, inuna striscia di stoffa annodata intorno alle reni. Moltineonati erano venuti al mondo durante il viaggio,all’ombra di una foglia di banano, nel breve intervallotra due tappe di marcia. Le madri avevano la schienacoperta da graziosi tatuaggi geometrici, realizzatisenza colori, ma con il succo di piante speciali che,inoculato sottopelle, causava delle minuscole tumefa-zioni. Talvolta però un colpo di frusta ne aveva sciupa-to con un largo fregaccio il disegno perfetto. A cosapensavano mentre camminavano in quel modo? Laloro vita interiore era già paralizzata, i sentimenti an-nebbiati? Avevano già pianto tanto da non poter piùpiangere, e sofferto tanto da non poter più soffrire?Tutti i testimoni dell’epoca si meravigliano della rasse-gnazione con cui gli africani andavano incontro al lorodestino, e molti vedevano in questo una prova ulterio-re della destinazione naturale dei neri a una vita disottomissione e schiavitù. Non c’è niente da fare: èquel che Dio aveva in mente per loro, dicevano i capi-tani delle navi facendo girare il rum. Erano marinaicapaci di tracciare una rotta lossodromica anche instato di ebbrezza, ma non etnologi. Si possono tra-sportare delle casse da una parte all’altra del mondo

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anche senza sapere cosa c’è dentro. I capitani nonconoscevano la natura dei negri, si davano per vinti difronte ai loro dialetti difficilissimi, non capivano quellamuta rassegnazione che era come una segreta alleanzacontro il destino, uno scudo contro le frustate piùforti. La mosca tse tse attacca invano la tartaruga,diceva l’intelligente figlio di Akuffo. Anche il più fierodei galli è nato da un uovo. La pioggia può bagnare lemacchie del leopardo, non cancellarle. Ma il Signoredispone degli animali senza coda.

L’animale senza coda è l’uomo, e così il Signoredisponeva che la lunga colonna raggiungesse infine ilvillaggio di Orsu sotto le palme, alle spalle del fortebianco. I prigionieri venivano condotti all’interno diun recinto, i blocchi di legno spaccati per liberare ilbraccio che nel frattempo era diventato grosso il dop-pio dell’altro, uomini e donne completamente rasati inogni parte del corpo e unti d’olio di palma dalla testaai piedi perché fosse più difficile per i compratorivalutarne con precisione l’età, il fattore decisivo nelcalcolo del prezzo. Scopo analogo aveva pure il bic-chiere di acquavite distribuito ai negri per risollevareloro il morale subito prima di condurli al forte. I bian-chi preferivano schiavi contenti, troppi sguardi afflittifacevano scendere i prezzi. Ma con questo i preparati-vi erano anche finiti. I prigionieri venivano di nuovomessi in fila. La luce scintillava sulla sfilza di cranirasati. Qualche secco comando rompeva il silenziosotto le palme. Poi il lungo bruco cominciava len-tamente a salire verso il portale con le iniziali di Cri-stiano VII.

Oggi Christiansborg serve da abitazione privata alpresidente del Ghana indipendente. Il forte è tenutosotto stretta sorveglianza, e hai dovuto ottenere unpermesso personale del presidente per potervi acce-dere. Non sei stato autorizzato a fare disegni né foto-grafie, ma puoi andare in giro più o meno a tuo piace-

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re. Dai bastioni meridionali la vista è aperta sul mare.Quale altro edificio danese del passato ha una posi-zione tanto bella? Osservi la sabbia bianca ai piedi delmuro ancora più bianco, il cielo azzurro sul mare an-cora più azzurro. Ritrovate sotto l’equatore, le lungheestati della tua infanzia ti portano i saluti della felicità,la tua patria lontana, come i cannoni di bronzo fusi200 anni fa in una città molto lontana da qui, di nomeFrederiksværk. Al largo una macchia di luce si propa-ga sulla superficie del mare, ma non si sposta al pas-saggio delle nuvole: è il lieve riflesso del banco di sab-bia dei cinq-sous, come lo chiamano i danesi dal nomedei pesci che i negri catturavano laggiù. “Quel nomeveniva dal fatto che molto tempo fa alcuni francesi,non riuscendo a farsi capire dai negri, offrirono cinquesoldi per ognuno di quei pesci. I negri pensarono chefosse quello il loro nome, e ora esso è usato abitual-mente”, scrive il pastore danese H.C. Monrad nel1822. Anche oggi i pescatori tornano dal banco, ingi-nocchiati a gruppi di sei nelle loro canoe scavate in ununico tronco d’albero. La minuscola flotta sembra undisegno inciso sulla lastra lucente del mare. Mentre siaprono un passaggio attraverso la risacca, i pescatorilevano un canto al ritmo dei colpi dei remi:

Everybody lovesEverybody lovesEverybody lovesSaturday night!

Poi ti volti. Lasci il bastione. Scendi per le scale inter-ne e arrivi nel cortile del forte. Gli alti muri sono statiripassati a calce tante volte che ogni angolo e ogni spi-golo è arrotondato. Qua e là si distingue qualche ini-ziale e una data, soldati e governatori, signori effimerisul trono del tempo. Una larga scala di pietra sullosfondo conduce all’alloggio del governatore, affacciato

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sul mare. Un po’ avanzata rispetto al centro del cortilec’è la cisterna dell’acqua, con una lunga iscrizione indanese. Sopra la cisterna cresce come ai vecchi tempiun’acacia verde dai rossi fiori fiammeggianti. Il caldonel cortile cintato è insopportabile. Attraversi in frettail piazzale e ti rifugi all’ombra dell’albero. Accendi lapipa. Inspiri il fumo. È qui che accadeva.

Una tratta regolare poteva durare diverse ore, edera spesso accompagnata da diversi svaghi. Da partedanese l’acquisto era affidato a un funzionario realeassunto allo scopo, che beneficiava di una percentualesui guadagni ed era chiamato capo agente commercia-le o commissionario. Al suo fianco c’era il medico delforte e un gruppo di soldati incaricati di mantenerel’ordine tra i neri. A un suo segnale la lunga colonnaveniva introdotta nel forte e disposta in cerchio nelcortile, mentre si controllava attentamente che tutte leabituali misure di sicurezza fossero rispettate. Il medi-co Paul Isert scrive nel 1792: “Tutti gli schiavi di sessomaschile hanno le mani legate dietro la schiena, anchese sono solo bambini di cinque anni. Eppure è acca-duto talvolta che uno schiavo per l’umiliazione abbiamorso un europeo che doveva ispezionarlo”. A quelpunto si poteva procedere all’esame di ogni singolonegro. Il pastore Johannes Rask scrive nel 1710: “Glischiavi devono essere osservati con grandissima atten-zione dal medico della fortezza, per vedere se possatrovarsi in loro qualche difetto, anche il più piccolo,esterno o interno, perché in quel caso vengono subitoscartati, e il loro prezzo scende. Per questo motivooccorre nascondere alla vista degli schiavi il coltello eogni altro oggetto tagliente: perché è capitato soventeche si siano tagliati le dita delle mani o dei piedi o leorecchie, per evitare di essere venduti”.

Benché di solito ci si basasse su tariffe fisse, siescludessero tutti quelli che sembravano aver supera-to i trentacinque anni e si dividessero gli altri secondo

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il valore di uno schiavo intero, metà o un terzo, ogninegro della lunga colonna poteva essere oggetto diuna lunga contrattazione prima di trovare un accordosul prezzo. Il venditore decantava l’eccellenza deglischiavi: di un uomo metteva in luce la forza, l’intelli-genza e il buon carattere, di una donna esaltava la no-bile discendenza (figlia di un capo!) e l’illibatezza ga-rantita (verificate voi stessi!), e si lamentava degli alticosti legati al loro trasporto attraverso la foresta plu-viale. L’agente ascoltava quelle spiegazioni con un sor-riso per metà condiscendente e per metà d’intesa, fa-ceva avanzare i negri e mostrava, tra le risate spavaldedel pubblico, tutti i difetti trovati dal dottore. Ma iprezzi variavano anzitutto secondo le circostanze. Senella rada c’erano molte navi alla fonda, il venditorepoteva contare su un guadagno consistente; se c’era-no state molte guerre tribali con un gran numero diprigionieri, il valore degli schiavi diminuiva. Certe vol-te le navi dovevano ripartire con solo metà carico, al-tre, secondo Rømer, si poteva comprare un africanoper una bottiglia d’acquavite.

Conclusa la tratta, i negri che erano stati acquistativenivano rinchiusi nelle cosiddette “casse degli schiavi”,scantinati di pietra con il soffitto a volta sotto i bastio-ni orientali del forte. Nessuno di loro conosceva ildestino che lo attendeva. Il pastore H.C. Monrad scri-ve nel 1822: “Gli schiavi passano la notte su tavolaccidi legno, ammassati gli uni sugli altri, in quella cantinabuia in cui penetra appena un filo d’aria da un’apertu-ra quadrata e munita di sbarre di ferro nella portablindata. Spesso mi sono meravigliato di come nessu-no soffochi là dentro, poiché il calore, aggravato dalledeiezioni di molti uomini, composte di tutto ciò di cuidi tanto in tanto bisogna sbarazzarsi e che viene rac-colto in grosse tinozze, genera un tanfo assolutamentedisgustoso che il mattino, quando le porte si apronocigolando, si sparge ovunque e appesta l’aria”.

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Nel secolo scorso il piano superiore di Christians-borg fu distrutto da un terremoto: la chiesa e l’abitazio-ne del governatore crollarono e le ricostruzioni attualisono più recenti. Ma i solidi bastioni che sovrastano le“casse degli schiavi” hanno resistito. Sono ancora qui.Puoi lasciare l’ombra delle acacie, attraversare in diago-nale il cortile, tirare il catenaccio di ferro battuto edentrare nelle stanze. Stime diverse hanno stabilito cheognuna di esse poteva contenere circa trenta, quarantapersone. I tuoi passi rimbombano sotto le volte di pie-tra. Non ci sono finestre, ma nonostante l’oscurità ti seisubito reso conto che la più grande delle stanze nonsupera i cinque metri di lunghezza.

Il tempo che gli schiavi dovevano trascorrere quidipendeva da quando le navi sarebbero arrivate sullaCosta. Talvolta si trattava solo di qualche settimana,altre volte potevano passare mesi. Si poteva star certituttavia che i danesi avrebbero preferito abbreviarequel tempo il più possibile. I numerosi decessi cheavevano luogo erano una delle spiacevoli voci passivedel bilancio annuale. Gli schiavi erano acquistati perconto della Compagnia e, se la nave che arrivava eradanese, erano imbarcati e condotti nelle Indie Occi-dentali senza altri passaggi intermedi. Ma i viaggidanesi sulla Costa non erano frequenti, fatta eccezio-ne per il periodo intorno al 1780, in cui la Danimarcainviava annualmente una decina di navi negriere inGuinea, e che perciò ha preso il nome di “epocad’oro”. Per mantenere un buon giro d’affari, per tuttala storia del forte i danesi dovettero vendere schiavialle navi straniere. Anche questo commercio si svolge-va al forte, e gli acquirenti stranieri non erano menoscrupolosi nella negoziazione di quanto non fosserostati in un primo tempo i danesi. Il capitano inglesePhillips, che arrivò qui con la nave negriera Hannibal,scrive nel 1694: “Poi gli schiavi vennero portati dentrodivisi per qualità e per categoria, i più alti per primi, e

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uomini e donne erano separati. Tutti erano completa-mente nudi, e il nostro medico di bordo li esaminò inmodo approfondito per vedere se erano sani, agili eben fatti. Il più piccolo difetto nelle membra volevadire una riduzione del prezzo. Il medico si assicuròche fossero in grado di sentire e di parlare, fece ese-guire loro qualche salto e chiese di tendere veloce-mente le braccia in dentro e in fuori, poi lanciò unsasso a una certa distanza e ordinò loro di andare ariprenderlo come dei cani, gli apriva la bocca per sti-marne l’età in base all’usura dei denti. Ma l’attenzionepiù grande era dedicata alla ricerca di un eventualecontagio della sifilide, perché se pure teniamo separatigli uomini dalle donne sulle navi, essi avrebbero forsepotuto trovare qualche occasione per incontrarsi, e lamalattia è molto diffusa da queste parti. Perciò ilnostro medico era obbligato a esaminare le parti piùnascoste sia negli uomini sia nelle donne con la piùgrande attenzione, il che è molto penoso ma inevitabi-le. Il lavoro del medico era seguito con vivo interessedagli schiavi più giovani, che sgranavano gli occhi escoppiavano a ridere quando si arrivava all’ultimaparte della visita”.

Raggiunto l’accordo sul prezzo, lo schiavo venivamarchiato a fuoco. Il francese John Barbot scrive nel1746: “Bisognava marchiare lo schiavo immediata-mente dopo la vendita, altrimenti il venditore trovavaspesso il modo di cambiare lo schiavo venduto con unesemplare peggiore”. Senza il marchio a fuoco sareb-be stato difficile per i bianchi distinguere i negri gli unidagli altri. Se gli acquirenti erano molti, perciò, avevasenso proteggersi da successive sostituzioni e conse-guenti contestazioni per mezzo di un’immediata mar-chiatura. La marchiatura avveniva per mezzo di stam-piglie di ferro con un lungo manico, arroventate su unpiccolo fuoco a carbone. Di norma la stampiglia avevala forma di due lettere, il contrassegno della compa-

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gnia che aveva condotto l’affare. Anche la posizionedel marchio poteva variare di molto. Il danese L.F.Rømer scrive nel 1756: “Gli ufficiali di bordo poteva-no scegliere, al momento dell’acquisto, se lo schiavosarebbe appartenuto a loro o agli armatori. Tutte lenavi avevano un proprio ferro, con cui si marchiavanogli schiavi, spesso con il nome dell’imbarcazione. Seper esempio gli armatori avevano dato ordine di mar-chiare gli schiavi sulla parte destra del petto, il Ca-pitano stampava il proprio sulla parte sinistra, il Se-condo sul braccio destro, un altro sul sinistro ecc., per-ché gli ufficiali non avessero a prendere quello di unaltro, quando uno dei loro moriva”. Un missionarioherrnhutiano di nome Oldendorph, che aveva assisti-to di frequente a simili scene, scrive nel 1777 che nelpunto in cui lo schiavo deve essere marchiato vieneprima deposto un pezzo di carta oleata. Ma questoaccadeva nelle isole delle Indie Occidentali: di normain Guinea ci si contentava di ungere la parte con unpo’ d’olio di palma prima che il ferro venisse premutocontro la pelle. La ferita veniva così ad assumere con-torni netti e facilmente leggibili. Un artista francese,A.F. Biard, ha dipinto un quadro in cui si vede unmarinaio che appoggia con espressione concentratauna stampiglia di ferro sulla schiena di una giovanenegra, mentre una piccola nube di fumo gli si sprigio-na intorno alle mani. Uomini, donne e bambini veni-vano marchiati allo stesso modo, tuttavia John Barbotaggiunge che “a questo riguardo si badava che ledonne, che sono più delicate, non fossero bruciatetroppo intensamente”.

Così la tratta era conclusa. Il governatore e i suoiospiti si avviavano su per l’ampia scala di pietra. Leporte del salone erano aperte sul giardino perché lafrescura della sera potesse entrare nella stanza. Chiac-chierando animatamente, i signori prendevano postointorno al lucido tavolo di mogano apparecchiato con

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le porcellane provenienti dalle rotte della Cina e poi,come racconta una cronaca dell’epoca, “lunghe filedi ragazze dal portamento fiero, liete e sorridentinella loro naturale nudità, entravano portando gros-se zucche piene di igname e di pesce stufato con oliodi palma, ortaggi e pepe”. Intanto gli schiavi acqui-stati erano incatenati insieme e condotti al luogod’imbarco, in fondo a una piccola insenatura subitoa est del forte, nello stesso luogo in cui ancor oggi ipescatori tirano a secco le loro barche sulla sabbia.Lasci il cortile e torni al bastione. Cammini senzaproiettare ombra come i morti nell’oltretomba diDante. Ti appoggi al parapetto e guardi la baia aipiedi del forte. Le palme scricchiolano nell’afa. Ilsole splende sulla sabbia bianca. Sul mare, la piccolaflotta incisa si avvicina al luogo in cui gli schiavi da-nesi venivano imbarcati. Il canto ritmico dei pescato-ri sovrasta il rumore della risacca. Sempre più forte,sempre più vicino. Tutti sono felici. Tutti sono felici.Tutti sono felici. Il sabato sera.